Quando penso alla vicenda cestistica di Riccardo Caneva non posso fare a meno di usare, nel suo caso, una similitudine evangelica che, ormai, è diventata parte del linguaggio comune: “Beati gli ultimi perchè saranno i primi”.
Questa frase, presente nel Vangelo secondo Matteo 20, 1-16, mi sembra due volte perfettissima per incorniciare la lunga “vita a spicchi arancioni” di Caneva.

La prima volta perchè Riccardo, seppur da ultimo arrivato nel mitico gruppo Pallacanestro Varese “62ers”, è stato quello che in termini di risultati ottenuti ad altissimo livello ha raggiunto il primo posto assoluto perchè unico tra i suoi compagni del settore giovanile ad aver messo insieme un “carrierone” da professionista in serie A: 19 stagioni in serie con 430 presenze e oltre 2000 punti segnati.

La seconda volta poichè il versetto di San Matteo è altresì noto come la “Parabola dei lavoratori della vigna”  e, quando di mezzo c’è Caneva, erede di una famiglia proprietaria di vigneti, produttori ed esperti di vino, capisci in un attimo che il cerchio virtuoso disegnato tra la pallacanestro e il divino soprannaturale non può mai essere solo frutto di coincidenze.

Intrecci che in una bella persona come Ricky, intelligente, sempre misurato, dotato di grande educazione e “charme”, disponibile, formano un “bouquet” di sentori che, usando i termini enologici, rendono Caneva un “Uomo Gran Cru”, ovvero un uomo di qualità superiore.

“Devi sapere – esordisce Caneva -, che in quella parabola mi ritrovo completamente perchè molto prima di infilarmi delle comode scarpe da pallacanestro ai miei piedi ho avuto per parecchi anni dei pesanti scarponi da contadino. Esattamente quelli che i miei genitori mi regalarono quando, ero ancora un bambino, andavo ad aiutarli per i lavori da eseguire nel vigneto di famiglia a Montaldo Bormida, provincia di Alessandria”.

Quando sei passato dagli scarponi alle, allora ambitissime, “All Star” di tela?
“Il passaggio avviene in seconda media grazie a Pino Gonella, professore di Applicazioni Tecniche e allenatore di basket, che vedendomi altissimo, già 198 centimetri, mi indirizza immediatamente verso Pallacanestro Acqui Terme, la società per la quale comincio a tirare a canestro lasciando il calcio e  specialmente il tamburello sport che allora, dalle mie parti, era seguito e praticato da tutti. Per circa un anno e mezzo faccio avanti-indietro sulla rotta Montaldo-Acqui Terme per fare allenamento e le prime partite nella categoria Ragazzi. Poi, siccome nella vita la fortuna e le coincidenze contano un bel po’, segnalo che a Carpeneto, un paese vicino al mio, risiedono i genitori di Giancarlo Gualco. Il general manager della grande Ignis, a conoscenza delle mie qualità fisiche, organizza un incontro con mio padre e nel giro di pochi giorni si concretizza il mio trasferimento alla Pallacanestro Varese. In qualità di ospite nella primavera del 1976 partecipo alle Finali Nazionali Ragazzi giocate a Porto San Giorgio, che purtroppo perdiamo. Poi da metà giugno alla fine di luglio mi alleno tutti i giorni perchè, è evidente, rispetto ai miei compagni tutti bravissimi e preparatissimi sono un giocatore grezzo e tutto da costruire tecnicamente e atleticamente. Però, animato da grandissimo spirito di sacrificio, tanta voglia di lavorare in palestra e migliorare e agli ordini di un insegnante di fondamentali fantastico come Carlo Colombo riesco a ridurre rapidamente il gap che mi separa dai miei futuri compagni. Nel settembre ’76 prendo possesso della mia stanza al “De Filippi” e sono pronto per iniziare ufficialmente la mia avventura con la Pallacanestro Varese col gruppo ’62 con cui, come ti avranno raccontato mille volte, nell’estate del 1977, alle Finali Nazionali a Pescara, ci prendiamo la rivincita conquistando lo scudetto Categoria Allievi. In un tripudio di emozioni e di gioia che, se chiudo gli occhi, rivivo ancora adesso come un momento straordinario. Un attimo che, per importanza, colloco sullo stesso piano della prima presenza in serie A, datata gennaio 1978 a Milano nel derby tra Olimpia e MobilGirgi”.

Lo scudettino per voi nati nel 1962 rappresenta il momento più alto e, purtroppo, anche l’unico…
“Sì, un momento unico perchè nelle altre finali nazionali conquistate, Porto San Giorgio e Monopoli, la sfortuna ci priva di giocatori importanti e ci impedisce di mettere in bacheca altri titoli tricolori. Gli anni delle giovanili però sono bellissimi per mille altri motivi che, dal mio punto di vista, sono infinitamente più importanti e gratificanti delle vittorie”.

Se non ricordo male contestualmente al percorso giovanile inizia anche la tua carriera senior, giusto?
“Esatto: dopo aver fatto parte, da giovane aggregato, delle formazioni MobilGirgi-Emerson, l’arrivo di coach Rich Percudani nel 1981 cambia le carte in tavola. L’allenatore italo-americano per allenarsi sempre al “top” chiede tutti giocatori professionisti e, di conseguenza, il trio di  studenti delle superiori, io, Buzzi Reschini e Zanzi, finisce alla Robur et Fides per giocare nella squadra Juniores con il quale disputo le mie ultime Finali Nazionali a Capo d’Orlando e soprattutto in serie C, campionato che vinciamo alla grande grazie all’ottimo coach Dodo Colombo e “maestri” importanti come Balanzoni, Canavesi, Guanziroli. Dopo un biennio in Robur, Pallacanestro Varese mi dirotta a Udine in serie A2 per “farmi le ossa” e sono numerosi i motivi per i quali considero molto importante la stagione trascorsa in Friuli. Tra questi c’è sicuramente la presenza di due allenatori “bravini” dai quali ho imparato tantissimo: il capo allenatore Massimo Mangano e il suo vice Ettore Messina. Il secondo motivo è che, a Udine, poco alla volta comincio a capire quali sono le dinamiche che regolano la vita da professionisti. Al termine dell’annata udinese, formativa sotto ogni punto di vista, coach Riccardo Sales nell’83-’84 mi individua tra le risorse possibili sulle quali iniziare a costruire il nuovo progetto tecnico voluto da Toto Bulgheroni e Marino Zanatta. Iniziano così la vera carriera tra i professionisti e, in particolare, la mia fantastica avventura varesina durata ben 9 campionati consecutivi”.

9 anni: una fetta di vita piuttosto corposa
“Dal punto di vista cronologico e sportivo ho vissuto i miei anni più importanti e gratificanti in Pallacanestro Varese. A Sales va riconosciuto il grandissimo merito di aver allestito nel giro di qualche stagione una squadra in perfetto “mix” tra l’esperienza dei vari Della Fiori, Meo Sacchetti, Dino Boselli, Mentasti, Mottini, Thompson e la gioventù del sottoscritto, Vescovi, Ferraiuolo, Prina, Gatti, poi Brignoli, Castaldini, Rusconi e così via. Quelle sono squadre-Laboratorio che, in costante crescita, giocano già piuttosto bene e costituiranno la base per arrivare, nel 1990, alla famosa e purtroppo sfortunatissima finale scudetto. Dopo Sales arriva coach Joe Isaac che, bravo nel portare in dote la  mentalità USA, ci lascia giocare più liberi. Non a caso quella DiVarese è restata nella storia per la strepitosa bellezza del gioco proposto. Grazie al “coaching” di Isaac vinciamo due “regular season”, ma purtroppo nei playoff ci troviamo sempre davanti qualcuno più forte e, spesso, anche più fortunato di noi: due volte Caserta, poi Milano e infine Pesaro”.

Siete impietosamente ricordati come quelli “belli e perdenti”: cosa pensi di quella definizione?
“Penso che sia sbagliata, come del resto lo sono tutte le etichette che ti appiccicano addosso per comodità. E’ vero, ho fatto parte di un gruppo poco vincente, ma al di là dei risultati ricordo l’orgoglio collettivo per aver riportato entusiasmo e ravvivato l’amore per il basket in una città che, con grande  fatica, stava cercando di mettere da parte la fine della sua prestigiosa epopea. Ecco: penso che i gruppi della DiVarese siano stati importanti soprattutto per agevolare la transizione con un passato ingombrante”.

Parafrasando Umberto Eco del “Si faccia una domanda e si dia una risposta” ti chiedo: perchè in quegli anni non avete vinto nemmeno il classico ghiacciolo dell’oratorio?
“Mi chiedi perchè abbiamo fatto tante finali – Coppa Korac, Coppa Italia, Finale Scudetto – e le abbiamo perse tutte? La mia risposta lapidaria è: troppi episodi negativi ci hanno detto male nei momenti cruciali. Mi riferisco, per esempio, alla cattiva serata di qualche giocatore importante a Bruxelles; alle condizioni fisiche problematiche di qualcuno in finale di Coppa Italia contro Caserta; ai piedi fuori/piedi dentro di Corny Thompson e di Darwin Cook contro Scavolini Pesaro; alla rottura del ginocchio subita da Sacchetti nella finale scudetto del 1990 e a tanti altri eventi ancora. Poi, di sicuro, ci metto anche la capacità mentale di gestire la pressione e il carico emotivo. Tutte cose che i nostri avversari avevano già sperimentato, e pagato, sulla loro pelle. Di fatto, se vuoi, aggiungo che il detto “vincere aiuta a vincere” è tremendamente vero e a noi è mancata proprio una vittoria, una sola, per accendere il famoso interruttore indispensabile per cambiarti la testa”.

Hai vissuto, tuo malgrado, anche il biennio post-finale scudetto, quello esitato con un viaggio nei playout e la prima retrocessione del 1992
“Due stagioni a dir poco contraddittorie perchè partite entrambe con grandi propositi e ambizioni dichiarate, ma  presto crollate a causa di squadre costruite non proprio benissimo. Nel terribile anno della retrocessione la nostra squadra, da sempre un esempio per coesione, solidarietà e senso di fratellanza tra compagni, era spaccata in due. Da una parte il nucleo storico formato dagli italiani; dall’altra i due stranieri, Theus e Wilkins, che vivevano nella loro galassia, distanti da noi anni luce tecnicamente e umanamente e con alcuni atteggiamenti sopra le righe. Per ricordarne solo uno, a beneficio di chi non era presente allo spareggio salvezza contro Venezia, segnalo che con noi a +8 Reggie Theus si mangiò 3 palloni consecutivi senza passarla a nessuno…Tuttavia, ci sarebbe molto da raccontare a proposito di quell’annata maledetta – vedi i gravi infortuni capitati a Sacchetti e Ferraiuolo -, ma riportare alla memoria certi episodi mi crea malessere fisico anche oggi quindi, meglio sorvolare”.

Sorvoliamo e parliamo della tua seconda vita da giocatore, quella che ti vede protagonista felice a Verona
“Scendo in A2 per giocare in una squadra che prima dell’inizio del campionato nessuno prende in considerazione. Quotidiani sportivi e riviste specializzate dicono testualmente: “Verona è formata da “scarti” provenienti da altri club come Giampiero Savio, Sly Gray, Rizzo, Dalla Vecchia, io stesso e da giovani sconosciuti come Bonora, Laezza, Frosini, Nobile. Invece queste critiche negative funzionano da “benzina” e  grazie ad un martello come coach Franco Marcelletti miglioriamo di partita in partita e alla fine della stagione festeggiamo una promozione clamorosa in A1. La stagione successiva volando sulle ali dell’entusiasmo e cementati da una forte mentalità vincente finiamo la stagione regolare addirittura al quarto posto. Nel primo turno di playoff eliminiamo 2-0 Recoaro Milano e in semifinale ce la giochiamo alla morte contro Virtus Bologna che, piccolo particolare, poi vincerà lo scudetto. Per quanto mi riguarda durante il secondo anno veronese mi faccio male al ginocchio, vivo 18 ore al giorno con la borsa del ghiaccio, mi alleno sempre con grande cautela e, purtroppo, gioco poco. Per questo motivo col passare dei mesi prende sempre più corpo l’idea di smettere con la pallacanestro professionistica anche perchè, detto in tutta sincerità, non ce la facevo più. Troppo il dolore e troppi i problemi nel dover rispondere alle richieste di una squadra “Pro”. Inoltre, sotto il profilo fisico e atletico ero ben poco performante e, per onestà verso me stesso e verso i dirigenti di Scaligera Verona, la chiudo in gloria e torno a casa dei miei genitori a Montaldo Bormida”.

Cosa succede in quel periodo?
“Per un paio d’anni penso solo a curare nel miglior modo possibile i miei guai al ginocchio e pian piano tra riabilitazione, fisioterapia e tanta, tantissima bicicletta mi rimetto in sesto al punto che posso tornare a giocare e lo faccio in serie C1 ad Alessandria dicendo sì ad un gruppo di amici. Con Alessandria vinciamo il campionato e saliamo in serie B, ma nel frattempo avendo aperto la mia enoteca a Gavirate torno a casa mia e conoscendo bene sia il presidente Cosimo Gagliano, sia coach Enrico Piazza basta una stretta di mano per accordarsi. Anche a Gavirate mi tolgo delle belle soddisfazioni perchè con una squadra costruita molto bene – Del Torchio, Laudi, Orrigoni, Bonza, Antonetti, Bottelli, Bonotto e Caneva – nel 2000 vinciamo il campionato e siamo promossi in serie B, ma complice la vendita dei diritti al Campus Varese scelgo di andare al Bosto Varese, club per cui gioco ancora un paio di stagioni finchè, a 40 anni, appendo definitivamente le scarpe al chiodo”.

Oggi c’è ancora pallacanestro nella tua vita?
“Posso dire che il basket è praticamente scomparso dal mio orizzonte perchè negli ultimi trent’anni ho visto solo 2 partite Varese-Verona e Verona-Varese e, ovviamente, solo per salutare qualche gli ex-compagni di entrambe le formazioni. Inoltre, la pallacanestro vista dalle tribune non mi manca per nulla mentre, al contrario, darei qualsiasi cosa  per poter tornare a giocare e rivivere le emozioni provate sul parquet”.

Invece, ed è cosa nota in tutta la provincia di Varese, fino a qualche anno fa si parlava in tono di ammirazione, dei “ciclisti più alti del mondo”. Com’è la “storia”?
“In realtà è una storia semplice che inizia, come ho detto, andando in bicicletta a scopo terapeutico, ovvero per mantenere attivo il tono muscolare. Ma siccome un chilometro tira l’altro, la bici è diventata una passione, poi una vera “dipendenza” che, col passa parola, ho scoperto di condividere con tantissimi amici del mondo del basket. Così nel giro di breve tempo insieme a Maurizio Gualco, il vero “colpevole” di avermi trasmesso il virus del pedale, Massimo Collitorti, Enrico e Giorgio Lana, i due fratelli Croce e tanti altri cestisti-ciclisti di Varese, Milano e Pavia abbiamo pedalato in tutto il Nord-Italia scalando tapponi dolomitici oppure organizzando per una dozzina d’anni la Milano-Chiavari. Negli ultimi tempi però, complice l’ennesimo intervento chirurgico al ginocchio, sono stato costretto ad allentare parecchio le uscite in bicicletta e, ormai, mi limito a qualche classica sgambata”.

Essendo giunti agli sgoccioli del tuo bellissimo “diario di viaggio” è arrivato il tempo delle tue “nomination”: qual è la tua squadra della vita a livello giovanile?
“Naturalmente non può che essere il gruppo-’62, meraviglioso nucleo di ragazzi che, assemblato secondo i disegni del caso, si è trasformato in un sorprendente, e non scontato, consesso di uomini che a 50 anni di distanza si frequentano ancora, si rispettano, si divertono, si aiutano e soprattutto, uniti dalla magica solidarietà creata in spogliatoio, si vogliono un bene dell’anima e trasmettono un senso di amicizia presentissimo, granitico, inscalfibile”.

Invece, a livello senior, chi sceglieresti per la classica partita d’addio?
“In questo senso potrei allestire due squadre. Nella prima convoco tutti quelli con cui ho giocato in serie A e in ordine alfabetico dico: Iwan Bisson, Dino Boselli, Lupo Carraria, Bob Dalla Vecchia, Marco Dellacà, Max Ferraiuolo, Sly Gray, Maurizio Gualco, Bob Morse, Dino Meneghin, Aldo Ossola, Dopo Rusconi, Meo Sacchetti, Mauro Salvaneschi, Cecco Vescovi, Marino Zanatta, Charlie Yelverton e mi scuso in anticipo con quelli che ho dimenticato di citare. La seconda formazione è invece composta dai ragazzi di Pallacanestro Gavirate che, fantastici pure loro, mi hanno regalato una seconda giovinezza divertente, serena, emozionante. Io, ovviamente, giocherei un tempo con una squadra e un tempo nell’altra”.

Come allenatori della tua vita chi scegli?
“In testa al gruppo dei coach metto il grande Carlo Colombo, il coach che mi ha spalancato le porte verso la pallacanestro indicandomi la strada da percorrere. Poi Dodo Colombo che in Robur et Fides mi ha fatto capire la differenza tra pallacanestro giovanile senior. Di seguito coach Sales che mi ha insegnato molto completando, a livello senior, l’opera di Carlo. Joe Isaac che mi ha liberato la testa facendomi scoprire nuovi orizzonti tattici da 3 e 4 tattico. Giancarlo Sacco che mi ha valutato molto e grazie a lui sono entrato nel listone dei 30 convocati per la preparazione alle Olimpiadi. Infine Franco Marcelletti che, a Verona, ha definito al meglio il mio ruolo di ala grande moderna”.

Cosa ti resta del tuo percorso da giocatore?
“Avendo sempre pensato in termini positivi mi tengo buone solo le vittorie: lo scudetto Allievi con il 1962, la medaglia d’argento ai Mondiali Cadetti a Damasco, lo scudetto di serie A del 1978 con la MobilGirgi, la Coppa delle Coppe vinta nel 1980 con Emerson, la vittoria del campionato di A2 a Verona e, infine, ciliegine sulla torta i campionati vinti con Alessandria e Gavirate. Insomma: qualcosina ho messo da parte e considerando che tanti miei colleghi magari hanno chiuso carriere individuali leggendarie senza poter alzare nemmeno un trofeo, c’è di che essere soddisfatti”.

Oggi cosa fai nella vita?
“In attesa di una pensione da quattro soldi che probabilmente non arriverà mai, continuo a lavorare nella vigna di famiglia che dopo la prematura scomparsa di mio fratello Michele è curata nel quotidiano da mia nipote. Poi tengo i contatti con i nostri clienti e vendo vino all’ingrosso”.

L’ultimo pensiero per chi è?
“Per due persone straordinarie. Una è Henry “Fly” Williams uomo adorabile, portatore di grandissimi valori scomparso troppo giovane. L’altro pensiero è per Sandro Galleani, persona che nella mia vita ha ricoperto un ruolo educativo importantissimo e, per questo motivo, considero alla stregua di un secondo padre. “Sandrin” ricambiava questo sentimento accogliendomi nella sua famiglia come un terzo figlio dimostrandomi attenzione e affetto. Comportamenti che – conclude con una lacrima Riccardo – non dimenticherò mai”.

Massimo Turconi

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