C’era un tempo in cui noi, “paria” della pallacanestro provinciale, ci spostavamo dalle nostre “povere” palestre di periferia, direzione Varese, per assistere alle partite giovanili più importanti della stagione.
C’era un tempo in cui noi “reietti”, al palazzetto a Masnago, oppure a Centro Robur di via Marzorati, potevamo vedere i migliori giovani cestisti italiani, quelli che con buonissima probabilità avrebbero fatto della pallacanestro il mestiere della loro vita.
E noi, che qualche volta avevamo avuto la fortuna di giocarci contro – adesso no, non capita perchè, purtroppo, anche le categorie giovanili si sono moltiplicate diventando classiste tra Eccellenza, Elite, Gold, Silver, Bronze, Rame, Ghisa, Ferro, Cartone -, rimediando delle sconfitte indimenticabili per dimensioni numeriche e disparità tecnico-fisiche, eravamo comunque felici e sereni perchè si andava alla “Mecca” per assistere ai derbyssimi tra Pall.Varese e Robur. Bellissime partite, ricche di momenti emozionanti e giocate spettacolari prodotte da coetanei di altissimo livello tra i quali spiccava anche lui: Massimo Galli, detto Cedro.
Galli, classe 1960, in quegli anni “spiegava” pallacanestro e in tanti di noi tra ricordi, un pizzico di commozione e occhi lucidi, ricordiamo un derby tra la sua Robur e la MobilGirgi Varese.
Un match epico nel quale Cedro scrisse a referto la bellezza di 47 punti con una serie di canestri, tutti diversi fra loro che, come noto ai veri cultori del gioco, rappresentano l’indiscutibile essenza del talento.
“Il mio primo sport – ricorda con un mezzo sorriso “Il Cedro” – è stato il calcio, al Bosto, ruolo portiere. La mia avventura tra i pali dura circa un paio d’anni perchè, insieme ad altri ragazzini della mia età contestualmente al calcio, giochiamo a pallacanestro tutti i giorni all’Oratorio di San Vittore che, lo sanno tutti, per almeno vent’anni è stata una vera, grande e insostituibile fucina di giocatori. Dopo aver partecipato, a Roma, alla finale dei Giochi della Gioventù, partecipo ad una leva organizzata dalla Robur et Fides e a 13 anni indosso la prima canottiera ufficiale della R&F con allenatore Franco Passera. In Robur, dopo tutta la trafila delle giovanili, faccio il mio debutto in prima squadra, allora in serie C e allenata da Dodo Colombo. In quell’anno vinciamo subito il campionato ma, purtroppo, non posso giocare in serie B per problemi fisici che mi bloccano per un anno intero. Al termine di una stagione molto sofferta, passata tra ospedali e studi di fisioterapia nella stagione 1982-1983 mi trasferisco alla Pallacanestro Legnano, ancora in serie C. Dopo Legnano inizio il mio percorso da professionista nelle serie minori tra serie C, B2 e B1 con tappe a Chiavari, Genova, Alessandria per 3 stagioni e, in seguito, a Ravenna per due annate durante le quali, guidati in panchina dal compianto Brunetto Brumana, prima vinciamo la serie B2, poi disputiamo un buonissimo campionato di serie B1. Agli inizi degli anni ’90 gioco a Sondrio, a Borgomanero, ad Arcisate per due stagioni allenato da coach Arturino Benelli e infine, ultima fermata della mia carriera, a Cassano Magnago allenato da coach Maurizio Bonelli”.
Che valutazione dai del tuo percorso come giocatore?
“Quando mi guardo alle spalle rivedo una carriera abbastanza lunga durante la quale ho raccolto buoni risultati, vissuto esperienze interessanti e conosciuto tantissime persone di valore. Nonostante tutto ciò mi resta, pungente, il rammarico per non essere riuscito ad esprimermi ad un livello cestistico più elevato a causa dei miei annosi problemi alla schiena. Senza peccare di presunzione, sono convinto che, se fossi stato fisicamente a posto e in grado di allenarmi in continuità, qualche stagione più che dignitosa almeno in serie A2 l’avrei fatta”.
Appese le scarpe al chiodo, cosa fai?
“Inizio subito la mia carriera di allenatore come responsabile del settore giovanile alla Pallacanestro Varese e contestualmente a questo incarico ho anche quello di assistente in serie A: prima di coach Rusconi e in seguito, nell’anno dello scudetto della stella, anche di coach Recalcati insieme al mio amico Dodo Colombo”.
Questo percorso, giovanili e assistente in prima squadra, ti avvicina al primo, grande, snodo nella tua vita da coach quando, nel giugno 1999, Edoardo Bulgheroni ti nomina capo allenatore dei Roosters Varese freschi Campioni d’Italia. Cosa ricordi di quel momento?
“Ricordo tutto, a partire dall’incontro con Gianni Chiapparo, allora general manager di Pallacanestro Varese. Gianni un pomeriggio di fine maggio ’99 mi convoca in ufficio e con mia grandissima sorpresa mi comunica che Edo Bulgheroni ha deciso di affidarmi la panchina e, credimi, si sta parlando di un’ipotesi che non avrei nemmeno immaginato. La prima reazione rispetto alla proposta di Gianni è: incredulità. La seconda reazione è: scetticismo e poca convinzione da parte mia”.
A questo punto chi o che cosa ti inducono ad accettare la panca?
“L’ago della bilancia vira verso il: “Sì può fare!”, quando Gianni, al quale riconosco totale e assoluta buona fede, mi rassicura su un punto: la squadra per il 1999-2000 verrà costruita facendo il possibile e l’impossibile per trattenere a Varese i giocatori in grado di aiutare e sostenere Pozzecco e Meneghin che, ovviamente, rappresentavano la spina dorsale fondamentale e insostituibile dei Roosters. Invece, è storia ampiamente nota, nel giro di un paio di settimane tre pezzi da novanta come Mrsic, Galanda e De Pol lasciano Varese e, per forza di cose, a quel punto prendere forma una squadra molto diversa rispetto a quella sperata. Poi, a margine, come dicevo, di quel periodo ricordo tutto. Ogni minuto, ogni emozione, tutti i pensieri e gli sguardi, i volti straniti e quelli sorpresi, le congratulazioni sincere e quelle piene di ipocrisia e tante, tante altre situazioni ancora. In realtà, al di là della soddisfazione personale, un minuto dopo la nomina penso solo a quello che mi aspetta, ovvero al mio lavoro. Come costruire la squadra sotto il profilo tecnico e tattico, scegliere i miei collaboratori, organizzare gli allenamenti e le mille altre cose che fanno parte del bagaglio di un head-coach in prima squadra”.
Un lavoro in quella estate del 1999 inizia in maniera “strana”…
“Più che strana – puntualizza Cedro – la definirei proprio folle e irripetibile perchè la conquista di uno scudetto atteso da oltre vent’anni scatena una festa che in città, ma soprattutto nella testa dei giocatori, si prolunga per oltre tre mesi. Così, dopo la pazzesca “tournèe” in Sud America, quando torniamo a Varese occorrono tre settimane di allenamenti ad altissima intensità per riportare il gruppo sulla faccia della terra. E, non a caso, siccome la qualità complessiva è comunque buona al primo impegno vero battiamo la grande Kinder Bologna e vinciamo la Super Coppa. Le cose vanno via via migliorando e, lo ricorderanno tutti, al Torneo Mc Donald’s Open facciamo una bellissima figura giocando alla pari contro i San Antonio Spurs Campioni NBA. Tuttavia, proprio in quel torneo si infortuna in maniera seria, frattura della mano, Daniel Santiago. Lo sostituiamo con Eric Cardenas che è un bravo ragazzo, si impegna davvero tanto ma, insomma, Danielone Santiago è meglio di almeno tre spanne. L’uscita di scena del nostro centro titolare rappresenta l’inizio di un lento ma inarrestabile declino perchè la squadra perde una delle tre pietre angolari – Pozz, Menego e, appunto, Daniel -, intorno a cui è stata pensata e costruita. Così iniziano i problemi e, lo ammetto, per il sottoscritto, allenatore esordiente nella formazione tricolore non è facile gestire situazioni tecniche e umane sempre più complicate. Per logica conseguenza il club, di fronte al tracollo progressivo del gruppo, mi esonera alla fine di dicembre del 1999. Al mio posto arriva coach Valerio Bianchini, ma alla fine nemmeno un “santone” come lui riesce a raddrizzare una stagione balorda”.
Anno nuovo, secolo nuovo. Nel 2000 apri un altro capitolo nella tua carriera da allenatore: giusto?
“Esatto: dopo essere uscito mio malgrado dall’orbita della prima squadra, rimango in Pallacanestro Varese come responsabile del settore giovanile che, in quegli anni, è davvero florido e produttivo sia per giocatori che per risultati. In quell’anno vinciamo addirittura due scudettini giovanili: io vinco come allenatore del gruppo Under 17 dei nati nel 1984 e coach Schiavi come allenatore della squadra Under 15 dei nati nel 1986. L’anno successivo alleno in serie B2 la squadra che la famiglia Bulgheroni, nel frattempo uscita definitivamente da Pallacanestro Varese, acquisisce da Basket Gavirate. A livello giovanile vinciamo lo scudettino Under 19 nelle finali nazionali giocate a Latina Nel 2003-2004 alleno, sempre in B2, ma col marchio ABC la squadra nata da una ulteriore fusione tra Robur et Fides e Campus Varese e in questa stagione si chiude definitivamente il mio percorso varesino”.
Quindi, nel 2004-2005 comincia la tua avventura come allenatore professionista viaggiante…
“In quell’estate accetto la proposta di Basket Rimini che mi propone due incarichi: responsabile settore giovanile e assistente in prima squadra, incarico che svolgo per quattro anni come vice di diversi allenatori: Becirovic, Paolo Rossi e Ticchi. Nella stagione 2008-2009 i dirigenti mi affidano la panchina della prima squadra in serie A2, ma dopo un paio di mesi il club mi esonera ed io riprendo, per così dire, il mio giro d’Italia cestistico facendo tappa a Biella come assistente di coach Bechio, a Bisceglie in serie B1, poi per sei anni alleno in serie B1: un campionato a Sant’Antimo, due stagioni a Forlì e altri tre campionati a Chieti. Nel 2017 rientro in serie A1, a Pesaro. Il primo anno faccio da assistente a coach Spiro Leka. Invece il secondo anno, 2018-2019, i dirigenti mi scelgono come capo allenatore, ma la stagione fatica a decollare, i risultati in una piazza esigente tanto quanto Varese non arrivano e agli inizi di gennaio mi licenziano. Dopo Pesaro firmo per Venezia come assistente di coach De Raffaele. Alla Reyer le cose vanno molto bene tant’è vero che vinciamo la Coppa Italia, ma purtroppo nel momento più bello e carico di aspettative la stagione si blocca a causa del Covid. Il secondo anno in laguna si chiude con la nostra eliminazione nelle semifinali playoff perse contro Milano 3-0”.
Dopo Venezia eccoci all’ultimo episodio, quello ancora in corso, che ti vede protagonista a Tortona
“A Tortona però, ormai da quattro anni, ricopro un incarico diverso poichè sono Responsabile dello scouting. Un ruolo molto interessante sotto il profilo tecnico e stimolante dal punto di vista umano perchè mi permette di costruire rapporti e conoscenze con i giocatori, allenatori, procuratori e altri addetti ai lavori”.
In questo lungo viaggio ti sei vestito spesso d’azzurro…
“In effetti ho avuto la fortuna di maturare numerose esperienze nel Settore Squadre Nazionali. Nella Nazionale Femminile sono stato assistente di coach Ticchi ai Campionati Europei. A livello maschile invece sono stato selezionatore e assistente di varie formazioni giovanili. Tra queste mi inorgoglisce il ripensare al ruolo di assistente di coach Capobianco nei Mondiali Juniores Under 19 giocati in Egitto, in una manifestazione nella quale vinciamo la medaglia d’argento alle spalle del Canada e davanti agli USA con una squadra in cui brillano Pajola, Denegri, Caruso, Ebeling e altri”.
A questo punto, dopo che mi hai raccontato una trentina d’anni di pallacanestro vissuti coach ad alto livello è inevitabile porti questa domanda: perchè uno bravo, preparato, esperto e apprezzato come te non dirige una squadra in serie A? Domanda peraltro legittima considerata, mio personalissimo parere, la qualità non esattamente eccelsa di numerosi tuoi colleghi.
“Nel merito le considerazioni sono di due tipi. La prima è che è difficile restare al top quando lavori in club in cui non è la bontà del lavoro che tu svolgi quotidianamente in palestra, ma il risultato a determinare il futuro delle persone. Poi, secondo aspetto, è che probabilmente mi manca il pizzico di cattiveria necessaria, direi obbligatoria per gestire situazioni e rapporti interpersonali con i giocatori di alto livello”.
Definisci meglio il termine “cattiveria”, please?
“Per uscire dalla metafora te la spiego così: avrei dovuto, anzi, dovrei essere molto più “stronzo” nei confronti dei giocatori che, lo sanno tutti, alla fine fanno solo i loro interessi. Credo infatti che le relazioni, in un ambito delicato come lo sport, siano fondamentali, ma alcune volte sei tradito proprio dalle relazioni medesime e, a conti fatti, dalla divaricazione, nettissima, che esiste tra gli obiettivi. Quelli che insegue l’allenatore sono rivolti soprattutto al gruppo, alla squadra nel suo complesso. Quelli inseguiti dai giocatori sono nel 99% autoriferiti. Insomma, per dirla tutta e cruda: per fare il capo allenatore in serie A non ero, non sono e soprattutto non sarò mai abbastanza “bastardo” e, lo ammetto, credo mi manchi quel “pepe” caratteriale che invece devi per forza avere se vuoi stare a lungo nella giostra”.
E, in tutto ciò, come si concilia il ruolo del vice?
“La verità è che mi è sempre piaciuto fare il vice-allenatore. Motivo numero uno: il vice ha responsabilità limitate. Motivo numero due: i vice rivestono un ruolo importante per la riuscita della stagione. Il vice infatti è vicino al capo, ma quando serve deve esserne, magari scontrandosi, la sua coscienza critica. Motivo numero tre: il vice a mio modo di vedere deve interpretare al meglio il suo ruolo di equilibratore, ossia di cuscinetto tra giocatori e capo allenatore, soprattutto quando i rapporti tra loro si incrinano a causa delle scelte che ogni head-coach è costretto a fare. In questo caso il vice dev’essere bravo nell’accorgersi di eventuali incongruenze e rapido nello smussare gli spigoli vivi e potenzialmente dolorosi di questo rapporto. Così, avendo ben chiaro come si muovono le pedine sulla scacchiera dello sport professionistico, risulta oltre modo evidente come, al di là delle situazioni tecniche”.
Quando guardi indietro, cosa vedi?
“Prima di tutto vedo in maniera nitida alcune persone, nello specifico la Famiglia Bulgheroni, che non finirò mai di ringraziare per avermi offerto tantissimi anni fa l’opportunità di pensare a me stesso come allenatore professionista. Poi vedo, e ricordo con piacere e grandissima gratitudine, tutti i giocatori, i dirigenti e i collaboratori che hanno lavorato al mio fianco in tutte le mie esperienze da coach e da vice-allenatore”.
Chi è stato il coach che, per te, ha recitato la parte di spirito-guida?
“Sul gradino più alto del podio posiziono sicuramente coach Carlo Recalcati che – spiega “Il Cedro” -, nella pallacanestro è un po’ l’alter ego di Carlo Ancelotti. Recalcati infatti ha la capacità di miscelare le sue infinite conoscenze tecnico-tattiche con l’innato “feeling” che gli permette di entrare nel cuore e nella testa dei giocatori spingendoli a trovare la loro strada e dare il massimo per la squadra. Un gradino sotto a coach Charlie colloco coach Giampiero Ticchi che ha importato in Italia il gioco “Triangolo” del quale è il massimo esperto e, in questo senso, è sicuramente da considerare un innovatore. Infine, cito coach Walter De Raffaele dal quale ho capito che tipo di comportamenti adottare quando hai a che fare con giocatori di altissimo livello nella pallacanestro moderna, ovvero che tipo di relazioni intrecciare nei loro confronti, quando essere più duri in alcune circostanze e, viceversa, quando essere più accomodanti in altre”.
Ti propongo un passo indietro nella tua carriera da giocatore: quali sono i “partitoni” che salveresti? Quali, insomma, le tue prestazioni “All-Time”?
“Ne salvo due. Per il livello giovanile dico sicuramente lo spareggio da 47 punti segnati contro la MobilGirgi. Per il livello senior invece ricordo ancora con i lucciconi agli occhi la straordinaria gara giocata con la maglia di Chiavari a San Miniato nella quale firmai uno “score” da 57 punti e, attenzione, senza tiro da 3 punti con 22 su 23 al tiro e 13 su 13 ai tiri liberi. Al termine della partita il nostro massaggiatore scherzando mi prende da parte e, in tono finto arrabbiato, mi chiede: “Ma, Cedro, come hai fatto a sbagliare quel tiro??”.
Il tuo top da coach?
“Sicuramente l’aver vinto la SuperCoppa con Varese battendo l’imbattibile Kinder allenata da coach Messina. Una vittoria che all’inizio non avevo considerato nel modo giusto mentre nel corso degli anni ho decisamente, e credo giustamente, rivalutato”.
Il tuo quintetto della vita da giocatore?
“Avendo giocato tanti anni e in squadre diverse non me la sento di identificare solo cinque compagni di squadra e credo che farei un grave torto ai numerosi esclusi da questa lista. Così, per tutti, mi fa piacere ricordare due figure del calibro di Toto Rodà e Balanzoni, due “professori” di pallacanestro che da giovane mi hanno aiutato a crescere”.
Il pensiero finale in che direzione corre
“Corre, tra velocità e rimpianto, ai tanti ragazzi che con cura ed enorme pazienza abbiamo allevato nel settore giovanile della Pallacanestro Varese lanciandoli poi in serie A. Quindi ripenso a nomi importanti e a me cari come Allegretti, Gergati, Giadini, Canavesi e ai tanti altri che hanno fatto benissimo in serie A2 e in B1. Un pensiero che adesso appare, anzi è, bloccato in un movimento cestistico totalmente incapace di trovare spazi di gioco plausibili per i giovani e – conclude amaramente Cedro -, checchè se ne dica, senza ragazzi italiani il futuro della nostra pallacanestro sarà davvero brutto. E soprattutto triste”.
Massimo Turconi