Living the American Dream. Il sogno americano è un’occasione oggigiorno ben diversa da quella di fine ‘800/inizio ‘900, ma è anche un’opportunità che non tutti sono pronti a cogliere. Volare oltreoceano nel pieno degli anni Duemila significa infatti perdere la propria comfort zone, lasciare il rifugio sicuro della propria casa, dei propri affetti e della propria routine per abbracciare l’ignoto. Passo che Michele Zucchi non ha avuto paura di compiere.

Da Cantello agli USA, passando per la gavetta varesina. Il classe 2002, mancino terzino sinistro di professione, si è fatto presto un nome nel panorama calcistico varesotto: gavetta giovanile di tutto rispetto, dagli Allievi Nazionali del Varese 1910 alla Juniores Regionale vinta con la Varesina (giocando sotto annata), con una parentesi alla Pro Patria. Le prestazioni sono state un naturale trampolino di lancio per l’Eccellenza, conquistata con la maglia del Gavirate (nell’annata interrotta dal Covid), ma la carriera sportiva è sempre andata avanti di pari passo con quella accademica (al Liceo Sportivo di Varese) e questo binomio l’ha condotto ad un bivio cruciale della propria vita. “Stavo decidendo cosa fare dopo il Liceo – racconta lo stesso Zucchi – quando su Instagram mi è arrivato un messaggio da parte di un’Agenzia specializzata nell’individuare ragazzi da poter mandare nei College esteri. Inizialmente ero ovviamente molto scettico, ma il tutto è diventato concreto nel momento in cui alcuni responsabili sono venuti a casa per parlare con me e i miei genitori: secondo loro avevo i requisiti per poter vincere una borsa di studio e andare in America. Alla fine, ho accettato”.

E?
“Finito il Liceo, ad agosto sono partito per l’America in direzione Indiana. Là ho fatto i miei primi due anni, per poi spostarmi in South Carolina dove mi sono laureato in Business Administration Management and Marketing con 4/4 (110 italiano, ndr); il 13 gennaio tornerò negli States per iniziare un Master. Gli USA sono un pianeta a parte per quanto riguarda la gestione collegiale: lo sport è vita in contesti del genere e se ne trovano di tutti i tipi, con strutture che le Università italiane purtroppo si sognano. I primi mesi sono comunque stati davvero duri perché in primis non padroneggiavo così bene la lingua e, soprattutto, la distanza da casa si faceva sentire. È un problema comune, ci mancherebbe, ma non tutti lo superano e alcuni ragazzi, con cui avevo fatto amicizia, hanno mollato. Dal canto mio mi sono sempre reputato un ragazzo molto determinato e sicuro di me, per cui ho tenuto duro e mi sono fatto strada facendo bene sia a livello calcistico sia a livello scolastico. Nelle Università americane la meritocrazia ha un peso specifico importante e ho quindi avuto la possibilità di trasferirmi in un contesto, sportivamente parlando, più importante perché siamo la 23esima realtà collegiale a livello nazionale”.

Qual è l’aspetto che ti inorgoglisce di più?
“Il non aver mai mollato. Se penso a tutti i sacrifici che ho fatto, agli sforzi per imparare la lingua e adattarmi ad una realtà completamente nuova, sudando giorno dopo giorno, e guardo a dove sono oggi non posso che essere davvero soddisfatto. Poi, soprattutto, mi sono trovato benissimo e non ho esitato a scegliere di tornare per il Master”.

Il calcio è uno sport in rapida crescita negli USA: come ti sei trovato a livello prettamente sportivo?
“Rispetto a tre anni fa vedo una differenza enorme: quando sono arrivato non percepivo grandissimo interesse per questo sport, mentre ora è molto più sentito e il livello medio si è alzato enormemente. Basti pensare che in squadra ho avuto ragazzi della Nazionale spagnola e italiana, e uno che era il capitano della Costa Rica. La qualità media di per sé è opinabile, ma la differenza la fa proprio la realtà americana: in Italia, ad esempio, arrivi a un punto in cui devi scegliere se giocare o studiare. Qui non è concepibile che una possibilità escluda l’altra. Per questo motivo oggi sento tanti ragazzi che vogliono provare un’esperienza del genere, a maggior ragione perché le Università americane stanno diventando sempre più appetibili per gli europei”.

Tornerai in South Carolina per un Master: quali sono gli obiettivi?
“Il nuovo percorso accademico durerà un anno e nel frattempo continuerò ovviamente a giocare. Sono del parere che per tornare a casa si fa sempre in tempo: ultimati gli studi proverò a sfruttare due o tre anni per costruirmi delle opportunità perché qui ogni anno c’è qualcosa di nuovo e, lavorando bene come sto facendo, sono certo che capiterà l’occasione giusta a livello sportivo e/o professionale”.

Il salto da una parte all’altra del mondo, inevitabilmente, spaventa: cosa ti senti di dire a chi magari avrebbe la tua stessa opportunità, ma non si sente pronto a coglierla?
“Avere paura è normale e io stesso ne ho avuta molta, ma le possibilità cui si va incontro sono altrettanto importanti. Personalmente io avrei pagato per conoscere qualcuno che avesse già vissuto un’esperienza simile perché i consigli di chi l’ha sperimentata sulla propria pelle sono un valore inestimabile. Io ho avuto modo di farlo prima di Natale, quando il Liceo di Varese mi ha contattato per tenere un incontro con i ragazzi di quarta e quinta e ho riscontrato un interesse enorme: tantissimi mi hanno chiesto info in più per capire nel concreto come funzioni la vita collegiale e secondo me qualcuno farà questo passo. Resta poi l’esperienza personale, un qualcosa che ti ricorderai per tutta la vita perché ti lascia un background clamoroso, ti fa fare tante conoscenze e ti fa crescere come niente e nessuno può fare: sei da solo e devi costruirti il tuo futuro esclusivamente con le tue forze. Non voglio mentire: se da una parte è un’esperienza fantastica, dall’altra vanno messe in conto tante difficoltà. Bisogna essere determinati e non accontentarsi, lavorare sodo e fare tanti sacrifici: la ricompensa sarà eccezionale. E io non vedo l’ora di tornare negli USA per proseguire la mia storia”.

Matteo Carraro

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