
Se dovessi mettere in musica la vicenda cestistica di Mauro Salvaneschi, non avrei dubbi nel scegliere due canzoni famosissime, veri “tormentoni”, ormai parte del patrimonio musicale italiano. Due canzoni che, plasticamente, segnano l’inizio e, purtroppo per il carissimo Mauro, anche la fine della sua avventura tra canestri, retine e rugosi palloni color arancio.
La prima canzone è “Shape of my heart” di Sting il cui testo sottende e rimanda alla imperscrutabile logica del caso che regola le nostre vite. La seconda, che ha un testo decisamente più pragmatico, è un “classicone” come “Cuore Matto” di Little Tony.
In questi due brani – ma in realtà avrei potuto sceglierne almeno duemila -, è rappresentato il percorso di un uomo e di un giocatore che dalla pallacanestro per un breve arco di tempo ha avuto tanto, ma non tutto. E, comunque, nel momento di raccogliere i frutti, sicuramente abbondanti, di tanta fatica, tanto sudore, tanti sacrifici, ha dovuto fare i conti con un destino che, cinico, maligno e bastardo, si è messo di traverso spezzando ambizioni, prospettive, desideri e sogni. Il tutto nel momento esatto in cui Salvaneschi, dopo anni passati a imparare dai grandi campioni trasformando ogni lezione in pazienza, stava finalmente passando alla cassa per riscuotere il giusto premio. Un destino che, come in una partita a “Monopoli” costringe Mauro a sollevare un crudele e malvagio cartellino degli “Imprevisti” con su scritto: “Signor Salvaneschi, la sua carriera finisce qui. Stop!”
Una cattiva sorte che ci ha privato del piacere di vedere in azione ad altissimi livelli un giocatore come Mauro ovvero un playmaker già proiettato nella pallacanestro moderna perchè capace di unire grandi qualità tecniche a caratteristiche fisiche rilevanti in quanto velocissimo, dotato di gambe esplosive, notevole atletismo e una compattezza fisica impressionante. Ma prima di argomentare ciò che ha portato alla conclusione repentina del percorso cestistico di Mauro è doveroso raccontarne l’inizio brillantissimo e carico di speranze. Sicuramente legittime. Sicuramente ben riposte.
“Il mio primo approccio con la pallacanestro – spiega Salvaneschi, classe 1956 – avviene in un oratorio della mia città: Broni, provincia di Pavia. All’oratorio si praticano tutti gli sport ma pur avendo giocato a calcio, pallavolo e anche tamburello, disciplina allora molto in voga nel territorio pavese, è la pallacanestro che, esercitando su di me un fascino particolare, mi spinge a frequentare i primi corsi di minibasket organizzati da Igino Montagna, grande appassionato di palla a spicchi nonchè “factotum” della Polisportiva Broni. Montagna, che è il primo a vedere qualcosa di buono in me, fa il mio nome ad un suo grande amico: coach Nico Messina. Il “Prof”, personaggio importante nella Pallacanestro Varese di quegli anni, dopo avermi visto in occasione di un torneo pre-stagionale mi invita a Varese per un provino al termine del quale dà il suo benestare. Nella tarda primavera del 1970 mi trasferisco al Collegio De Filippi per cominciare la mia avventura nel settore giovanile della Ignis Pallacanestro Varese col gruppo del ’56 che disputa il campionato Cadetti e per fare esperienza anche un campionato senior di buon livello come la Promozione. Tra la sorpresa generale con quella squadra, nelle Finali Nazionali Cadetti giocate a Roseto nel 1973, vinciamo il primo scudetto giovanile nella storia della Pallacanestro Varese. Però, se parliamo di percorso giovanile, devo anche aggiungere che la gioia immensa di quel ricordo è sempre offuscata dallo scudetto perso nelle Finali Nazionali Juniores giocate nel 1975 a Reggio Emilia”.
Offuscata, perchè?
“Perchè a Reggio Emilia arriviamo da testa di serie numero 1 in ambito nazionale e da formazione strafavorita avendo in organico un giocatore potenzialmente fuori categoria come il compianto Rizzi. Sergione infatti pochi giorni prima dell’appuntamento reggiano segna 13 punti nientemeno che al Real Madrid permettendo alla Ignis allenata da coach Sandro Gamba di vincere, ad Anversa, l’ennesima Coppa dei Campioni”.
In effetti le riviste specializzate dell’epoca citano la vostra Ignis come la squadra delusione della manifestazione…
“Non posso dare torto ai cronisti di quel tempo ma – puntualizza Mauro -, per essere precisi e onesti fino in fondo occorre anche dire che il nostro gruppo, dopo un paio di buone partite iniziali, arriva alle gare che contano in condizioni fisiche davvero pessime perchè io e Mau Gualco, debilitati da un violento attacco febbrile, arriviamo alla semifinale in formato “zombie”,. Un altro paio di ragazzi, spremuti per le assenze accusano la stanchezza e, per chiudere il cerchio, il povero Rizzi, forse schiacciato dalla pressione e dalla responsabilità di dover dimostrare tutto il suo valore, imbrocca la classica partita stortissima. Insomma: perdiamo, torniamo a Varese con un bel niente fra le mani e concludiamo la nostra carriera giovanile con la delusione e la quasi certezza di aver buttato alle ortiche un’occasione d’oro”.
Facciamo un doveroso passo indietro e parliamo della stagione 1973-1974 quella in cui, per te, si aprono ufficialmente le porte della prima squadra…
“Esatto: è l’annata dello storico addio a coach Aza Nikolic, sostituito da coach Sandro Gamba il quale inserisce il sottoscritto, Gualco e Rizzi nella rosa della prima squadra. Essere promosso in serie A rappresenta un’emozione fortissima e concretizza un sogno che cullo da anni. Davanti a me ho dei giocatori incredibili come Ossola, Rusconi, Zanatta, Raga, Polzot, quindi nessuna speranza di giocare però, chissenefrega, indossare la mitica canotta gialloblu della Ignis mi basta e avanza e la presenza di un allenatore come Gamba, tecnicamente molto diverso dal “Professore di Bosnia”, e di così tanti campioni è davvero un regalo. Non a caso la stagione 1973-1974 è quella che coincide col mio miglioramento più sostanzioso e, di fatto, mi fa capire che posso ritagliarmi uno spazio vero nella pallacanestro che conta”.
Coach Nikolic e coach Gamba marchiano a fuoco la Pallacanestro Varese di quegli anni: cosa puoi dire di questi due grandi personaggi?
“Prima di tutto è mille volte doveroso sottolineare che a Varese abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di ammirare due allenatori leggendari. Poi, dovessi descriverli con uno stringato slogan pubblicitario direi: “Nikolic la scienza, Gamba l’essenza”. E ho detto tutto”.
Poco fa hai fatto accenno alla finale di Anversa, ma tu hai avuto la fortuna di essere presente ad altre due finali di Coppa dei Campioni: Nantes 1974 e Ginevra 1976, tutte contro Madrid. Che ricordi hai di quegli eventi oggettivamente indimenticabili?
“A Nantes perdiamo di pochissimo, 84 a 82, una partita dall’andamento incredibile perchè dopo un primo tempo saldamente nelle nostre mani nella ripresa il Real torna sotto con la spinta del play Cabrera e soprattutto con i canestri di Brabender autore di 22 punti. Ma, col senno di poi e a giudizio unanime, sulla buona partita di Brabender pesa l’anomalia della strana decisione assunta dallo staff tecnico”.
Cioè? Quale anomalia?
“Brabender in quel periodo caratterizzato da decine di sfide contro i madrileni è solitamente marcato da Aldino Ossola che, lo sanno anche i sassi, è un difensore micidiale. Invece, chissà perchè, per quella finalissima coach Gamba decide di affidarlo a Raga che ci prova in tutti i modi e senza troppo successo. Oltretutto nel tentativo di limitare l’americano di Madrid, Manuelito si sfianca, perde energie preziose e arrivando in attacco già stanco e poco lucido gioca una brutta partita, vedi il 6 su 21 al tiro. Così, ed è un vero peccato, noi della Ignis “regaliamo” uno come Raga sui due lati del campo”.
Non c’è il due senza il tre: Anversa, Nantes e Ginevra…
“In Svizzera per efficacia e bellezza giochiamo una gara clamorosa e tornando a quello che ho detto prima, Ossola questa volta si prende “cura” di Brabender che, è vero, segna 22 punti, ma con tante forzature. Poi Aldino in quella gara fa anche qualcosa in più e di insolito per i suoi standard consueti: vola a canestro segnando 8 punti determinanti per costruire il break vincente della MobilGirgi”.
Nel 1976 il terzetto delle “giovani stelle” – Carraria, Gualco, Salvaneschi – chiude il volume 1 in Pallacanestro Varese e si trasferisce in blocco a Genova: che ricordi hai dell’addio a Varese e del trasferimento in Liguria?
“Anche se in quella Ignis-MobilGirgi ho giocato poco, quasi niente, considero i primi 4 anni trascorsi a Varese i più belli, intensi e meravigliosi della mia carriera perchè aver fatto parte del gruppo più iconico e famoso della pallacanestro italiana rappresenta qualcosa di unico, impagabile, irripetibile. Poi, è chiaro, anche le favole più emozionanti arrivano all’ultima pagina e tutti e tre con un po’ di magone e gli occhi lucidi andiamo a Genova mettendo comunque in valigia tanto entusiasmo e una sterminata voglia di iniziare a giocare sul serio e da protagonisti. A conti fatti devo ammettere che l’esperienza genovese è stata semplicemente fantastica. Sportivamente perchè il primo anno, tra lo stupore di tutti, vinciamo la serie A2 in carrozza. Umanamente perchè, praticamente da sconosciuti, nel giro di pochi mesi riusciamo ad esaltare Genova che, prima del nostro arrivo, il basket nemmeno se lo filava. Poi, è vero, ho vissuto anche la retrocessione del secondo anno ma il rapido ritorno in A2 è figlio soprattutto della sfortuna perchè in A1 perdiamo il secondo straniero dopo pochissime giornate senza poterlo sostituire e, in ogni caso, scendiamo in A2 al termine di una drammatico spareggio perdendo solo all’ultimo tiro contro la Fortitudo Bologna”.
Però, dopo il periodo genovese, il mitico trio Carraria-Gualco-Salvaneschi si scioglie: come mai?
“Gualco e Carraria tornano in Pallacanestro Varese, mentre io lusingato dalla corte di coach Bianchini seguo il “Vate” a Roma e, in tutta verità, ma me ne incoglie perchè nonostante sulla carta fossimo una buona squadra – io, Gilardi, Sorensen, Coughran, Masini, Lazzari, Tomassi, Ricci e altri – raccogliamo risultati inferiori alle aspettative”.
Nell’estate 1979-1980 il g.m. Giancarlo Gualco ti rivuole a Varese giusto in tempo per assistere in diretta alla fine del mito e a quello che è stato definito il “crollo dell’Impero”…
“Di quel periodo ricordo benissimo l’accanimento, la protervia, in alcuni casi la cattiveria contro un gruppo di uomini meravigliosi colpevoli di non aver vinto nulla dopo 15, sottolineo 15, anni pressochè ininterrotti di dominio in Italia, in Europa e nel Mondo. Uomini che, per come l’ho vissuta io, andavano trattati come eroi o, comunque, col rispetto dovuto ai campioni senza tempo. Uomini che in realtà hanno pagato soprattutto sia la mancanza di visione sul futuro sia la mancanza di danèe perchè, diciamo tutta la verità, sarebbe stato sufficiente inserire due/tre giocatori di qualità per dare continuità al nostro gruppo. Ricordo infatti che nel disgraziatissimo 1981 la nostra Turisanda Pallacanestro Varese domina in lungo e in largo tutta la stagione regolare finendo con un record storico: 27 vinte e solo 5 perse. Poi però nei playoff oltre a Dino Meneghin già un po’ acciaccato, si fa male anche Tim Bassett e la Virtus Bologna, agevolata anche da un arbitraggio non proprio preciso, ci elimina 2-0 chiudendo definitivamente l’epopea di una squadra che ha fatto la storia della pallacanestro. Inoltre, se devo raccontarla fino in fondo, quell’eliminazione, rappresenta un peso che ancora grava sulla mia anima”.
Perchè?
“Perchè, mannaggia, in gara-2 col punteggio in parità 68-68 sbaglio l’ultimo tiro, quello per vincere, quello che avrebbe cambiato, ovviamente in meglio, la mia vita tra i canestri. Di quell’azione ricordo alla perfezione ogni fotogramma: mentre i giocatori Virtus marcano ferocemente Bob Morse, Zanatta e il Menego io quasi indisturbato palleggio verso il centro dell’area e sulla linea di tiro libero lascio partire un “jumper” che balla sul ferro e alla fine finisce fuori. Meneghin però, dopo aver strappato di forza il rimbalzo offensivo subisce un fallo clamoroso, ma gli arbitri si girano dall’altra parte e Bologna sul possesso successivo con un paio di secondi da giocare infila due liberi e vince 70-68″.
Veniamo adesso al nocciolo della tua vicenda personale analizzando l’anno successivo, 1981-1982, che purtroppo per te è quello drammaticamente indimenticabile…
“Nel corso di quell’estate si consuma la fine definitiva della Pallacanestro Varese grandissima e dominante perchè lasciano per sempre Masnago anche gli ultimi miei grandissimi campioni: Dino Meneghin, Marino Zanatta, Bob Morse e di quel gruppo che sta nascendo sono davvero entusiasta. Sia perchè sento che, a 25 anni, dopo le esperienze maturate a Genova e Roma finalmente è arrivato il momento di dire la mia anche a Varese. Sia perchè in quella squadra, dietro i due leader riconosciuti, Tim Bassett e Ciccio Della Fiori, il più “vecchio” ed esperto sono io. Insomma: dopo tanta gavetta e tanta panchina non vedo l’ora di prendere fra le mani le redini della squadra nel ruolo di playmaker”.
Invece a prendere in mano le redini della tua vita è la sfortuna che fra le tue ruote non piazza un bastone, ma un vero tronco d’albero. Cosa ti succede in quella stagione per sempre maledetta?
“Per spiegare la mia vicenda bisogna fare un salto indietro di circa 6 mesi e tornare al mese di febbraio 1981 quando, alla visita medica annuale di idoneità, i medici mi riscontrano una insufficienza aortica sulla quale effettuano diversi altri esami, ma intanto mi danno un’idoneità temporanea valida 3 mesi. Grazie a questa arrivo tranquillamente alla fine del campionato che ho già descritto, ma alla ripresa della preparazione la patologia cardiaca è confermata e a quel punto, tra incredulità, stordimento e lacrime, tante lacrime, non posso fare altro che appendere le scarpe al chiodo. Nel momento di quella diagnosi definitiva mi crollano addosso il palazzetto di Masnago, lo stadio Franco Ossola e anche le 14 cappelle del Sacro Monte e il mio sconforto non si può nemmeno immaginare. Però il presidente Toto Bulgheroni, grandissima persona che non finirò mai di ringraziare, segue da vicino la mia situazione e mi propone di restare nel gruppo come assistente di coach Percudani, ma la mia sofferenza nell’andare al palazzetto, direttamente proporzionale ai giorni che passano, mi costringe a fare un passo indietro optando per una scelta drastica: abbandonare completamente l’unico mondo che conosco davvero bene, quello della pallacanestro”.
Quanto ti ci è voluto per fare pace con la sfortuna?
“In realtà non più di tanto. Giusto qualche mese per assestarmi, elaborare il lutto e guardarmi intorno cercando in fretta di capire cosa succede nella vita reale. In questo senso penso mi abbia aiutato il mio carattere poco incline ai piagnistei e alle lamentele inutili. Da lì in poi subentra rapidamente una certezza: la mia vita sta per cambiare, anzi, deve cambiare. Così, volente o nolente devo superare il muro nero che mi è calato davanti senza piangermi troppo addosso ed evitando di fare la vittima. In breve tempo entro nel mondo del lavoro e partendo dal basso, rimboccandomi le maniche, faccio carriera fino alla nomina a direttore commerciale di una grande azienda nel settore alimentare. Invece, per quanto riguarda la pallacanestro non ho mai esitazioni di sorta: stop, punto e basta. Prima di tutto perchè mi sento giocatore al 120% . In seconda battuta perchè, intimamente, so di non essere tagliato per altri ruoli”.
Ok, terminata la “confessione”, possiamo passare come di consueto alle tue “nomination”: qual è il top della tua carriera giovanile?
“Sicuramente lo “Scudettino” Cadetti e le ragioni sono semplici da elencare. Prima di tutto perchè quel titolo tricolore rappresenta il coronamento del percorso giovanile del gruppo ’56. In seconda battuta perchè saliamo sul gradino più alto del podio in maniera inaspettata dal momento che le squadre favorite sono altre. In particolare la Virtus Bologna e Cantù. In terzo luogo perchè la nostra squadra manda in scena un vero “miracolo” tecnico, tattico e fisico giocando una pallacanestro rivoluzionaria per quei tempi ovvero senza lunghi – il nostro centro è Martinoni che arriva a 195 cm -. mentre Bologna e Cantù in pivot schierano giocatori che rispetto a noi sono a dir poco giganteschi. Poi, quarta ragione, certamente la più importante è che il nostro gruppo per coesione, “chimica” tecnica e umana, affiatamento, amicizia, voglia di vincere, carattere e tanta “fame” avrebbe vinto a mani basse contro chiunque”.
Chi è stato il tuo vero mentore nelle categorie giovanili?
“In realtà non me la sento di citare un nome più importante rispetto ad altri perchè in quegli anni c’era un gruppo di allenatori che lavoravano tanto insieme e anche durante le partite si dividevano compiti e responsabilità”.
E a livello senior?
“Direi Aza Nikolic e Sandro Gamba. Ma, giusto ammetterlo, sono stato fortunatissimo perchè lungo il mio percorso cestistico sotto il profilo tecnico ho avuto a che fare con la “creme” della pallacanestro italiana”.
La squadra della vita da professionista?
“Ne scelgo due. Al primo posto metto quella che mi sono sentito più addosso, più dentro e più mia ovvero la Turisanda del 1981 che, mi ripeto, è stata una grandissima squadra, di campioni incredibili, ma soprattutto un favoloso gruppo di uomini veri, duri, leali. Inarrivabili. Irraggiungibili. Sfortunatissimi. Un centimetro più sotto, per le emozioni che mi ha permesso di vivere, scelgo il gruppo Ignis del 1975, quello che vince la Coppa dei Campioni ad Anversa. Anche quella è stata una squadra di livello veramente altissimo anche nella sfortuna perchè se avessimo avuto il Menego avremmo vinto anche lo scudetto”.
Hai giocato al fianco di tantissimi campioni: chi è il tuo MVP All Time?
“Dino Meneghin è il miglior giocatore italiano di tutti i tempi, dieci piste davanti a tutti”.
L’avversario più rognoso che hai affrontato?
“Mi limito a segnalare che Mike D’Antoni, per usare un eufemismo, era un bel rompiscatole che rendeva la vita difficile a tutti”.
La tua vita post-basket come è stata?
“Tutta lavoro, casa e famiglia. Vivo da tempo immemore a Genova, sono sposato da sempre con Roberta e ho due figli: Marta, laureata in Economia e Commercio che lavora in un’azienda e Edoardo che, beato lui, è maestro di golf”.
Infine, per chiudere, c’è ancora spazio per la pallacanestro?
“La seguo poco e in verità il tipo di gioco cosiddetto moderno non mi appassiona più di tanto. Però, appena possibile, non mi perdo nemmeno un’occasione per rivedere i miei ex-compagni di squadra di Ignis-MobilGirgi-Emerson-Turisanda-Cagiva e, tra questi, vedo un po’ più spesso il mio “Maestro” Aldo Ossola. In ogni caso, credimi, passare qualche ora insieme ai “ragazzi” è sempre uno spettacolo, è sempre una gioia, è sempre un momento da vivere col cuore in mano”.
Massimo Turconi































