Serietà e maturità. Sono queste due caratteristiche principali di Nate Renfro, un ragazzo che fin da piccolo è dovuto crescere subito in fretta e che tra vita privata e campo da basket, si è fatto spesso da solo, con le sue sole forze, cercando di ritagliarsi uno spazio importante mantenendo sempre una serietà invidiabile.

Anche qui a Varese si sta facendo apprezzare per questo: sempre uno dei primi ad arrivare al Campus la mattina per gli allenamenti ed uno degli ultimi ad andarsene. Nessuna parola fuori posto e tanto lavoro per un uomo che coach Kastritis ha fortemente voluto e che sta cercando la forma fisica e la chimica con i compagni migliore dopo un infortunio al polpaccio che ne ha minato questi primi mesi ai piedi del Sacro Monte.

Mi parli della sua infanzia e della sua famiglia…
“Vengo da una famiglia molto numerosa, ho due sorelle più vecchie, due più piccole e due fratelli più giovani di me. Proprio per questo motivo ho dovuto crescere molto in fretta anche per dare una mano ai miei genitori nella crescita dei miei fratelli e delle mie sorelle più piccole. Questa cosa mi ha formato, soprattutto in termini di responsabilità, rendendomi la persona che sono oggi anche se devo dire che durante l’adolescenza non è stato facile condividere la quotidianità, soprattutto in casa, con così tante persone, perché ovviamente gli spazi diminuiscono in maniera importante. Ad anni di distanza, però, devo dire che sono grato di avere una famiglia così”.

Perché inizia a giocare a basket?
“Non mi ricordo esattamente come o perché o iniziato a giocare, però la pallacanestro è uno sport che ho sempre ammirato, soprattutto dai tempi dell’High School ed è un qualcosa a cui farei davvero fatica a rinunciare”.

Chi è stato l’allenatore più importante nel suo percorso di crescita?
“Coach John Ortega, il mio allenatore dell’High School. E’ una persona che mi ha cresciuto moltissimo sotto il punto di vista professionale e personale. E’ una persona che ha creduto in me anche quando gli altri non mi davano grande credito. E’ stato fondamentale per il mio approdo al College ed anche quando non mi ha più allenato mi ha sempre seguito, è una persona che è stata molto presente nella mia vita e devo ringraziarlo se sono quello che sono oggi”.

Perché decide di lasciare l’America e venire in Europa?
“Era una grande opportunità per scoprire un basket nuovo e mettermi alla prova. Venivo da due anni di G-League e sentivo l’esigenza di provare qualcosa di diverso, scoprire nuovi metodi di lavoro, lavorare con allenatori che avevano una formazione diversa da quella americana e soprattutto capire a che livello di crescita ero. Devo dire che sono molto contento di aver preso la decisione di venire in Europa”.

Com’è stato il primo impatto con un basket molto diverso da quello americano?
“Sicuramente non semplice. Lo stile di gioco in Europa è molto più lento e punta sulla tattica, mentre in G-League, lega dalla quale provenivo, si gioca ad una velocità ed un numero di possessi decisamente più elevato di quello che trovai qui in Europa. Ho avuto diversi up&down, perché ero abituato a fare cose diverse in campo, soprattutto a giocare poco fermo in area e tanto in corsa in transizione. Nonostante tutto, però, piano piano ho imparato e ho cambiato anche il mio modo di stare in campo e questo mi ha permesso di adattarmi allo stile di gioco proposto in Grecia”.

Cosa le ha lasciato l’esperienza con il PAOK Salonicco?
“Sicuramente mi ha cresciuto sotto tanti punti di vista. Al PAOK ho vissuto la mia prima esperienza da giocatore europeo, il che non vuol dire cambiare solo stile di gioco in campo ma anche quello di vita al di fuori del parquet. Dalla lingua, alla cultura, agli usi e costumi, insomma uscire da quella che era la mia comfort-zone sotto tanti punti di vista. Questo mi ha permesso di accrescere non solo il mio lato professionale, quanto quello umano e mentale”.

Nell’ultimo anno ha avuto due pesanti infortuni. Quanto è stata dura affrontarli e venirne fuori?
“Devo essere sincero, è stata molto dura, anche perché, tolto un infortunio che ebbi in NCAA, non mi era mai capitato in carriera di dover affrontare due stop così diversi ma molto pesanti entrambe. Ho passato tutta l’estate a lavorare durissimo per recuperare completamente dall’infortunio dell’anno scorso, ho iniziato bene il precampionato e poi lo stop al polpaccio mi ha costretto a ripartire da zero. Dopo un primo momento di sconforto, però, mi sono concentrato sul recupero, cercando di tenermi il più in forma possibile per rientrare quanto prima e sono felice di ora di sentirmi meglio ogni giorno che passa, potendo dare anche il mio contributo alla squadra”.

Domenica ha vissuto il suo primo derby tra Varese e Cantù. Cosa ne pensa di questa rivalità?
“E’ molto simile a quella che ho vissuto in Grecia tra PAOK e Aris. I derby sono molto importanti per i tifosi ma anche per noi giocatori, perché portano con sé una carica emotiva speciale. E’ completamente diverso giocare un derby in Europa o uno in America, è un qualcosa di unico e devo dire che qui a Varese questa cosa si sente particolarmente e sono felice che siamo riusciti a regalare una grande gioia ai nostri tifosi”.

Ora arriva la partita con Udine, che gara si aspetta?
“Mi aspetto che giochiamo con lo stesso focus e la stessa concentrazione messa in campo contro Cantù. Come dicevo prima il derby è una partita speciale ma noi non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Dobbiamo continuare il nostro percorso di crescita, giocando di squadra partendo dalla difesa e dai rimbalzi, cercando di limitare il talento offensivo di Udine e la loro fisicità”.

Alessandro Burin

Articolo precedentePanathlon Varese, va a Caterina Prataviera il Premio Anni Verdi
Articolo successivoFutura Volley: allenamento congiunto con il Club Italia

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui