Fa male, non ci sto. Questo che leggete con molte probabilità sarà l’ultimo “Punto Vito” dedicato al Varese. E’ tutta la stagione che cerco argomenti per spiegare i perché di questa stagione fallimentare. Ho anche tentato di risvegliare un briciolo di orgoglio nella squadra, rispolverando i ricordi di quando i giocatori erano bambini e calciavano il pallone davvero per divertimento. Tutto inutile. Non voglio dire che contro il Frosinone non si siano visti impegno e voglia da parte dei ragazzi di Bettinelli in inferiorità numerica per quasi tutta la partita a causa della sciagurata espulsione di Corti. Ma non è bastato ad evitare la sconfitta. E allora? C’è poco da dire, molti componenti in rosa sono scarsi, inadatti ad affrontare la categoria. Magari diventeranno campioni, ma quel giorno non è oggi. Magari fra qualche mese loro saranno ancora in B, ma il Varese no. Getto la spugna, non fa parte del mio carattere ma una delle cose che più mi fanno star male, forse l’unica che mi spaventa, è l’impotenza. E allora mollo. Sono sempre stato abituato a cercare di fare le cose al meglio. Da ragazzo, quando ancora non avevo la pancia, giocavo al pallone almeno due volte a settimana. Anche prima di andare al “Franco Ossola” per commentare le partite del Varese. E mi arrabbiavo, eccome, se perdevamo anche se in palio non c’era nulla. Facevamo la colletta per prenotare il campo e giocare. E quando non si avevano i soldi, c’era sempre un amico che pagava anche la tua quota. Perché quello che contava era stare insieme e giocare insieme, vincere o perdere insieme. Ho cominciato a mettere su chili quando mi sono rotto tibia, perone, capsula e legamenti della gamba sinistra. Giocavamo su un campo ghiacciato in Valcuvia. Avevo appena colpito di testa un pallone aereo, sono sceso male sul terreno, la caviglia si è piegata e un terzino in ritardo ha frenato la sua corsa contro la mia gamba. Le ossa che si spaccano fanno le stesso rumore del legno quando si spezza. Il dolore fa quasi svenire. Ricordo quando con la gamba ingessata venivo accompagnato in ogni campo dove il Varese giocava perché dovevo fare la telecronaca. Niente mi ha evitato di vedere le partite del Varese. E quando per lavoro ho cominciato a frequentare i campi della A rimanevo sempre in collegamento con il campo in cui giocavano i biancorossi. Ricordo quando chiesi un favore al “maestro” Pizzul. Lo convinsi a fare cambio di designazione. Lui prese la mia partita del Cagliari, io il suo anticipo del sabato Sampdoria-Reggina. Volevo la domenica libera per seguire a Bolzano il Varese di Sannino e Sogliano. Stare accanto a loro in un appuntamento importante per la promozione. Era una squadra partita dal fondo della classifica e arrivata in C1.

PubblicoPer più di trenta anni ho condiviso le vicissitudini di un Varese ai margini del grande calcio ed ho sempre considerato la serie B come il paradiso lontano. Come me tanti amici, conosciuti e non, che la domenica incontravo sui campi. Anche quelli di periferia e della nostra provincia. E’ anche per loro, per il rispetto che ho nei confronti dei sentimenti che si provano in questi momenti di agonia sportiva che non voglio più scrivere del Varese. Ho bisogno di una pausa. E basta con questa favola della “varesinità”. Aveva un senso quando si parlava di quelle persone che hanno fatto nascere e crescere il Varese 1910, gente come Peo e Sean, dai globuli biancorossi. Appassionati e competenti. Questa estate la squadra è stata costruita da varesini, ma le loro scelte si sono rivelate in gran parte sbagliate. E qui torniamo ai giocatori che non sono all’altezza della categoria. Ho più volte scritto che quando non ce la si fa dal punto di vista tecnico, si deve correre tre volte più dell’avversario per sperare di batterlo. Così è stata conquistata la serie B. Con una squadra che ha trascinato la città allo stadio, riempiendo quei grigi spalti dove lo squalificato Sannino urlava per dare indicazioni ai suoi. Oggi quel grigio torna a vedersi. Si, è vero, l’ultima posizione non aiuta a richiamare il pubblico. Ma questa è la triste realtà di Varese. Città che fatica a costruirsi una storia, che segue le imprese delle proprie squadre solo quando le cose funzionano. Varese non merita la B e lo dico pensando a quelle migliaia di spettatori che c’erano quando si sono giocati i playoff con Benevento, Cremonese, Padova, Verona e Sampdoria. Dove sono ora? Dove sono quei papà che hanno portato i figli allo stadio per vedere da vicino i ragazzi di Sannino e Maran? E cosa rispondono quando gli domandano perché non si va più a vedere la partita? Che la squadra è ultima ed è meglio andare al cinema? Cosa insegnano loro, a salire sul carro del vincitore? No, Varese non merita la B. Categoria conquistata con sapienza, passione, competenza. Persa per presunzione, distrazione, incapacità. Come fa un presidente a rilevare una società piena di debiti senza accorgersene? Come pretende di chiedere aiuto senza un progetto? Di ottenere quattrini per superare la scadenza più imminente senza una programmazione? Di risvegliare una classe imprenditoriale egoista, capace di chiedere biglietti omaggio in cambio di niente e diventare profeti quando le cose vanno male: “l’avevo detto io”.

Anche la nostra categoria non è esente da colpe. Quanti colleghi privi di esperienza e carichi di presunzione si sono improvvisamente trovati a commentare gare di B quando avrebbero dovuto farsi le ossa con dieci righe di calcio minore la domenica? Fra qualche mese, quando tutto questo sarà finito, dove sarà la schiera di fotografi e editorialisti dell’ultim’ora? Ecco perché mi stacco ancora una volta dal gruppo. Come facevo qualche stagione fa, quando potevo seguire le partite ai bordi del campo e lontano dalla sala-stampa. Dove si sente davvero la spinta dei tifosi e si respira il profumo dell’erba appena tagliata. Oggi il titolo della rubrica è: “Punto e basta!”. Anche se in fondo spero che non sia “tutto scritto”, come diceva un caro amico. Finché la palla rotola si può ancora sperare in un rimbalzo fortunato.

vito romaniello (2)Vito Romaniello, direttore Agr