Lo dico in premessa: questa intervista nasce male.
Nasce male perché, prima, colpa mia, avrei dovuto spiegare a Craig Callahan chi era Lucio Dalla. Prima avrei dovuto dirgli che il fantastico Lucio -le canzoni “Cara” e “Futura”, tra le centinaia e centinaia, vi bastano??-, nel lontano 1967 scrisse una canzone “Bisogna saper perdere” che nel ritornello continuava con un “triste” ma realistico: “Non sempre si può vincere”.
Avrei dovuto, e forse più avanti lo farò, ma intanto il buon Craig nell’iniziare la sua analisi sul campionato in corso dice: «Certe stagioni ti spaccano dentro. Feriscono anche uno come me che alle spalle ha una lunga carriera. Ti fanno male perché -dice Craig-, a perdere non ti abitui mai. Ti deprimono soprattutto se hai un carattere come il mio: sono un grande lavoratore, credo ciecamente in quello che faccio, do sempre tutto, non mollo mai e questa è la qualità più importante che voglio da me stesso e dagli altri».

Così, messo da parte Lucio Dalla, Craig osserva:
«Sono un tipo all’antica: per niente multi-tasking, per niente al passo con i tempi moderni. Tutto ciò forse rappresenta un difetto, ma per me focus e attenzione sono tutti per un lavoro alla volta e non sono davvero in grado di fare bene due cose insieme».

Quanto incide l’andamento del tuo lavoro, quindi, il rendimento della squadra, quindi il vincere o il perdere sulla tua idea di felicità?Cremona-Openjobmetis Varese. Schiacciata di Callahan
«Sarebbe bene distinguere cos’è felicità. Oggi, se intesa come elemento assoluto, la felicità per me è rappresentata dallo stare con la mia famiglia, è vivere bene con mia moglie e i mie due figli, è vederli stare bene, crescere in salute, circondati da un buon livello di sicurezza e benessere. Però, diciamolo, è innegabile che la felicità, intesa come elemento “accessorio” o meglio, complementare, dipende, può dipendere, e pure tanto da come funziona il tuo lavoro. Quindi, la mia idea di felicità oggi è puntata soprattutto sul vincere le prossime partite in modo da poter dare un senso più compiuto, e pieno, e tutto sommato giusto, alla nostra stagione».

Così, mentre sul nostro giradischi virtuale scorrono le note dei Pink Floyd, il gruppo musicale preferito da Craig, vien naturale domandargli: a chi canteresti “Wish you were here”?
«A Justin DeMoss, un mio caro amico delle medie superiori morto tragicamente in un incidente stradale: sono passati tanti anni, ma ancora oggi ho il ricordo di un giorno molto, molto triste».

E il giorno più felice?
«Facile: “i giorni” in cui sono nati i miei figli (Cael 4 e Chloe 1): entrambi belli e sani. Un aspetto quest’ultimo che, credimi, non bisognerebbe mai dare per scontato. In particolare quando mi capita di vedere documentari che descrivono in modo agghiacciante le terribili condizioni in cui vivono ancora tante famiglie povere ed il loro bambini».

C’è stato un incontro che ha cambiato il corso della tua vita?
«A parte quello con mia moglie, intendi? Sì, c’è stato. Il giorno in cui incontrai il mio primo procuratore al Basketball Showcase Event all’Università di Virginia Commonwealth. Quell’uomo, mostrando grande sicurezza, mi spiegò che potevo tranquillamente pensare ad una carriera da professionista nel basket e poche settimane dopo mi procurò il primo contratto».

Quindi, se ho capito bene, non avevi idea di giocare né, tantomeno, di giocare all’estero?
«Esatto: allora credevo poco nei miei mezzi e pensavo al basket solo come ad uno sport favoloso e ad un bella forma di divertimento con amici e compagni di scuola. Col tempo ho acquisito maggior fiducia anche se, è giusto ricordarlo, nei primi anni in giro per l’Italia mi sentivo poco apprezzato. Adesso le cose sono via via migliorate: sento che la gente mi rispetta di più come giocatore e so che il vostro paese è quello in cui vorrei chiudere la mia carriera».

Openjobmetis Varese-Pistoia. Callahan attacca il ferroVita dura quella del giocatore?
«Via, non scherziamo: essere pagati, e pure abbastanza bene, per giocare è una benedizione del cielo. Poi, è chiaro, qualche piccolo sacrificio bisogna pur farlo e qualche disagio devi pure affrontarlo. Il più fastidioso è il lasciare famiglia e amici negli Stati Uniti, ma dopo 12 stagioni oltremare ci ho fatto l’abitudine e quando torniamo a Jacksonville (Florida), dove viviamo, bastano poche ore per riallacciare tutti i rapporti e pochissimi minuti per tornare a fare quello che più mi piace: trascorrere il tempo libero coi miei bambini, giocare con loro a baseball nel giardino di casa (come faceva mio padre con me), leggere i libri di Robert Jordan o Dan Brown, i miei autori preferiti e aiutare mia moglie nei lavori di casa. Quello però -confessa Craig con un sorriso- un po’ meno».

Estate serena e in stagione, invece, come ti va?
«Diciamo che vivo preoccupato per gran parte del tempo e ho sempre la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Uno stato d’animo che peggiora in periodi come questi in cui si vince poco e come se non bastasse si caratterizza con un sogno ricorrente: il giorno della partita mi sveglio tardi, la gara è già iniziata e per quanto provi a prepararmi in fretta c’è sempre qualcosa, un inghippo, che mi fa tardare ancora di più. Così, arrivo al palazzo che mancano solo pochi minuti alla fine e tutti, allenatori, compagni, pubblico sono incazzati neri con me. Più che un sogno ricorrente, direi un incubo e se vincessimo qualche partita sarebbe meglio. Anche per questi sgradevoli “accessori”».

Dai sogni-incubi ai sogni futuri: dove ti vedi, o meglio, come ti immagini fra dieci anni
«Mmmh: domanda accattivante, ma risposta difficile. Provo, appunto, ad immaginare. Oggi ho una laurea di primo livello in Affari e Finanza, ma solo con quella in USA ci fai poco. Quindi, tra qualche anno, una volta attaccate le scarpe al chiodo, dovrò tornare sui libri per prendere un Master in Business Administration e, sperabilmente, trovare un posto di lavoro come Manager Finanziario in un compagnia a Jacksonville. Poi, con la mia famiglia andremo a vivere nella casa che stiamo costruendo: a dieci minuti dal mare e a poche centinaia di metri da un bellissimo parco pubblico. Insomma: un posto ideale dove vivere e far crescere i bambini».

E il basket?
«Certamente mi mancherà, ma non si può giocare per sempre e, oggi, non mi vedo impegnato in altri ruoli cestistici come allenatore o team manager».

La pallacanestro, sabato sera, sarà il match contro Brindisi…
«Gara immancabilmente durissima anche perché, in questo periodo della stagione, con i vari traguardi che si avvicinano tutti gli avversari stanno alzando il livello delle loro prestazione tecniche e mentali e, Brindisi, team molto solido nei principi è da playoff. Noi, però, stiamo andando meglio, siamo più compatti in difesa, più coesi in attacco e giochiamo un basket più efficace. Poi, aspetto sempre determinante che personalmente sento tantissimo, abbiamo un debito aperto, non ancora saldato con la gente di Varese. In questi mesi ho studiato abbastanza a fondo la storia di questo club e capito che passione, competenza e orgoglio di fare basket in questa città non sono nati per caso. A Varese il basket è dinastia e vincere, sotto il tetto di Masnago -conclude Craig-, è un dovere».
Alla faccia, mi dispiace dirlo e mi perdonerà per questo, del carissimo Lucio Dalla…

Massimo Turconi