Mai sopportato l’autocommiserazione, il lamento fine a se stesso, il piangersi addosso. Odio profondamente l’atteggiamento di coloro i quali saltellano tra pulsioni di euforia e la più cupa disperazione. Cassandra ha trovato casa a Varese, precisamente sugli spalti dello Stadio Franco Ossola, lo stesso luogo dal quale, in questi dieci anni,  legioni di presunti tifosi urlavano al cielo tutta la loro soddisfazione per una squadra ed una Società unta dal Signore, vincente su tutta la linea.
Ed ecco scoperto l’arcano, il punto dolente, il molare cariato. La vittoria. Maledetta. Ti seduce, ti adesca, ti circuisce. E ti corrompe. Quando se ne va, quando l’amore finisce, consumato l’atto carnale, ti lascia nel vuoto. Il nulla. Stringi un pugno di mosche. E se non si è uomini sino in fondo, se il germe del trionfo si fa strada e non si è in grado di ostacolarlo, ecco la pena, il tormento, lo sconforto. Lo dichiaro senza mezzi termini, dieci anni buttati nel cesso. Dieci anni di costruzione di un progetto A.S.Varese 1910, dal bimbo più piccolo a Capitan Neto, anestetizzati da una stagione disgraziata.
E’ sufficiente un periodo storto, nel quale nulla va come deve andare, per estorcere il peggio dall’essere umano. Improvvisamente conta solo la prima squadra. Del meraviglioso iceberg biancorosso plasmato in un decennio, tutti si concentrano sulla punta. Certo, la più visibile, da vestire a festa, da sostenere, caldeggiare, difendere anche nella malasorte, ponendo in luce che, sotto la punta, la montagna di ghiaccio è composta da professionisti che lavorano sul campo con le giovani leve, incuranti da ciò che accade in punta, perché il Progetto di Società parte dal basso, dal lunedì alla domenica, con l’impegno degli allenatori e dei vari responsabili, a volte autori di veri e propri miracoli sportivi, considerando le strutture a disposizione.
Tutto ciò se possedessimo una parvenza di cultura sportiva. Mi correggo, di cultura e basta. Ed invece assisto, amareggiato, al festival della bestialità, un indecente spettacolo secondo la regola del “vale tutto”. Mezzi uomini che, grazie ai social e tutte le diavolerie tecnologiche, insultano chiunque in maniera anonima, filosofi della pedata che pontificano assicurando ricette da elisir di lunga vita, prepensionati in cerca d’autore dall’intelligenza medievale e dal lessico da osteria, controfigure che deambulano tra un bisognino del cagnolino ed un bianco spruzzato con in tasca la formazione e la soluzione dei problemi. Nel calderone si getta tutto, lo schifo è generale, ricominciamo da zero, dilettanti e ripartiamo. Certo, se non fosse che, per gli animali che siamo, dopo tre partite perse in serie D, la solfa sarebbe la medesima. Si butta via il bambino con l’acqua sporca.
No, non funziona così. Il mio Varese non è questo. Il mio Varese è l’impegno e la passione di tutti i “minatori” biancorossi che sanno dare il giusto valore alle persone ed agli avvenimenti. Comprendono la legge dello Sport, qualcuno vince, altri perdono, puoi salvarti o retrocedere. Intuiscono che non sia la vittoria l’unica cosa che conta, ma l’impalcatura sulla quale, poi, costruire la vittoria. E riconoscono il vero tesoro di questa Società, i ragazzi, i loro genitori, il mondo che si muove attorno all’ambiente pulito biancorosso. Questo è il mio Varese. Il resto è gazzarra da bettola in cui non mi riconosco e che mi stimola cupe riflessioni. Non abbiamo sudato dieci anni per trasformare una residenza in un lupanare. Nel 1979 il Banco del Mutuo Soccorso pubblicò il live “Capolinea”.  In questo momento mi rappresenta perfettamente.

Marco Caccianiga