Cosa puoi pensare di uno che in questi giorni sta finendo di leggere “Cavalli selvaggi” di Cormack Mc Carthy e che nel recente passato ha avuto sul comodino Donna Tartt (Il Cardellino), J.R. Moheringer (Il Bar delle Grandi Speranze) e, non da tutti, conosce persino Willa Cather? Intanto, puoi pensare che, prima di tutto, è, deve per forza essere, una persona eccellente. A questo punto, con il “lettore seriale” Daniele Cavaliero, metto da parte per almeno mezzora l’argomento basket, e, insieme, ci avventuriamo lungo i percorsi, non sempre facili, della moderna letteratura americana. “Mi piace lo stile asciutto, pure piuttosto crudo, degli scrittori citati. Mi piace la loro capacità di raccontare i fatti e – dice Cavaliero -, probabilmente li preferisco perché rispecchiano il mio carattere concreto, realista, che bada al sodo”.

OjM-Cremona CavalieroIl pragmatismo è nelle parole, ma non nel modo di giocare. Da quando ti conosco, sei sempre stato uno più da “cavalli selvaggi”…
“Considerazione corretta, perchè poi, una volta sul parquet, emergono comunque personalità e inclinazioni. Mi dedico alla lettura e ho interessi che spaziano dall’arte, alla musica, ai viaggi, a tutto ciò che è bello o riguarda l’ingegno dell’uomo. Probabilmente, quando gioco la mia vena artistica prevale sull’aspetto puramente ragionieristico, ma la ricerca dell’equilibrio tra estetica e concretezza del gioco è una delle cose più belle, stimolanti e difficili per qualsiasi giocatore. In particolare per un playmaker. E ancora di più per uno come me che, ormai, è nella fase più matura della sua carriera”.

Già, la tua carriera, piena di fermate, date, avvenimenti, incontri, situazioni. A che punto è il bilancio adesso che hai virato la fatidica boa dei trent’anni?
“Premessa doverosa: come dicevo prima ho tanti interessi ma, da oltre quindici anni, una sola passione, un solo esclusivo e totalizzante amore: la pallacanestro. Detto questo, mi scuso, ma non  penso sia arrivato il momento per tirare un bilancio, anche parziale, sulla mia carriera che, spero, possa essere ancora lunga e gloriosa. Volentieri, se vuoi, posso anche snocciolarle tappe del mio percorso professionale sottolineando che nell’ideale mosaico della mia vita 99 mattonelle su 100 sono per il basket cui ho dedicato impegno incredibile e scelte radicali fin da ragazzino”.

Quali scelte, ad esempio?
“Quella proposta dai miei genitori, avevo 15 anni, in un indimenticabile consiglio di famiglia. Mamma e papà mi posero davanti al bivio: o prendere sul serio la pallacanestro e impegnarsi al mille per cento per cullare il sogno del professionismo; oppure pensare al basket solo come ad un bel gioco e a tanto divertimento. La scelta, è chiaro, spettava a me, ma loro, in ogni caso, mi avrebbero appoggiato senza se e senza ma”.

Torniamo quindi alle tappe del tuo percorso da giocatore professionista partendo da Trieste…
“Trieste è il club di casa mia, quello dell’orgoglio, dell’appartenenza. Il club che mi ha offerto l’emozione indescrivibile dell’esordio, al quale era presente anche mia nonna, persona fondamentale nella mia esistenza. Ed è, ancora, la squadra della mia affermazione in serie A. Per tutte queste ragioni resterà sempre nel mio cuore”.

Cavaliero per PagellePoi Milano e la Fortitudo Bologna, fermate “clamorose”…
“Sulla carta sì, avrebbero dovuto esserlo. Poi, nella realtà, per me si sono rivelati due posti giusti nei quali sono approdato al momento sbagliato o, se vuoi, o meglio, con le persone sbagliate. A Milano, il primo anno, avevo solo 20 anni, non è stato neanche male sia per i risultati di squadra – “famosa” finale scudetto persa con un tiro allo scadere di Ruben Douglas -, sia personali. Invece, l’anno successivo, al momento di raccogliere quanto avevo seminato, le scelte dei dirigenti, meglio sorvolare sui loro nomi, mi hanno “ammazzato”. Non a caso coach Djordjevic, con grande onestà, a metà anno mi consigliò di cambiare aria. Detto, fatto. Finii, molto bene e con grandi soddisfazioni la stagione a Roseto ed il presidente abruzzese Mancinelli, nel frattempo spostatosi alla Fortitudo, mi chiamò a Bologna. Anche qui, però, si dipanò una stagione maledetta: quattro cambi d’allenatore, Frates, Palumbi, Ataman, Oldoini; denso via vai di giocatori e, in definitiva, un “bel” caos societario. Totale generale: un’altra annata abbastanza buttata via, ma nell’insieme due grandi lezioni imparate”.

Quali?
“Lezioni dure, che ti rimangono per la vita: al livello professionistico prima impari a cavartela da solo, meglio è”.

In che senso?
“Nel senso che se hai la fortuna di avere allenatori o società che credono in te, tanto meglio e tanto fa. Tuttavia, ho imparato a mie spese che questa cosa non è una regola, anzi capita di rado. Detto in termini crudi prima o poi impari che non sei e non sarai mai un patrimonio della società, che devi attrezzarti mentalmente per resistere a tutte le “intemperie” e non devi contare sull’aiuto di nessuno. Insomma: l’unico che può ragionevolmente “gestire” la carriera di un giocatore in serie A è il giocatore stesso”.

Compagni di squadra o, comunque, giocatori di riferimento?
“Guarda, sono cresciuto guardando a Chiarbola (palazzetto di Trieste, ndr), un fenomeno assoluto come Steve Burtt e, allora, pensavo che lui fosse il basket. Poi, più tardi, ho capito che Steve era solo una parte della pallacanestro: quella più legata all’estro individuale, al talento messo in proprio. Diventato giocatore di quel livello, ho capito che il concetto di squadra-orchestra è quello ideale. Ho capito che, come su uno spartito, per vincere serve il perfetto bilanciamento tra le parti da solista e quelle in cui occorre suonare tutti insieme. A quel punto i giocatori di riferimento sono diventati altri: Basile, Bulleri, Coldebella, Blair, Calabria, Jumaine Jones e potrei continuare con tanti altri nomi”.

Va-Sassari CavalieroTorniamo alle tappe: Avellino, Pesaro, Montegranaro?
“Avellino per me è stato come recitare il ruolo di Claudio Bisio in “Benvenuti al Sud” perché, è vero, ad Avellino ho pianto due volte: quando ci sono andato e, tanto, quando ho dovuto lasciarla. In Irpinia infatti ho avuto tantissimi amici e un’altissima qualità di rapporti umani. A Pesaro invece ho il ricordo fantastico di aver giocato insieme a persone veramente “fighe” come Flamini, Hackett, Jones, White e in ambiente bellissimo e caloroso. A Montegranaro, infine, la città dove finora mi sono fermato di più, tre campionati tutti interi, ho vissuto con serenità la pienezza dell’essere giocatore”.

Incazzatura della vita?
“L’anno di Bologna quando il presidente Martinelli in conferma stampa dopo una brutta sconfitta dichiarò: “Signori, ma con Cavaliero e Fultz, dove pensate di arrivare?”. Diciamo che non fu esattamente un bel modo per motivare due ragazzi giovani e pieni di entusiasmo come me e Robert”.

Rammarico della vita?
“L’anno di Milano, senza dubbio. Lasciai Trieste, accompagnato da tutta la mitologia e dall’aneddotica tramandata sulla rotta Trieste-Milano: Rubini, Pieri, Jellini, la Stefanel, Tanjevic e così via. A vent’anni, e dopo aver firmato un quadriennale, sognavo di poter essere il Maldini del basket e diventare un simbolo italiano dell’Olimpia. Non mi hanno mai nemmeno dato la possibilità di provarci”.

Oggi, a Varese: quali le sensazioni?
“Non una sensazione, bensì una certezza: so di essere approdato in una meravigliosa città che vive per il basket, lo conosce e lo mastica in tutte le lingue, in tutte le sue declinazioni. Qui non puoi sbagliare e peggio ancora non puoi fare finta. Detto questo, finora siamo capitati in una stagione “da delirio” per infortuni e altre vicende, ben note, che sicuramente non hanno aiutato il lavoro eccellente che stiamo facendo con coach Moretti. Poi, se posso fare un appunto, in qualche occasione nemmeno il pubblico di Masnago ci ha dato una mano. Capisco la passione, comprendo la pressione trasmessa dall’ambiente, capisco che il rapporto tra noi possa essere odio-amore e giustifico anche una certa intransigenza. Però, dal momento che nessuno di noi “fa apposta”, quando siamo sul campo mi piacerebbe che squadra, staff tecnico e pubblico fossero una cosa sola: granitica nella fede e solidale nei momenti difficoltà. Quindi, finchè si gioca sostienimi, stai dalla mia parte e non infamarmi. Poi, a fine partita, se vuoi “ammazzami” di critiche, insulti. Ma, ripeto, a fine gara. Oggi c’è l’Armani, l’unico match che mai avrei voluto saltare, ma per questo derby, sulla carta impossibile, non servono parole. Serve solo giocarlo e vincerlo insieme. Sempre uniti, al 120%”.

 Massimo Turconi