Marco Caccianiga è uno dei simboli più vivi e significativi del Varese. È stato l’allenatore di tutti i bambini biancorossi, quello che quando arrivavi allo stadio ti accoglieva sempre con un sorriso grande così. Prima responsabile dei Piccoli Amici e del Progetto Bimbo – inventato proprio a Varese -, poi coordinatore del settore giovanile. Un’avventura che è terminata con il fallimento del Varese 1910 – ora si occupa dei bimbi del rugby -, ma a cui probabilmente non è ancora stata scritta la parola fine. Perché il suo cuore sanguina ancora biancorosso.

Come sta oggi Marco Caccianiga?
“Discretamente. Mi sono preso un anno sabbatico di pausa dal calcio per come si è chiusa la stagione scorsa. Ho accumulato veleno e amarezza e per una stagione avevo bisogno di stare lontano. A questo proposito mi ha aiutato diventare delegato provinciale del CONI e ringrazio per l’opportunità il presidente Oreste Perri che mi ha dato la possibilità di tenere il contatto con le realtà sportive, cosa che a me piace molto. Poi ringrazio anche il rugby Varese che assieme a Serena Petrocchi mi ha fatto respirare di nuovo l’aria del campo coi bimbi: mi mancava moltissimo”.

Qual è il suo ricordo più bello del Varese dei piccoli e dei grandi?
“Ti dico la verità: in undici anni abbiamo costruito tutto, siamo partiti come la società di adesso a cui faccio i complimenti. Sotto l’egida dei Sogliano abbiamo fatto qualcosa di veramente grande. Negli ultimi anni poi sono arrivati anche molti bambini grazie ai successi della prima squadra. Il ricordo più grande è ovviamente quello del piccolo Martino, il nostro polpetta scomparso in quel modo. Poi, prima della finale contro la Cremonese è successo qualcosa di grande. Giuseppe Sannino aveva appena finito di condurre l’allenamento di rifinitura e poi portò tutti i calciatori a giocare con i bambini: poteva succedere solo a Varese. Andammo in B perché non c’era differenza fra la prima squadra e la squadretta dei piccoli, erano tutti biancorossi”.

Cosa le ha dato a livello umano lavorare coi ragazzi?
“Stupore, meraviglia, ingenuità e anche un po’ di quel sano fatalismo tipico dei bimbi. Mi sono abituato ad accontentarmi delle piccole cose e dare peso ai piccoli dettagli che fanno la differenza, e queste sono cose che mi insegnano ancora i piccoli. Da quando ho iniziato questo lavoro, dico che il calcio è uno sport meraviglioso fino ai 12 anni: dal punto di vista motorio è completissimo. Poi passa da sport a mondo a parte e si perdono i valori di prima. Spesso viene inquinato da personaggi imbarazzanti con troppi interessi”.

Lei ha a cuore il tema del calcio negli oratori. È ancora una risorsa?
“Assolutamente sì. Nasco e cresco all’oratorio San Vittore, probabilmente ero più all’oratorio che a casa mia. ho un rapporto straordinario con Don Alessio Albertini che è una persona meravigliosa: lo invitai qui quando il Gubbio venne a giocare a Varese. Noi avevamo lo spirito dell’oratorio, così come ce l’hanno adesso. Nel Varese è cambiato il nome ma non lo spirito, che è questo: le persone sono sempre quelle”.

Caccianiga_ErmolliCom’è stato passare dal calcio al rugby?
“Non è stato nulla di traumatico, perché mi occupo della parte motoria: è la stessa cosa che facevo al Varese con il progetto bimbo, che fra l’altro abbiamo inventato noi. La grammatica del movimento è uguale per tutti. In realtà ho solo cambiato luogo d’intervento, dallo stadio al campo di Giubiano”.

Cosa può imparare dal mondo della palla ovale?
“Si spara sempre sul calcio, e a volte anche a caso. È il gioco più semplice del mondo da seguire. Mi spiego: basket, volley, rugby e hockey sono sport estremamente tattici con molte regole. Se non le so, non ne posso capire. Il calcio ha tre regole e per questo è così diffuso: chiunque si sente in diritto di esprimere il proprio parere ed assurgere ad allenatore. Essendo il più seguito è il più vulnerabile da inquinamenti di gente poco raccomandabile. Il vantaggio del rugby è che vincere non è fondamentale, si accetta la sconfitta. Nel calcio la vittoria è l’unica cosa che conta, scatenando ogni tipo di reazione. Guardiamo l’ultimo anno del Varese: gli altri erano più forti, ma questo era inaccettabile”.

Ci spiega il motivo per cui in estate ha lasciato il Varese?
“Non ho accettato il fatto di mettere tutti sullo stesso piano. Indubbiamente ci sono stati dirigenti che hanno sbagliato, fra gestione della squadra, cambi di allenatore e situazioni poco chiare. Noi le facevamo notare e lavoravamo sottotraccia: non abbiamo mai perso un allenamento non percependo un euro di rimborso. Siamo stati inseriti in un calderone venendo paragonati agli altri. Addirittura ci sono state rivolte critiche furiose che dicevano che il settore giovanile era scomparso, e questa cosa mi ha amareggiato non poco. Le colpe non sono state divise fra i responsabili: non è possibile che gente come Masini, Milanta, Belluzzo e Piatti siano stati inseriti in questo vaso di Pandora causa di tutti i mali. Io non l’ho accettato. Sono stati cancellati undici anni con una sola stagione, seppur disgraziata. Io l’ho vissuta come una sconfitta personale, perché pensavo che avessimo superato la fase del delirio e dell’insulto. Invece a Varese puoi solo vincere”.

La rivedremo al Franco Ossola prima o poi?
“Io ho sempre detto che nasco nel Varese e muoio nel Varese. Quando sono andato via non sono passato a nessuna squadra di calcio, anche se mi hanno cercato. Piuttosto, ho cambiato sport. Ci mancherebbe, sono a disposizione e non c’è nessun problema, anche perché coi nuovi dirigenti c’è un rapporto meraviglioso e non c’è nessun problema né preclusione di nessun tipo. All’inizio mi avevano anche cercato, ma era troppo vivo il dolore: non potevo far finta di nulla”.

Luca Mastrorilli