Una lunga chiacchierata in compagnia di Marino Zanatta, con vista panoramica sul derby tra Varese e Cantù, è ancora e di gran lunga il miglior modo per combattere il disturbo post-traumatico innescato da un campionato non all’altezza delle aspettative e delle speranze del popolo biancorosso. Certo, direte voi in tono pragmatico, dialogare di pallacanestro con Marino, uomo intelligente, ironico, depositario di un’immensa cultura cestistica (e non solo…) e un naturale “understatement”, non aggiungerà punti in classifica all’attuale disastrata Openjobmetis, ma certamente può restituire tranquillità e serenità di giudizio in un momento in cui molti, anche tra i protagonisti, stanno “sbarellando”…

Carissimo Zago, eccoci pronti per un altro derby…
“Premessa doverosa: per me, milanese di nascita, è sempre stato difficile considerare derby la partita contro Cantù. Derby, per me cresciuto in casa All’Onestà, erano quelli contro l’Olimpia Milano oppure – ricorda Marino -, da varesino adottato, quelli contro la Robur et Fides. Tuttavia, solo dopo qualche stagione con la maglia Pallacanestro Varese ho capito il senso della grande rivalità tra “confinanti”. Solo più avanti ho compreso che Varese e Cantù, divisi da una striscia di terra, ma da montagne, tonnellate di orgoglio, lottavano per la supremazia del “piccolo è bello” nutrendosi dell’eterna sfida che i “Davide”, noi e Cantù, lanciavano ai “Golia” delle metropoli del basket: Mosca, Madrid, Barcellona. E più tardi ancora, riflettendo a bocce ferme, con grande soddisfazione ho realizzato che sia noi di Varese sia, è giusto e bello riconoscerlo, gli immarcescibili nemici-amici di Cantù abbiamo messo insieme due favole irripetibili, sia nel mondo della pallacanestro, sia nel mondo della sport a 360 gradi. Esaurito questo lungo preambolo, mi risulta davvero complicato identificarmi, oggi, in un derby che, al di là della classifica deludente di entrambe le squadre, ha perso man mano i significati profondi di un tempo. Parliamo, scriviamo, leggiamo la parola derby ma, suvvia, sappiamo che crederci è un atto di fede e che dietro al termine c’è davvero poco. Pensa che non ci saranno nemmeno i tifosi…”.
Come dire: ma che derby sarà mai…?
“Capisco al mille per cento le ragioni di chi dovendo gestire l’ordine pubblico non vuole guai e agisce preventivamente per evitarli. Tuttavia, allo stesso tempo mi domando: ma come si è ridotto lo sport italiano, il basket nello specifico, se non è nemmeno capace di tutelarsi di fronte ad una ventina, una cinquantina, fate voi, di personaggi capaci di tenere in scacco una gara e bloccare addirittura una città con le loro “imprese” poco edificanti. E, ancora, ma quanto è distante è lo sport di casa nostra dagli esempi illuminati offerti, per esempio, dal rugby, disciplina in cui i tifosi stanno tutti insieme, uomini, donne, bambini, ognuno cantando, divertendosi, entusiasmandosi e gioendo per la propria squadra? Nel basket abbiamo “inventato” le gabbie per i tifosi, una parola che di per sè dovrebbe genere orrore, e dopo averlo fatto, le teniamo comunque vuote. E forse, al netto, è anche meglio… Insomma: personalmente voglio il tifo, ma quello caldo, colorato, pieno di cori, di ironia, di sfottò, ma anche, soprattutto, di rispetto. Insomma: viva le straordinarie coreografie prodotte dai ragazzi della Curva Nord – ricordo ancora adesso quella bellissima del transatlantico canturino che si schianta contro l’iceberg-Varese -, ma viva anche l’aereo che volteggiava sopra Masnago con tanto di striscione per “festeggiare” la retrocessione in A2 ideato dai tifosi di Cantù. In definitiva, viva il tifo ironico e intelligente. Abbasso, sempre, gli stupidi che vengono al palazzetto solo per fare casino. Con quelli servono misure severissime, senza se, senza ma!”.
Sfogliamo il tuo personalissimo, ricchissimo album dei ricordi: quale il più bel derby e quale il più doloroso?
“Belli tutti quelli in cui abbiamo vinto quando c’era qualcosa in palio: scudetto o Coppa dei Campioni. Ne ricordo un paio importanti sia per la corsa verso il tricolore, sia per la Coppa. Per quest’ultima ricordo, dovrebbe essere la stagione 1975-1976, un inedito derby in semifinale di Coppa dei Campioni che, vinto, ci spalancò le porte per la finalissima di Ginevra. Tra quelli brutti la risposta è facile. Il primo nella stagione 1970-1971 perso a Cantù dopo un supplementare. Con quella sconfitta, cui ne seguì un’altra contro la Reyer Venezia, ci mangiammo il tesoretto di sei punti di vantaggio che avevamo nei confronti di Milano e finimmo così allo spareggio di Roma contro il Simmenthal. Il secondo, stagione 1974-1975, perso a Cantù tre giorni dopo il trionfo di Anversa in Coppa dei Campioni. Loro erano scatenati, noi un po’ appagati, ma soprattutto stanchi e senza più energie fisiche e nervose, perdemmo lasciando via libera verso lo “scudo” alla Forst Cantù. Ho ancora nelle orecchie la voce fastidiosa dello speaker di Cantù il quale, da vero “Signore” e con straordinario fair-play al contrario, a tre minuti dalla sirena finale, noi stremati e senza più reazioni, cominciò ad aizzare il pubblico scandendo il coro: “Mancano tre minuti allo scudetto”, “Due minuti al titolo di Campione d’Italia”, “Un minuto alla festa. Ale Cantù”. Giuro, avessi potuto, lo avrei fatto a pezzi…”.
L’avversario più rognoso?
“Ricordo l’enorme impressione che mi fece Antonello Riva quando, noi Turisanda e primi in classifica, giocammo al Pianella contro la Squibb Cantù. Riva, da ragazzino, produsse una partita clamorosa e loro ci rullarono senza pietà con oltre 30 punti di scarto”.
E, oggi, come vivi questa gara?
“Tifando per Varese ma anche col distacco dovuto, imposto, da situazioni che francamente capisco poco”.
Per esempio?
“Per esempio, tutto ‘sto Circo Barnum legato a giocatori stranieri di dubbia fama e criticabile talento. Per esempio tutto lo scimmiottare una forma di para-spettacolo che, mia idea, non appartiene alla nostra cultura e formazione sportiva. Per esempio, parlo di tecnica, un gioco spesso stucchevole. Per esempio il fatto che raramente vedi tre-quattro azioni consecutive di buona difesa. Per esempio, parlando di gestione dei giocatori, la grande “vaccata” delle rotazioni. Sinceramente – commenta Zanatta, grande campione nonché, a lungo, storico capitano della Nazionale Italiana -, non capisco il senso dell’aver dieci-dodici giocatori a referto quando, poi, la maggior parte degli allenatori fatica nel trovare per loro spazio e adeguata collocazione tecnica e tattica nei vari momenti della partita. Non credo nemmeno alla “bufala” degli alti ritmi di gioco e, soprattutto, determinante, non credo che atleti giovani, sani, e in forma non siano in grado di reggere due (dico due) partite la settimana giocando una media oltre i 35 minuti. Quindi, delle due l’una: o i giocatori sono scarsi o, più probabilmente, sono poco o male allenati. Penso, anzi, sono sicuro che il vecchio adagio “La fatica non esiste” sia valido ancora oggi. Quindi, se ci sono titolari che non sono in grado di stare sul parquet 35-38 minuti di media e si sentono affaticati, dal mio punto di vista significa che non sono preparati nella maniera corretta”.
Sabato sera come finirà?
“Spero, penso e mi auguro con i due punti per la nostra Varese, ma, butto là una provocazione, se per puro paradosso, nel tunnel che porta al campo, alcuni giocatori di Varese e Cantù si scambiassero le maglie, in quanti pensi se ne accorgerebbero???
Detto questo: ora e sempre, forza Varese…”.

Massimo Turconi