La parentesi di Attilio Caja a Varese nella stagione 2014/2015 non era coincisa con una prosecuzione nel campionato successivo, nonostante il buon finale di stagione e un ambiente che si era compattato attorno all’allenatore pavese. Caja è stato richiamato a fine dicembre per provare a rimettere in sesto una squadra che aveva vinto appena sette partite. Il lavoro da compiere, stando alle parole dello stesso coach, sarà lungo. Alla Openjobmetis e ai tifosi varesini non resta che avere fiducia in un coach che, due anni fa, si fece apprezzare in una situazione simile per crisi di gioco e di risultati.

L’etichetta di allenatore da chiamare in corsa le sta stretta?
«Ogni allenatore ha una sua storia personale, che serve per dimostrare ciò che si è fatto. Quando ho avuto la squadra da inizio campionato, ho sempre fatto i playoff: si pensi alle stagioni a Roma e Milano o a quella a Rimini quattro anni fa. Questa definizione mi sembra riduttiva. Se uno ha delle qualità che gli vengono riconosciute, le ha indipendentemente dal periodo in cui si siede sulla panchina. Piuttosto può non essere vero il contrario: è più difficile arrivare a metà stagione trovandoti ingredienti che non hai scelto che incominciare dall’inizio avendo la possibilità di scegliere gli elementi a disposizione. Penso che in fondo chi riesce ad allenare in emergenza sia anche più agevolato a prendere in mano una squadra da inizio campionato».

Quali sono le sensazioni di queste prime settimane?
«Sono stati giorni molto impegnativi perché abbiamo dovuto fare diverse cose. I tempi ristretti e la concomitanza delle feste, che non garantisce la stessa aria delle settimane lavorative normali, ha portato ad una situazione anomala che ha compreso partite al lunedì o al martedì. C’è ancora tanto su cui lavorare, ma non è una cosa che ci spaventa: dà anzi carica ed energia. Dopo una sconfitta magari sono demoralizzato, ma già dal giorno dopo mi ricarico parlando con il mio staff e riguardandomi la partita. Le difficoltà sono oggettive e di varia natura: comprendono la sfera mentale, dell’autostima e della fiducia nel compagno. Le sconfitte sono come le malattie: partono con sintomi leggeri, poi se non li curi si allargano.».

Come mai Varese nei suoi sforzi non riesce ad avere continuità sui quattro quarti?
«Io penso che sia un fattore di solidità e abitudine mentale. La pallacanestro è uno sport di abitudini che ti crei ogni giorno in palestra. Su un campo così piccolo le situazioni le puoi provare e riprovare continuamente. A furia di ripetere le situazioni, diventano automatiche. In un primo tempo pensi a quello che devi fare e perdi l’attimo, quando invece le cose vengono automatizzate iniziano ad avere grande efficacia. Per questo serve tempo, non è come accendere e spegnere una luce. Poi le abitudini mentali sono fondamentali: se in allenamento pensi che perdere un pallone non cambi niente, allora farai lo stesso anche in partita. Bisogna capire l’importanza di ogni attacco, andare sulla cosa più sicura, non rischiare e ridurre il margine di errore nei finali di partita. Ma le abitudini non si costruiscono in un attimo».

Torino squadra ad alti ritmi. Varese giocherà per rallentarli?
«Noi dobbiamo fare la nostra pallacanestro. Abbiamo delle qualità precise e dobbiamo esaltarle, pur nel rispetto degli avversari e pur conoscendo pregi e difetti dell’altra squadra. Non dobbiamo assolutamente snaturarci: stiamo iniziando un percorso alla ricerca di un sistema di gioco efficace e dobbiamo crederci. Non avrebbe senso cambiare pelle, dobbiamo stare sui nostri binari e mettere in campo una difesa molto attenta alle loro caratteristiche. Poi, in attacco, bisogna avere un gioco dinamico e a tutto campo».

Filippo Antonelli