Non è mai banale Charlie Yelverton, non lo è mai stato. Artista sul campo e fuori dal campo (celebre la sua abilità con il sassofono), il nativo di New York ha giocato a Varese per tre stagioni durante gli anni ’70 ed è rimasto nel cuore dei tifosi. Le sue acrobazie e le sue abilità tecniche facevano sobbalzare il pubblico del PalaIgnis. In gialloblù (e in bianconero) vinse una Coppa dei Campioni al primo tentativo e poi uno Scudetto tre anni dopo.

Eppure il basket non lo appassiona più come una volta: «Tra il basket che giocavamo noi e quello di oggi ci sono molte differenze. Innanzitutto, almeno a livello di pallacanestro italiana, vedo troppi stranieri. E poi – racconta Yelverton – c’è una fisicità eccessiva, fallosa, che gli arbitri ormai tendono a concedere. Ma sapete cosa mi dà veramente fastidio? I comportamenti furbi per ingannare l’arbitro, le spinte sotto canestro camuffate da contatti di gioco».

Tutto da buttare o da ripensare? «A me – spiega l’ex giocatore di Ignis e Mobilgirgi – piace la pallacanestro un po’ più tattica. Per questo ogni anno aspetto con ansia il periodo dei Playoffs NBA e delle Final Four di Eurolega. In quelle manifestazioni, a mio avviso, si rivede ancora il tipo di basket che piace a me».

L’Eurolega, quando si chiamava ancora Coppa dei Campioni, Yelverton l’ha vinta. Era il 10 aprile 1975 e, ad Anversa, la Ignis a sorpresa sconfisse il Real Madrid in quella che Bob Morse definì come la partita perfetta: «Fu la dimostrazione del grande spirito di squadra che avevamo. Partivamo sfavoriti perché mancava Dino Meneghin, ma vincemmo con una grande prestazione di Sergio Rizzi. La città lo ha un po’ dimenticato: gli avevano intitolato un Memorial, ma adesso quel torneo non si chiama più così. Forse c’erano altri interessi dietro…».

Yelverton era salito alle cronache negli Stati Uniti nel 1972, quando si era rifiutato di alzarsi per l’inno prima di una partita NBA. Un gesto che è tornato d’attualità dopo che Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers, lo ha riproposto in NFL nel 2016.

«I due gesti non possono essere paragonati: negli anni ’70 c’era la guerra in Vietnam e il razzismo permeava la vita di tutti i giorni. Oggi, secondo me, non si dovrebbe fare un gesto del genere. Basti pensare che all’epoca in cui lo fece Kaepernick c’era un afroamericano presidente, mi sembra difficile tirare fuori questa cartolina del razzismo. A mio avviso – prosegue Yelverton – chi non si alza oggi durante l’inno lo fa per moda o per interessi personali di qualche tipo».

Passare da una considerazione sulle proteste degli atleti ad un’analisi sulla situazione politica statunitense è inevitabile, quando si conversa con un personaggio come Yelverton: «Il gioco delle parti prevede che, tra CNN e Fox News, un canale si opponga a Trump mentre l’altro lo supporta. Prima, ovviamente, un canale parteggiava per Obama e l’altro lo avversava. Quello che non capisco è perché, da parte dell’opinione pubblica, criticare Obama sia ritenuto inaccettabile mentre criticare Trump sia ritenuto lecito e doveroso».

«Obama a mio avviso è un bravissimo oratore, ma poi alla prova dei fatti – continua Yelverton – non mi sembra che abbia ottenuto dei risultati. Basta guardare a cos’è saltato fuori in Siria e in Afghanistan o quello che hanno combinato a Benghazi. Io penso che a Trump si debba concedere tempo e penso anche che l’Europa debba smettere di osteggiarlo. È in gioco la sicurezza di tutti».

Trump è newyorkese come Yelverton («New York ti insegna fin dall’inizio che devi tirarti su le maniche e fare in prima persona, non puoi stare a guardare»), anche se Charlie oggi torna raramente negli USA. Vive sul Lago Maggiore e ha costruito un solidissimo legame con questa terra fin da quando è arrivato per la prima volta a Varese nel ’74.

Al giorno d’oggi è molto raro che un giocatore straniero si leghi alla realtà geografica in cui si trova in un dato momento della sua carriera. «Perché i giocatori ora si muovono di continuo? Per i soldi, è sempre quella la ragione». Semplice e diretto. Questo è Charlie Yelverton.

Filippo Antonelli