5 aprile 1979. Se amate la storia della pallacanestro e, ancora di più se amate la storia della Pallacanestro Varese, segnatevi questa data. E se proprio “andate fuori di testa” per il basket varesino fatene un tatuaggio sulla vostra pelle. Così, ad imperitura memoria. Il 5 aprile di 40 anni fa, a Grenoble, si chiudeva definitivamente, irrimediabilmente, l’epopea della più grande squadra di basket mai vista in Europa. L’epopea della “Grande Varese”, l’unica squadra europea capace di disputare dieci finali consecutive di Coppa dei Campioni vincendone ben cinque.
L’unica squadra capace di dominare un decennio e, in poche parole, la sola che può legittimamente associare il proprio nome ad una definizione: DINASTIA.

Poi, se credete agli eventi soprannaturali, se credete ad un destino già scritto associate il nome Pallacanestro Varese a Sarajevo perchè con la città della ex-Jugoslavia del Maresciallo Tito si apre e si chiude il cerchio magico dei varesini. Un cerchio che inizia nel 1970 e finisce nel 1979. A Sarajevo, infatti, l’Ignis Varese vinse la sua prima Coppa dei Campioni battendo l’Armata Rossa Mosca, mentre contro il Bosna Serajevo, nella triste serata del 5 aprile 1979, l’Emerson Varese si congedò per sempre dalla più bella, importante e prestigiosa competizione continentale.

Ricordare e ripercorrere quel giorno con alcuni dei protagonisti rappresenta, sotto il profilo giornalistico, non solo un doveroso recupero della memoria, ma anche un gesto d’amore nei confronti di chi quell’evento memorabile l’ha vissuto e, in qualche modo, ne ha sofferto le conseguenze.

MAURIZIO GUALCO – ALA PALLACANESTRO VARESE
pallacanestro varese grenoble tabellino della partita“Il mio ricordo di Grenoble – dice Maurizio Gualco -, inizia da… Madrid. Comincia dalla partita, assolutamente pazzesca, giocata e vinta contro il Real dopo un tempo supplementare. Inizia dalla presenza di Marco Cassani, prima firma della Gazzetta della Sport, unico giornalista presente a Madrid che, orgogliosamente, prima della partita mi disse: “Tutti gli altri miei colleghi sono andati a vedere la finale di Coppa Korac, ma io sono qui con voi. Perchè siete Varese e perchè, checchè se ne dica, la Coppa dei Campioni è un’altra faccenda rispetto alle altre “coppette”. Però, adesso, vedete anche di vincerla, ‘sta partita”.

Invece, quell’altra partita, la finalissima, non andò esattamente bene. Come mai?
“Nella lettura a posteriori di quel match potresti trovare tante ragioni sia di natura tecnica, sia mentale, ma il motivo ragione prevalente è uno solo: arrivammo a quella gara in “bolletta sparata”. Il pazzesco sforzo compiuto a Madrid ci prosciugò di tutte le energie fisiche, così a Grenoble giocammo solo “di nervi”. Ricordo solo una quindicina di minuti giocati da “vera Pallacanestro Varese”, mentre i bosniaci andarono via sulle ali dell’entusiasmo, freschi come rose e spinti da due giocatori immarcabili come Delibasic e Varajic. Quei due poterono anche fare il cinema perchè agevolati da una direzione di gara fiscale ai limiti dell’intransigenza. Ricordo che nei giorni successivi alla finalissima mio padre (Giancarlo Gualco, famoso general manager della Pallacanestro Varese ndr) non sapeva darsi pace per i fischi piuttosto stonati dei”grigi”.
gagliardetto pallacanestto varese 01“Non ci hanno permesso di giocare, diceva mio papà, e penso avesse avuto qualche motivo valido per esprimersi in quei termini”. Tuttavia, al di là di questi accenni polemici, è un fatto accertato che l’inerzia della partita passò nelle mani degli slavi dopo il precocissimo quarto fallo sanzionato al mio amico Lupo Carraria. In quel momento fummo costretti a schierarci a zona 2-3, usando con un quintetto piccolissimo: Ossola e Beppe Gergati davanti, Morse, Yelverton ed il sottoscritto dietro. Il Bosna, di contro, rispose con tutti giocatori alti e stazzati e un gigante come Radovanovic in post a smistare palloni e fare presenza in area piccola.
Poi, è vero, il senso tattico del match cambiò ancora quando entrò in campo Dino Meneghin, la cui presenza rese difficile la vita al team allenato da coach Boscia Tanjevic, ma ormai noi eravamo esausti e il cosiddetto “effetto Menego”, pur positivo, non bastò a farci vincere”

Come “te la racconti” quella serata?
“Come un aperitivo: 1/4 di rammarico, 3/4 di serenità. Il  rammarico è innescato da una assoluta, inscalfibile certezza: aver giocato la partita più importante della mia vita con una squadra arrivata all’appuntamento in condizioni approssimative e sostanzialmente priva del suo giocatore simbolo: Dino Meneghin. Di contro ho, anzi, abbiamo tutti quanti la serenità di chi, quella sera a Grenoble, sa di aver dato e fatto il massimo possibile. E il ricordo del silenzio glaciale in spogliatoio al termine della gara non se ne andrà mai più dalla mia mente”.

DODO RUSCONI – PARTE 1

Massimo Turconi