Quanto fosse simpatico, disponibile, accogliente, “caldo” e ricco di umanità Kobe Bryant, in questi giorni lo hanno scoperto un po’ tutti. Anche quelli che, magari, nemmeno sapevano che fosse un giocatore di basket.

Quanto fosse un giocatore dotato di incredibile talento, capace di gesti di straordinaria bellezza tecnica e atletica, ma in grado di esprimere forza ed esplosività da “Numero 1 assoluto”, lo hanno scoperto attraverso le decine di filmati trasmessi in TV o apparsi in rete tutti quanti nel mondo.

Invece quanto fosse esigente fino alle lacrime, nelle richieste in allenamento o in partita, prima di tutto verso se stesso, poi verso i compagni di squadra e verso lo staff tecnico, traspare solo in minima parte.

Esaurita questa lunga premessa, mi rendo conto di aver avuto la fortuna e il piacere di aver visto e ammirato da vicino Kobe in questi tre aspetti della sua meravigliosa vita di uomo e cestista.

Averlo visto impegnato al mille per cento in allenamento (così come mi era successo, altro incredibile colpo di fortuna, anni prima con Michael Jordan…) ha cambiato, per così dire, tutti i miei schemi mentali legati al gioco della pallacanestro.  

Aver poi avuto il grande privilegio e l’onore assoluto di parlare abbastanza a lungo con lui, resterà una delle esperienze cronistiche più preziose nella mia umilissima vita da giornalista di provincia. Un’esperienza per la quale sento di dover ringraziare pubblicamente un uomo straordinario come Toto Bulgheroni.

Un’esperienza che, forse, val la pena di raccontare…   

 

Martedì 16 maggio 2000. Interno notte: la “pancia” dello Staples Center, il fantastico palazzo dello sport piazzato proprio a Downtown Los Angeles, California, che da qualche anno rappresenta la “casa” dei Lakers, squadra di primissimo piano NBA e, con ogni probabilità, tra i “marchi” sportivi più famosi al mondo. Il fatto: gara-5 delle semifinali di “conference” all’Ovest tra Lakers e Phoenix Suns si è conclusa da circa due ore. Lo Angeles al termine di una partita bruttina con basso e inusuale punteggio (vittoria Lakers 87-65) hanno quasi “sweeppato” i Suns vincendo la serie 4-1 e avanzano verso la finalissima di conference dove troveranno Portland.

Da circa un’ora è invece finito il grandissimo, pazzesco rito collettivo dedicato alle conferenze stampa effettuate direttamente in spogliatoio. Per almeno tre quarti d’ora nel pur enorme stanzone che ospita i Lakers è stato difficile anche espandere la cassa toracica per respirare. Oltre un centinaio di persone tra giornalisti del “cartaceo”, delle TV nazionali, delle innumerevoli TV e radio della città losangelina, cineoperatori, fotografi, commentatori “free-lance” e chi più ne ha, più ne metta, hanno letteralmente assediato Shaquille O’Neal, Kobe Bryant, Bryan Shaw e compagnia. Per tutto questo tempo i celebrati e ricchissimi professionisti della pallacanestro statunitense si sono messi a disposizione di questa “massa” urlante, accaldata e freneticamente tesa ad inviare il “pezzo” alle varie redazioni. Per una volta non avendo addosso la cosiddetta “febbre della cronaca” posso permettermi di assistere al gran caos in posizione defilata, da spettatore privilegiato.

Adesso però lo stanzone è quasi vuoto. Un po’ più vicino a me restano, coi volti serenamente disfatti dalla fatica, Ron Harper, letale guardia dei Lakers, con le gambe immerse in un grande catino pieno di ghiaccio – vengono i brividi solo a vederlo -, e lui, il favoloso, immenso Kobe Bryant.

Kobe sta riordinando il suo armadietto e mentre infila un paio di maglie nelle apposite grucce gli dico: “Ciao Kobe, “partitina” un po’ scarsa questa sera, no? Con tutti i chilometri che ho fatto per venire a vederti…”

Kobe si volta di scatto, getta una rapida occhiata al mio “Media-Pass” e mi risponde: “Ciao Massimo, è vero, questa sera ho fatto un po’ schifo (17 punti, 6/16 al tiro, 2 perse, 3 assist ndr) ma proverò a fare meglio nella finalissima. Tu invece che ca…volo fai qui?”

“Come ti ho detto, sono partito da Milano apposta per vedere te e, in verità, mi eri piaciuto di più nelle gare giocate a Phoenix” (25 e 23 punti conditi da “numerilli” cestistici meravigliosi)

Tutto il dialogo, parola per parola, compresa qualcuna, ovviamente irriferibile, si svolge in italiano perchè Kobe, personaggio fantastico, in tempo zero ha “resettato” il suo cervello, inserito la scheda “modalità-Italy” rispondendo praticamente senza inflessioni anglofone e in maniera autoironica alla mia domanda volutamente provocatoria.

Dopo esserci fatti due risate, Kobe intelligente e curioso chiede a me, e al mio amico Charlie Ebene, esperto di basket nonché impareggiabile compagno di viaggio nelle nostre ripetute avventure NBA, cosa si dice in Italia e soprattutto cosa combinano le squadre di Reggio Emilia, Pistoia e Rieti, le città che frequentate da bambino seguendo suo padre, Joe “Jelly Bean” Bryant, talento “assurdo” per il campionato italiano.

In una chiacchierata davvero “easy” Kobe ricorda l’infanzia e l’adolescenza trascorse in Italia snocciolando rapidamente i nomi di almeno una decina di ex-compagni di squadra conosciuti tra Pistoia e Reggio Emilia. Neanche li avesse visti il giorno prima al campetto. Ad ognuno di loro dedica parole affettuose,  ricordando un aneddoto o un particolare. Kobe si mostra esattamente per quello che è, e per come tutti me lo hanno descritto: un giovanotto estremamente alla mano, disponibile, simpatico, sempre col sorriso sulle labbra e con una “solarità caratteriale” che mi piace definire “mediterranea”, così distante dai formalismi americani, notoriamente un po’ più rigidi.

Bryant, nemmeno fossimo amici di vecchia data, chiede ad entrambi se vogliamo andare a mangiare qualcosa insieme a lui e agli altri ragazzi della squadra. L’idea di poter “fare serata” con alcuni giocatori dei “Lakers” è una di quelle cose che potrebbero farci svenire sul posto e che mai penseresti possano capitarti nella vita, ma il “bus” che ci aspetta con direzione aeroporto per il volo di ritorno purtroppo non accetta deroghe. Così, a malincuore e con grande rammarico, ci si deve salutare con un abbraccio classicamente USA-Style e, da parte sua, un abbozzo di invito: “Ciao ragazzi, ci si vede tra qualche mese a Milano??”. 

Quello che, lì per lì, a me e a Charlie era sembrato solo un saluto di circostanza risulta invece essere una promessa formale perché Kobe, impegnato in un “tour” promozionale in Europa organizzato da un suo sponsor, qualche settimana dopo sbarcò effettivamente in Italia, facendo tappa anche a Milano. Ma gli impegni di tutti, soprattutto i suoi, più pressanti e importanti dei nostri, si misero di traverso negandoci il “bis”.

Negandoci il piacere di una cena insieme che stavolta, senza bus in attesa fuori dallo Staples, avremmo consumato davvero.

Negandoci il privilegio di scambiare altre chiacchiere in serenità con quello che, stagione dopo stagione, sarebbe diventato il numero 1 indiscusso della sua epoca e uno dei migliori giocatori di sempre.

Averlo conosciuto in quella forma così umanamente empatica è stato davvero incredibile e in forte contrasto con il Kobe che  avevamo ammirato al mattino, poche ore prima di gara-5, durante l’allenamento di preparazione che resterà uno dei ricordi tecnici più significativi nella mia vita da umilissimo cronista.

La tremenda “ferocia” agonistica che Kobe aveva espresso in allenamento; le esigentissime, terribili, pressanti costanti richieste in termini di impegno, determinazione, concentrazione e l’altissimo, per tanti suoi compagni irraggiungibile livello prestazionale, mi chiarirono una volta per tutte il significato dell’essere professionista al “top assoluto”.

Chiarirono che la sua famosissima “Mamba mentality” era in fondo ‘sta “roba” qua, ovvero la definizione di un uomo capace di essere cordiale, simpatico, addirittura tenero e giovalone lontano dal campo di basket.

Ma velenoso, intensamente velenoso per gli avversari, una volta che scendeva sul parquet e aveva la palla da basket tra le mani.

Questo era il “mio” Kobe, grande impareggiabile amico conosciuto in un dolce, indimenticabile, viaggio USA. Ciao, la terra ti sia lieve e leggera com’eri leggero tu quando volavi verso il canestro.      

Massimo Turconi