Dopo la laurea specialistica in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, nel 2015 Sara Lucchetta decide di sorvolare l’Oceano e accettare le sfide poste da una terra tanto meravigliosa quanto complessa quale l’America Latina. Dopo una prima esperienza in Argentina e un progetto di volontariato in Perù, ora si trova in Bolivia, dove lavora nel settore della cooperazione allo sviluppo. Con tempistiche diverse rispetto all’Europa, il Coronavirus è arrivato anche in questo Paese, in cui la risposta del governo è stata subito molto decisa.

Quando sei arrivata in Bolivia e in cosa consiste precisamente il tuo lavoro?
“Sono qui da luglio 2019 e sto lavorando per una fondazione locale chiamata Fundación Munasim Kullakita, che in spagnolo vuol dire “Quiérete hermanita” (Prenditi cura di te, sorella). Le iniziative riguardano persone in condizioni di alta vulnerabilità, come bambini e adolescenti vittime di traffico di esseri umani e violenza sessuale, senza tetto e migranti venezuelani. Sto coordinando un progetto finanziato da UNICEF che si occupa di diffondere la cultura di pace nelle aree maggiormente colpite dai conflitti dello scorso novembre. In Bolivia, infatti, è in atto una crisi politica molto forte scatenata dalle dimissioni del presidente Evo Morales. Da quel momento il Paese si trova in una fase di transizione: il clima sociale è molto acceso e a maggio dovrebbero essere indette nuove elezioni. Io vivo nella capitale e la fondazione lavora in una città adiacente, El Alto, che ha più di un milione di abitanti e anche un alto tasso di povertà e criminalità. Sono problemi presenti anche a la Paz e in altre zone del Paese, ma il loro punto focale si trova proprio nel luogo in cui ha sede l’associazione”.

Com’è la situazione quanto a contagi da Coronavirus? Come sta reagendo la popolazione?
“Per ora i numeri si aggirano intorno ai 330 contagi confermati. Ma, come in tutti gli altri Paesi, sappiamo che queste statistiche sono solo relative perché per ogni persona contagiata ce ne saranno tante altre asintomatiche o che devono ancora sviluppare la malattia. Riguardo alla popolazione, tendenzialmente nelle zone più benestanti della città la quarantena viene seguita abbastanza. Il problema sono le zone povere, dove la gente fa fatica a rimanere a casa, principalmente per due motivi. Il primo politico: in seguito alla crisi ha preso il potere un governo di destra, che molti non vedono di buon occhio. I sostenitori di Morales, concentrati soprattutto a El Alto, pensano che l’ex presidente sia stato destituito da un colpo di stato e che la quarantena, o in generale la questione del coronavirus, sia una storia amplificata dal nuovo governo per destabilizzare il clima politico e ritardare le elezioni. Il secondo motivo è più pratico: a El Alto e in altre zone rurali del Paese, o anche urbane ma con un alto tasso di povertà, molte persone vivono di commercio informale, ad esempio preparano cibo in casa e lo vendono in strada o hanno negozietti non formalmente riconosciuti dallo Stato. Vivendo alla giornata non riescono a rispettare la quarantena, che toglie loro l’unica fonte di entrate. Quindi per un motivo o per l’altro, la gente non rimane a casa e le possibilità di contagio sono più alte”.

Quali misure sono state adottate dal governo boliviano?
“Dal 22 marzo siamo tutti a casa in quarantena totale. Si può uscire dalle 7 alle 12 e solo un giorno a settimana per fare la spesa, buttare l’immondizia e andare in farmacia. Queste sono le uniche attività consentite: non si può uscire a camminare né andare a casa di altre persone. Sono rimaste aperte solo le aziende di prodotti alimentari, per la salute o di utilità per far fronte alla crisi. Un particolare di questo lockdown è che si esce a seconda del numero con cui finisce la propria carta di identità: 1 e 2 di lunedì, 3 e 4 di martedì e così via, fino ad arrivare a 9 e 0 di venerdì, mentre sabato e domenica è tutto chiuso e non può uscire nessuno. La Bolivia ha adottato subito misure piuttosto drastiche, da un giorno all’altro. In realtà, però, vedendo quello che stava succedendo in Europa e gli annunci di casi positivi da parte di altri Paesi dell’America Latina, ci si aspettava una risposta di questo tipo, e infatti già qualche giorno prima della dichiarazione ufficiale del governo le persone stavano svuotando i supermercati. La quarantena generale è stata indetta fino al 14 di aprile, ma girano già voci che sarà estesa fino a fine mese”.

Anche lo sport è stato fermato all’improvviso? Tu praticavi qualche disciplina?
“Esatto, anche le attività sportive e le competizioni di tutti i livelli sono state sospese senza molte avvertenze. Io seguivo un corso di cerchio aereo e ora che è tutto fermo la mia insegnante e gli istruttori di tutte le palestre stanno dando lezioni virtuali. È una buona soluzione per poterci almeno distrarre in questa situazione”.

Il governo ha preso provvedimenti a favore dei cittadini?
“Sì, ha implementato alcune misure come la concessione di buoni alle famiglie in difficoltà. Ma sono iniziative che possono solo tamponare la situazione. In un paese come la Bolivia in cui le problematiche sociali sono tante, una pandemia come questa rischia di trasformarsi in una bomba atomica, tanto per la salute come per l’economia. Sono tanti i medici secondo cui il Paese non è pronto ad affrontare un’emergenza sanitaria: manca personale medico, competenze, risorse, macchinari, quindi la speranza è che la situazione non arrivi alla stesso livello di gravità dell’Europa, perché quando sorgono problemi di questo tipo, i Paesi più deboli ne escono ancora più devastati. Oltretutto il governo ha adottato anche misure militari, quindi ci sono tanti soldati in strada a cui è concesso l’uso della forza. La mia previsione, purtroppo, è che potrebbe esserci una repressione brutale quando prima o poi le persone, soprattutto a El Alto, usciranno di casa per cercare di guadagnare qualcosa”.

Nella situazione di emergenza scatenata dal Coronavirus, il tuo lavoro diventa ancora più delicato. Come lo stai affrontando? Hai pensato di rientrare in Italia?
“Riesco a coordinare i vari progetti da casa e la mole di lavoro è ulteriormente aumentata perché ci occupiamo di tante iniziative per una fascia della popolazione che ora essendo costretta a stare a casa non sa di che vivere. Per via dell’emergenza i fondi di UNICEF sono stati destinati all’apertura di case di accoglienza per le persone vulnerabili. Grazie all’aiuto dei volontari, le organizzazioni come la mia stanno cercando di supportare tutti quei soggetti a cui nessuno penserebbe in questo momento. Riguardo all’eventualità di rientrare, l’ambasciata italiana in effetti sta cercando di organizzare voli di ritorno per far rimpatriare alcuni connazionali che sono rimasti bloccati in Bolivia e vorrebbero tornare a casa per motivi familiari, lavorativi o personali. Io però, per il tipo di lavoro che faccio, sento che è importante essere presente qui. È vero che trattandosi di un progetto di aiuto umanitario, in una situazione come quella attuale, mi sta risucchiando tantissime energie, ma d’altra parte se fossi in Italia sentirei comunque il dovere o l’impulso di fare qualcosa di più concreto per dare il mio contributo in questo momento di emergenza”.

 Silvia Alabardi