Il presente, si sa, è incerto e la frase più frequente che più si sente sussurrare in questo periodo “bastardo e sospeso” è: “Si naviga a vista”. Del domani, si sa pure questo, “non v’è certezza”. Così, di fatto, se vuoi argomentare di pallacanestro non ti rimane che il passato. Poi, siccome l’invito è “Restate a casa”, non resta altro da fare che provare a mettere un po’ d’ordine in un archivio sempre troppo incasinato. Dai cassetti e dagli scaffali saltano fuori libri, appunti, foto, ritagli di giornale e chi più ne ha, più ne metta.
Foto. Tante. Ognuna delle quali racconta una storia. Cristallizza un momento. Movimenta ricordi. Trascina emozioni. Innesca spunti di riflessione. E tanto, molto d’altro ancora.

Quando questa foto mi è capitata fra le mani, passato il primo momento di evidente stupore (si tratta di un fermo immagine che proprio non ricordavo…), mi sono detto: “Caspita, ma questo è il Pozzecco prima che diventasse il vero Pozzecco. Questo è il Pozzecco che ha preceduto “il Poz”. Questa, parlando di Gianmarco è la storia, con la esse minuscola, prima che si trasformasse in Storia, con la esse maiuscola. E, lo sapete tutti, la differenza è “abbastanza” rilevante”.
In questa foto, se la scannerizzate ben bene con gli occhi,  ci sono già tutti gli elementi del “Pozzecco primordiale”: lo sguardo intenso e agonisticamente feroce; la sensazione di incredibile, infermabile vitalità; l’abbondante fasciatura su fronte e cranio che regala a Gianmarco un qualcosa in bilico tra eroismo e incosciente sprezzo del pericolo. E Pozzecco nel raccontare questa foto parte proprio da lì, da quella fasciatura, figlia di uno dei tanti episodi particolari che nel corso degli anni hanno contribuito ad arricchire l’antologia “pozzecchiana”. “Ca…volo: questa è una foto storica – esordisce con un urlo Gianmarco -. Quanti anni ha? Più di venticinque sicuramente”.

pozzecco 1993Poi Gianmarco fa un rapido calcolo, resetta la memoria sulla situazione e dice: “Certo, è una foto del 1993, io gioco in A1 nella Baker Livorno e questa immagine si riferisce alla seconda giornata di campionato, in trasferta al PalaDozza, contro la Fortitudo Bologna. Sono conciato così, con quel turbante di garza in testa perché nel primo tempo, nel tentativo di recuperare un pallone vagante, mi tuffo sul parquet nemmeno fossi un trapezista. Nel buttarmi sbatto con la fronte sul ginocchio di Dan Gay, pivot di Bologna, ma comunque recupero la palla con un mano e con un movimento tanto assurdo, quando inspiegabile riesco a indirizzarla verso il mio compagno Michael Ray Richardson. Mentre sto esultando come un matto perché ho lanciato il mitico “Sugar” in contropiede, vedo che Michael si ferma di colpo, chiude il palleggio e torna verso di me. Allora gli urlo: “Michael, …zzo fai, sei diventato scemo all’improvviso? Corri, vai a segnare”. Mentre gli arbitri fischiano passi, Sugar mi dice: “Ehi Poz, you crazy? Too much blood! Too much blood! (Poz, sei matto? Troppo sangue in giro! Troppo sangue!) puntando l’indice sulla mia faccia”. In pratica succede che nel tuffo vado a sbattere la fronte sulla ginocchiera di Gay, una “Donjoy” con le viti e i bulloni d’acciaio sporgenti e uno di questi “aggeggi” mi apre la fronte e mezza faccia procurandomi un taglio profondo, ricucito in seguito con una ventina di punti di sutura dal dottor Quadrelli della Fortitudo. Il medico della “Effe” vuole portarmi al Pronto Soccorso per una radiografia al cranio, utile ad escludere altri danni, ma io, urlando come un’aquila gli chiedo: “No, Doc, non se ne parla proprio. Fammi una fasciatura perché io voglio assolutamente tornare in campo a giocare”. Detto, fatto. E così, con un rivolo di sangue che ancora scende dalla fronte, torno sul parquet per finire la partita”.

In quella foto c’è tutto il Pozzecco che avremmo visto gli anni successivi a Varese, o no?
“E’ vero, io sono esattamente quello lì. Quello che pur di giocare a pallacanestro, pur di sfogare la grandissima passione per il gioco, avrebbe affrontato chiunque e qualunque situazione e piuttosto si sarebbe fatto ammazzare. Sono quello che appena sente rimbalzare un pallone da basket entra “in pista” e non capisce più niente. Sono quello che, a Livorno, nonostante due allenamenti al giorno, ogni tanto va a giocare con i ragazzi nel campetto vicino a casa. Correndo il rischio di farmi male, beccare multe salatissime e, nondimeno, mettere in pericolo la carriera. Sono proprio quello lì. Un matto totale e senza confini”.

Quel Pozzecco là pensava di poter diventare un grande, importante, e suo modo inimitabile, protagonista del basket italiano ed europeo?
“Devo essere sincero?”.

Beh, sarebbe meglio…
“Non me ne fregava davvero niente di niente della mia possibile, forse probabile carriera. Non pensavo minimamente al mio futuro, né, tantomeno, programmavo la mia vita in funzione di un traguardo. Ti ripeto: a me interessava solo giocare. Non allenarmi: giocare. O meglio: giocare, giocare e giocare anche in allenamento. Infatti, lo sanno tutti e non l’ho mai nascosto, appena possibile in allenamento tiravo indietro la gamba. Per me la pallacanestro si declinava solo con due parole: gioco e sfida. Quindi, solo e sempre gioco. Dall’uno contro uno al cinque contro cinque; sfide di tiro di tutti i tipi, sfide in palleggio; gare a coppie, terzetti e così via. Insomma, in tutte le situazioni in cui bisognava dimostrare di essere meglio, io ero presente. Con la mia solita “faccia da culo”. Tant’è vero che in allenamento compagni e allenatori un po’ si incazzavano. E giustamente mi rimproveravano: “Ma come, fino ad un minuto fa negli esercizi sembravi morto dal dolore e dalla fatica, e adesso che c’è da giocare non ti prende più nessuno: “Poz”, vai a quel paese… Tutti arrabbiati con me. Del resto, come dargli torto??”.

E adesso che sei coach, e sei passato dall’altra parte del campo, come la vedi ‘sta cosa?
“Prima di tutto diciamo che come allenatore sono certamente maturato e, per quanto sia difficile da credere, sono diventato un po’ più saggio. Poi, detto questo, cerco di essere sempre in equilibrio tra l’importanza del lavoro in palestra e l’indulgenza, avendo sempre in mente che la pallacanestro è soprattutto di chi la gioca. Non di chi la allena, o la dirige.  Solo che, ed è un vero peccato, mi sembra che i giocatori di oggi si divertano un po’ meno. Giochino di meno. Mi sembra che tutti siano più preoccupati a programmare il loro domani, così il divertimento, la passione e l’amore per il gioco sono passati in secondo piano. E, mi dispiace, perché senza quella “benzine” lì, non si va da nessuna parte”.

Oggi sei allenatore di successo: hai un desiderio?
“Darei un braccio per poter tornare una sola settimana a 25 o giù di lì anni e giocare con tutta la forza, l’eleganza, l’estro, la pazzia di allora. Mamma mia, quanto mi sono divertito. Come il titolo di un famoso film con Jim Carrey sarebbe proprio “Una settimana da Dio””. 

25 anni, significa 1997-’98-’99, gli anni dei Roosters, o no?
“Esatto: proprio quelli. Quelli delle mie stagioni più belle ed emozionanti. Quelli in cui mi svegliavo con un sorriso e andavo a dormire con le labbra doloranti per le risate. Anni pazzeschi, con giorni di infinita allegria ma, se vuoi, ne riparleremo in un’altra occasione”.

Intanto, quattro conti alla mano, nell’Italia che ama il basket, mi accorgo che c’è già un’intera generazione che non ha mai visto giocare Pozzecco. E per tutti questi ragazze e ragazzi non puoi che provare dispiacere e tanta, tanta comprensione perché, davvero, non sanno cosa si sono persi.

 Massimo Turconi