Il presente, si sa, è incerto e la frase più frequente che più si sente sussurrare in questo periodo “bastardo e sospeso” è: “Si naviga a vista”. Del domani, si sa pure questo, “non v’è certezza”. Così, di fatto, se vuoi argomentare di pallacanestro non ti rimane che il passato. Poi, siccome l’invito è “Restate a casa”, non resta altro da fare che provare a mettere un po’ d’ordine in un archivio sempre troppo incasinato. Dai cassetti e dagli scaffali saltano fuori libri, appunti, foto, ritagli di giornale e chi più ne ha, più ne metta.
Foto. Tante. Ognuna delle quali racconta una storia. Cristallizza un momento. Movimenta ricordi. Trascina emozioni. Innesca spunti di riflessione. E tanto, molto d’altro ancora.

La foto di oggi ha un titolo ben definito suggerito dallo stesso protagonista: “Il massimo della vita. In un solo click”. Firmato: Andreas Brignoli.

Andreas, classe 1968, guardia-ala piccola dotata di fisico possente, atletismo debordante e talento più che buono è uno dei più importanti rappresentanti di un gruppo giovanile che ha sfornato parecchi giocatori poi approdati tra serie A1, A2, B1 e serie minori.
“In questa foto – racconta Brignoli -, sto marcando nientemeno che Darwin Cook, uno dei migliori playmaker USA mai arrivati in Italia, nonché giocatore simbolo di quella Scavolini Pesaro che nel giro di 2 anni per meriti suoi e grazie a qualche “aiutino” privò Varese di due potenziali scudetti. In questa foto, però, che si riferisce nientemeno alla finalissima scudetto 1990 è anche raffigurato il momento più alto della mia carriera da giocatore. E, cari miei, giocare un playoff scudetto è una cosa che non tutti hanno la fortuna di poter raccontare”.

Racconta, allora…
“La mia narrazione inizia un anno prima di quella finale scudetto e racconta di dodici mesi straordinari, vissuti in maniera frenetica. Nel giugno 1989 sono infatti reduce da un’altra finalissima playoff: quella persa dalla Robur Varese contro la Stefanel Trieste che assegna la promozione in A2 alla squadra friulana e già in quell’occasione mi sembra di toccare il cielo con un dito. Tuttavia, qualche settimana dopo, le mie mani prendono il cielo e lo tirano giù con forza perché Giancarlo Sacco, appena nominato nuovo coach della Pallacanestro Varese, al termine di un “collegiale” stile “roulette russa”, mi comunica di avermi scelto come decimo giocatore per la Ranger Varese in serie A1. Così, nel giro di un anno mi ritrovo sorpreso protagonista di un salto triplo da record mondiale dalla B1 alle soglie dello “scudo”. Se questo non è un miracolo, dimmelo tu cos’è”.

Andreas Brignoli 2A parte la citazione “vendittiana”, quali sono i ricordi più nitidi che ti sono rimasti in testa di quel campionato 1989-1990?
“Questa stagione, poche storie, vive e per certi versi muore intorno ad uno dei personaggi più controversi che siano mai atterrati a Varese: Wes Matthews. Wes era un giocatore con incredibile e pazzesco talento, pari solo alla sua ingestibilità. Sono d’accordo con tutti quelli che a distanza di tanti anni sostengono che con Matthews avremmo probabilmente vinto il campionato in carrozza. Ed il perché è semplice: con lui al volante quella Ranger viaggiava a velocità tripla rispetto a tutte le avversarie. Inoltre, nei rari momenti di difficoltà, quando avevamo bisogno di un canestro quell’uomo era in grado di inventare sempre qualcosa di buono. A questo proposito ricordo la faccia stranita di Mike D’Antoni – oh sto parlando del grande Mike -, quando Wes gli segnò in faccia 45 punti portandolo a spasso come un bambino dell’asilo. Adesso, col senno di poi, avendo alle spalle il senso della storia tecnica di quel campionato, possiamo tranquillamente affermare che con Matthews quella Varese era semplicemente imbattibile. Però, come noto, la storia non si scrive con i “se” e con i “ma”. La storia, anche quella del basket, si sviluppa sulla concretezza dei fatti e l’unica cosa certa è che Wes, già nel mese di dicembre, ci aveva “tirati tutti scemi”. Zero voglia di allenarsi, comportamenti “folkoristici” in campo e fuori, difficoltà continue nella gestione quotidiana e via di questo passo. La realtà è che arrivare al mese di maggio avendo Matthews in squadra sarebbe stato difficile, forse impossibile. Però, ribadisco, quando si trattava di giocare e soprattutto di giocare per vincere, quell’uomo non solo sapeva trasformarsi in una sorta di “Robocop” difficile da fermare, ma rappresentava il perfetto anello di congiunzione per una catena formata da “bravi ragazzi””.

Cosa intendi dire?
“Intendo dire che quella Varese era una squadra di ottimi giocatori nonché bravissime persone dotate di grandissima professionalità e favolosa dedizione al lavoro in palestra, ma per vincere serviva anche quella manciata di cattiveria, quel carattere “un po’ sporco” che nessuno di noi, per indole e DNA, possedeva. Il mio credo sia un pensiero incontrovertibile, confermato da fatti e risultati”.

E anche con l’arrivo di Frank “La Rana” Johnson le cose non sono cambiate?
“No, nessun cambiamento perché anche Johnson era un eccellente giocatore, grande professionista e buonissimo “ragioniere del parquet, ma per arrivare al triangolino tricolore serviva un classico figlio di “buona donna”. Quindi, appunto, uno come Wes”.

Totale generale…?
“Mettiamola così: Wes è arrivato nel posto giusto, nella squadra giusta, ma nel momento sbagliato. Potendo tirare indietro le lancette della storia sarei partito con Frankie, ma  negli ultimi due-tre mesi di campionato l’avrei cambiato con Matthews. E, oggi, Varese avrebbe sicuramente uno scudetto in più”.

La pensi così anche mettendo sul piatto della bilancia il gravissimo infortunio capitato a Meo Sacchetti in gara-2?
“Meo, insieme a Corny Thompson, era il leader di quella squadra e la sua defezione aveva certamente indebolito, e non poco, il nostro gruppo. Però – conclude in tono sereno Andreas -, ho l’impressione che per battere quella Scavolini, che oltre a Cook e Daye aveva messo in vetrina un Gracis strepitoso e tanta sostanza con Magnifico, Zampolini e compagnia, avremmo avuto bisogno di qualcosa di più”.

    Massimo Turconi