Il presente, si sa, è incerto e la frase più frequente che più si sente sussurrare in questo periodo “bastardo e sospeso” è: “Si naviga a vista”. Del domani, si sa pure questo, “non v’è certezza”. Così, di fatto, se vuoi argomentare di pallacanestro non ti rimane che il passato. Poi, siccome l’invito è “Restate a casa”, non resta altro da fare che provare a mettere un po’ d’ordine in un archivio sempre troppo incasinato. Dai cassetti e dagli scaffali saltano fuori libri, appunti, foto, ritagli di giornale e chi più ne ha, più ne metta.
Foto. Tante. Ognuna delle quali racconta una storia. Cristallizza un momento. Movimenta ricordi. Trascina emozioni. Innesca spunti di riflessione. E tanto, molto d’altro ancora.

La foto “base” di oggi, di qualità non eccelsa e “antica” il giusto (è del 1977, ha “solo” 43 anni…), è davvero significativa. E la ragione è presto spiegata. Sono nel mondo basket da qualche “giorno” e ho memoria di tante, innumerevoli feste-scudetto. Però, una cosa del genere, sui campi di pallacanestro non l’ho più rivista. Non mi è più capitato di vedere una squadra, nel nostro caso la MobilGirgi Varese, festeggiare in trasferta, nel nostro caso al PalaDozza di Bologna (allora lo chiamavano PalaAzzarita), facendo diversi giri di campo portando in trionfo l’allenatore e, questo è il bello, raccogliendo applausi a scena aperta dal pubblico bolognese. La foto blocca l’attimo in cui, appena finita gara-2 di playoff contro la Virtus Sinudyne Bologna (vittoria per 91-79, serie chiusa sul 2-0, ottavo scudetto in tasca) coach Gamba, felice e vincente, è sorretto per le gambe da Sergione Rizzi e Sandro Galleani. Appena dietro si scorgono Alberto Mottini e la sagoma di Dino Meneghin. Dietro ancora si riconoscono l’inconfondibile Marino Cappellini e Giulio Jellini. Poi, come dicevo, se sgranate bene gli occhi potete vedere diversi tifosi delle “V nere” che sportivamente applaudono e in piedi rendono merito ai grandi campioni varesini autori di una vittoria tanto meritata, quanto limpidissima. Tra i protagonisti “nascosti” di quella stagione e anche di quella successiva c’è Stefano Bechini, classe 1959, allora un ragazzo di belle speranze che, in qualità di “allievo” cresciuto alla scuola, tecnica e di vita, di così tanti celebrati maestri.

Questa è la storia di quella foto, della conquista di quello scudetto e di quegli anni magici e meravigliosi, raccontata da chi era appena un passo dietro al solito “mantra” Ossola-Rusconi-Yelverton-Zanatta-Bisson-Meneghin-Morse-Jellini che, lo sappiamo tutti, sono stati i grandi e indiscussi protagonisti di quei trionfi. Vuol essere la storia raccontata di chi aspettava dietro le quinte e ogni tanto veniva buttato in scena, voglioso e desideroso di recitare bene la sua parte.
E’, appunto, la storia di Stefano, che per sua stessa ammissione alla Pallacanestro Varese ha imparato benissimo il copione e lontano da Masnago ha “tenuto il palco” da buonissimo giocatore professionista per 15 anni filati.
“Ho solo bellissimi ricordi di quei fantastici momenti e non potrebbe essere diverso. Del resto – dice con voce emozionata Bechini -, mi considero privilegiato e fortunato per esser stato parte di un fantastico gruppo di uomini e campioni e di una squadra incredibile che ancora adesso è giustamente celebrata come la migliore d’Europa e tra le più importanti al mondo. Girare in tutte le nazioni europee avendo addosso il marchio Pallacanestro Varese da un lato mi faceva sentire orgoglioso, dall’altra mi regalava una sensazione di rispetto davvero gratificante. Insomma: aver indossato per diversi anni le maglie di Ignis e MobilGirgi mi ha regalato sensazioni difficili da rendere a parole e, sarà banale dirlo, ma certe situazioni le capisce solo se hai la fortuna di poterle vivere”. 

bob morse pallacanestro varese 1977Racconta, allora, le sensazioni di quel “magico” 25 aprile 1977 e dell’ottavo scudetto di Varese vinto a Bologna.
“Quella è la stagione in cui per la prima volta in Italia si introduce la novità dei playoff e – ricorda Bechini -, fin dall’inizio tutti quanti cerchiamo di capire cosa rappresenta un evento del genere e come ci si dovrà preparare per disputare le partite dentro o fuori. In realtà, i miei compagni di Varese non hanno certo bisogno di grandi spiegazioni perché avendo giocato numerosi spareggi scudetto e una sfilza di gara decisive in Coppa Campioni sono ovviamente considerati “professori dei playoff”. Tuttavia, seppur al netto di una lunga esperienza delle gare “senza domani”, ricordo un pizzico di apprensione nell’approccio alla post-season, vuoi perché la Virtus Bologna sventola il netto dominio in stagione regolare – loro primi con 38 punti, nei secondi con 30 -, vuoi perché noi siamo reduci dalla bruttissima serata di Belgrado durante la quale il Maccabi Tel Aviv ci soffia la Coppa dei Campioni. Invece, la forza della Girgi è proprio quella di saper cancellare in fretta i grandi successi come le batoste più pesanti. Così ci presentiamo nella seconda fase più energici che mai e nei playoff, caricati a molla dalla voglia di rivincita e dal desiderio di dimostrare di essere sempre i numeri 1 in Italia, spazziamo via facilmente le due bolognesi: 2-0 alla Fortitudo e 2-0 anche alla Virtus che vede andare in fumo il sogno di fare “bis” e deve scucirsi lo scudetto conquistato con uno “scippo” ai nostri danni l’anno precedente. Il tricolore torna quindi sulle nostre maglie e, davvero, possiamo fare il giro trionfale del PalaDozza, alzando gli indici al cielo”.

Di quella gara-2 al PalaDozza cosa ricordi?
“La partita nel primo tempo sembra essere in controllo dei bolognesi che trascinati da un grande Bertolotti accumulano qualche punto di vantaggio. Ma nella ripresa coach Gamba alterna le difese e noi con il dinamismo di Ossola, Jellini e Zanatta davanti alla zona, e il “muro” di Menego, Morse e Bisson, dietro spezziamo il ritmo delle “V nere”. Poi, nel momento cruciale allunghiamo con una serie di contropiedi, canestri in transizione e delle giocate offensive importanti della coppia Bison-Morse”. 

E di quella festosa corsa sul parquet felsineo…
“La festa invece, assolutamente non programmata, nasce per caso perché subito dopo il termine della partita vicini alla panchina solleviamo coach Gamba, poi con l’allenatore sulle spalle corriamo sotto la curva dove stanno i nostri tifosi che cantano e urlano di gioia. A quel punto facciamo anche un paio di giri completi del campo durante i quali, un po’ a sorpresa, ci rendiamo conto che gran parte del pubblico di Bologna è addirittura in piedi e ci applaude. Una bella sensazione e, soprattutto, un bel modo di chiudere una stagione rendendo merito ai vinti e anche ai vincitori, comportamento non esattamente frequente quando giochi fuori casa”.

pallacanestro varese 1977E tu, in quella stagione, che ruolo giochi?
“Nell’estate del ’76 la società spedisce il terzetto formato da Carraria-Gualco-Salvaneschi in direzione Genova per farsi le ossa. Per effetto di questa decisione il signor Giancarlo Gualco, general manager della Pallacanestro Varese, mi comunica il mio ingresso ufficiale nelle rosa della prima squadra. Per me si tratta di un sogno che si concretizza. Il sogno di un ragazzo che, partito dal piccolo Oratorio del quartiere Crocetta di Torino, arriva in serie A. Nella prima parte della stagione faccio prevalentemente lo “sparring-partner” in allenamento. Quindi tanto sudore, impegno, sacrifici e pochissimi minuti di gioco. Però, con tanta umiltà, sfrutto l’occasione e quei grandi giocatori che mi stanno intorno cerco di imparare il più possibile: come si sta in palestra, come ci si allena, come ci si comporta in gruppo e quali sono i “pensieri” che definiscono al meglio un giocatore professionista.
Messe via queste lezioni, nella seconda parte della stagione coach Gamba vede il mio impegno, apprezza i miei miglioramenti  e inizia a darmi più minuti e quegli spazi di gioco che l’anno successivo, 1977-1978, saranno davvero consistenti e mi permetteranno, per così dire, di essere il primo giocatore “normale” dietro ai “Magnifici Sette”. A margine devo dire che la vita da “normale” dietro ai fenomeni non è stata poi così male. Gli allenatori a cavallo dei due tempi trovano sempre il modo per mandarmi in campo facendo così respirare Morse, Zanatta o Bisson, i giocatori per cui cambio più spesso. Senza saperlo mi ritaglio un ruolo da specialista “ante literam” perché i miei compiti sono soprattutto di carattere difensivo. Infatti, essendo dotato dal punto di vista fisico e avendo velocità di piedi e atletismo da vendere posso marcare indifferentemente ali piccole e ali pivot. Quindi, prima coach Gamba e in seguito coach Messina mi affidano spesso e volentieri i giocatori americani o gli italiani più pericolosi in quei ruoli. Ricordo che in una gara contro la Xerox Milano stoppo il grandissimo Jura, che probabilmente non mi aveva mai sentito nominare, per due azioni consecutive e Chuck guardandomi con aria sorpresa mi dice: “Ma chi …azz sei? Ma soprattutto, quanto… azz salti?”.

Fine 1° puntata – to be continued…

Massimo Turconi