Celo, celo, manca. Era la filastrocca che ripetevano i nostri padri nel solenne atto dello scambio delle figurine. Non si usa più, forse è vero. Eppure qualcosa di tanto grave resiste anche distanza di anni, cavalcando un’antica nostalgia che a ben vedere si cela allo stesso modo in un album fotografico, conservato nel rullino di uno smartphone. 

Sfogliando il proprio, Edoardo, 21 anni di Lomazzo e juventino da sempre, ripassa le emozioni in bianco e nero. Alla finale di Champions di Cardiff 2017 lui c’era, ad Old Trafford nel 2018 lui c’era. C’era anche al freddo di Mosca nel 2019, sotto il sole torrido del Via del Mare di Lecce. E c’era anche a Riyadh. Ha girato mezza Europa al seguito della propria squadra del cuore e per ognuna delle sue avventure, geloso, custodisce almeno uno scatto, spalle al campo e in mano il solito striscione ‘una vita dietro la porta’. “Ma lo stadio più emozionante in cui sono stato è di certo Wembley”, spiega Edoardo.

È la sera del 7 marzo 2018 e la Juventus ha un compito preciso: fare un gol e portare a casa la qualificazione ai quarti di finale di Champions League a dispetto del Tottenham, che quell’anno aveva l’onore e l’onere di chiamare “casa propria” quella che per ogni inglese è la “casa del football”, il fu Empire Stadium. Per la verità, due settimane prima non era andata così bene: il doppio blitz di Higuaìn – che ha stampato il colpo del ko direttamente sulla traversa – nei primi dieci minuti è stato azzerato dall’agonismo dei londinesi. A loro il 2-2 potrebbe perfino bastare, la Vecchia Signora, invece, per evitare un dopo-partita ricco di rammarichi, deve insaccare almeno una volta.

Al 39’ è già 1-0 per il Tottenham. Alla Juve di gol adesso ne servono, non più uno, ma due. “Ci sentivamo persi”, confessa Edoardo che dallo spicchio riservato agli ospiti – primo anello esattamente dietro la porta dove attaccheranno nel secondo tempo i bianconeri – si sente come inghiottito da quella bolgia stracolma di tifosi pronti a festeggiare. “Lo stadio era caldissimo, non avevo mai visto qualcosa del genere. Guardavo la curva, un muro infinito di persone che sembrava alzarsi dal primo al terzo anello talmente era imponente”. Deve essere stato proprio quel momento smarrimento a riportare alla sua mente la scritta “to dare is to do”, letteralmente “osare è fare”. Gli rimbalzava nella testa da quando, sceso dalla tube, si era di nuovo immerso nel traffico umano che conduceva all’ingresso, tra bandiere coi galletti, simbolo degli Spurs, e quello slogan appunto che gli diede conferma di quanto tempo ancora ci fosse per raddrizzarla. 

“Poi ha pareggiato Higuaìn” con una zampata sotto misura che riporta ossigeno tra i bianconeri. “Poi il vantaggio di Dybala”, innescato dallo stesso compagno argentino, croce e delizia di quel doppio confronto. E nel preciso istante in cui scatta la corsa della Joya, con lui si alza anche il settore ospiti. Sono secondi sospesi d’ansia, prima che il pallone accarezzi la rete e impazzisca la torcida juventina. “Dopo quel gol penso di aver visto volare di tutto, bandiere, sciarpe, talmente era tanta l’eccitazione del momento”, confessa Edoardo che ogni volta, riguardando quello scatto a Wembley, scopre di sapersi ancora emozionare.

Alessio Colombo

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