Il presente, si sa, è incerto e la frase più frequente che più si sente sussurrare in questo periodo “bastardo e sospeso” è: “Si naviga a vista”. Del domani, si sa pure questo, “non v’è certezza”. Così, di fatto, se vuoi argomentare di pallacanestro non ti rimane che il passato.
Poi, siccome l’invito è “Restate a casa”, non resta altro da fare che provare a mettere un po’ d’ordine in un archivio sempre troppo incasinato. Dai cassetti e dagli scaffali saltano fuori libri, appunti, foto, ritagli di giornale e chi più ne ha, più ne metta.
Foto. Tante. Ognuna delle quali racconta una storia. Cristallizza un momento. Trascina emozioni. Innesca spunti di riflessione. Ma soprattutto movimenta ricordi. E tanto, molto d’altro ancora.

PROLOGO
“Ma lo stesso io dico, dov’è che si cambia sparandosi un colpo, qui, in testa? Lascia fare alla vita questa vecchia fatica, siamo feriti quanto basta” (“Mario”, canzone di Enzo Jannacci)

Questa volta – una foto, una storia – parte dalla fine.
Dalle strofe di una delle più belle, delicate e struggenti canzoni mai scritte, da una data, 01 maggio 2001, e soprattutto da un episodio tragico: il suicidio di Enrico Bovone, un grande campione della nostra pallacanestro che, a soli 46 anni, disintegrato da chissà quali pensieri, sgretolato da chissà quale angoscia si sparò un colpo in testa. 
Queste sono le sue immagini. Questa è la sua storia. Quella di un uomo enigmatico che, andandosene in quel modo, ha lasciato dubbi, rimpianti e acuti sensi di colpa.

Inizi anni ’70. Un gruppo di ragazzini giocano a pallacanestro sul rovente asfalto del campetto oratoriano. Ognuno, tra tiri improbabili e acrobazie persino difficili da commentare si immedesima nei campioni dei quali ha letto, sentito parlare oppure visto giocare dal vivo.
E nel gioco, fondamentale, dell’imitazione è tutto un fiorire di “Io faccio Manuel Raga!” “Io faccio Pino Brumatti!” “Io sono Chuck Jura!”. Poi, se ne esce Giorgio, secco come un chiodo, allampanato e l’unico a sfiorare l’irraggiungibile quota 190 cm che fa: “Io faccio Enrico Bovone!”. 
“Chiiiii?”
“Bovone, risponde Giorgio con un tocco di evidente superiorità e prontamente aggiunge: l’unico giocatore italiano alto 2 metriediecicentrimetri (tutto attaccato, per dare più enfasi al concetto). Faccio Bovone. Enrico Bovone”.
Da quel giorno Giorgio, al campetto, per tutti diventò Bovone e noi tenemmo a mente, per sempre, quel cognome e quella fantastica particolarità: essere l’unico 2metriedieci verdebiancorosso. Impressionavano, allora, i 210 centimetri e Bovone, raffigurato in numerose immagini della nostra “gallery”.

La prima di queste lo ritrae in maglia Ignis perchè Bovone, per chi non lo sapesse è passato anche da Varese. Anzi, proprio a Varese, vestendo la maglia Ignis, portato in città dal professor Nico Messina, magnifico e prolifico scopritore di talenti, muove i primi passi importanti nella pallacanestro.
“Nella foto è rappresentata la squadra della stagione 1966-1967 – dice Paolo Vittori, elemento più carismatico di quel gruppo -, quella in cui Enrico Bovone comincia ad assaggiare il campo con un certa frequenza. Ragazzo strano Enrico, introverso, sempre chiuso in se stesso, di pochissime parole e quasi sempre di circostanza, poco incline agli scherzi e alla vita di spogliatoio. Ho il ricordo educatissimo, timido, forse  addirittura impaurito dalla sua altezza che, allora, parliamo dei primi anni ’60 rappresentava qualcosa di incredibile, una cosa vista assai di rado. Bovone mi sembrava schiacciato dai suoi 210 centimetri, quasi fossero 210 chili, un fardello che pesava sul suo volto costantemente incassato fra le spalle. Uno “zaino” che Enrico, suo malgrado e con evidente disagio, era costretto a portarsi in giro subendo la curiosità ma, spesso, purtroppo, anche la cattiveria e le stupidaggini della gente. Enrico certamente soffriva, e per anni ha sofferto questa situazione di “diversità fisica”, di gigantismo che, allora, stiamo comunque parlando di oltre 50 anni fa, lo rendeva un fenomeno da baraccone. E, ricordo anche questo, certe pose fotografiche che accentuavano la sua dimensione fisica non gli erano di grande aiuto”.

E come giocatore, cosa ricordi?
“Tutti i lunghi, si sa, hanno tempi di maturazione fisica, atletica e tecnica, dilatati rispetto ai cosiddetti normodotati e Bovone, che era addirittura un superlungo, non poteva sfuggire a questa regola. Nella sua permanenza varesina Enrico aveva lavorato molto e con grandissimo impegno per costruirsi un solida base fisica e tecnica, ma è chiaro che, essendo ancora piuttosto acerbo, in quella Ignis piena zeppa di campioni non poteva trovare grande spazio. Poi, al di là di una consapevolezza ancora tutta da costruire, avevo la netta sensazione che a Bovone giocare a pallacanestro non piacesse poi più di tanto. Gli vedevo dentro poca passione e ho, o per meglio dire avevo la sensazione che fosse arrivato alla pallacanestro solo perché tanto, tanto alto”.

Marino Zanatta, anch’egli ex-grande campione varesino, che ha diviso un paio di stagioni da compagno di squadra di Bovone all’All’Onestà Milano condivide in parte il pensiero di Vittori: “Nei primi periodi trascorsi insieme a Milano– ricorda Zanatta -, ho conosciuto in Bovone un ragazzo dotato di grande intelligenza e sensibilità, ma spesso chiuso nel suo mondo al punto da sembrare proiettato in un’altra dimensione, quasi assente. Detto questo sono d’accordo con Paolo specialmente per la parte che attiene alla consapevolezza del suo ruolo da giocatore. Un aspetto che a Milano, avendo sulle sue spalle maggiori responsabilità e in una situazione diversa da Varese, è stato determinante per far crescere in Enrico passione, voglia, motivazioni. Un ragazzo che, anche sotto il profilo fisico, giorno dopo giorno sembrava accusare un po’ meno il “colpo” e il peso dei suoi 210 centimetri, gli sguardi stupiti e le sciocche battute della gente. Quindi, se circoscrivo il discorso esclusivamente alla sua vita da giocatore, posso dire che a Milano, Enrico ha per così superato l’esame di maturità necessario per diventare in seguito, a Udine e a Siena, un buonissimo giocatore, ma ancora di più e ancora più importante, un uomo certamente più sereno, determinato e convinto. Ricordo con grandissimo piacere più umano che tecnico la sua esperienza con la maglia della Snaidero Udine.

In Friuli, proseguendo nel suo percorso a tappe di crescita tecnica e mentale, aveva raggiunto le vette del basket italiano conquistando il titolo di Mister Basket riservato, allora, al miglior giocatore del campionato. Ed io ero davvero contento per lui perché in All’Onestà con Enrico eravamo diventati buoni amici, di quelli che si frequentano anche fuori dal campo, con le rispettive famiglie e in situazioni non consuete. Non a caso ero stato a casa sua a Siena e giocando di nuovo insieme a pallacanestro nel Palio delle Contrade avevo ritrovato un ragazzo ovviamente più maturo, tranquillo, sicuro di sé, dei propri mezzi, del suo status. Insomma: mi era parso che con gli anni, l’esperienza, il successo e la notorietà ottenuti come giocatore, “Bovo” si fosse messo alle spalle le inquietudini che avevano tormentato il suo passato. Evidentemente io, come altri, ci siamo sbagliati e la sua fine, con quel suicidio così improvviso, resterà come qualcosa di sospeso e irrisolto nelle nostre vite”.    

L’ultima parola su Bovone spetta ad Alfredo Barlucchi, altro grande ex del basket tricolore nonché pluri-compagno di squadra di Enrico a Milano, Udine, Siena e in Nazionale. “Non me la spiegherò mai la morte di Enrico e – dice con voce ancora emozionata Alfredo, che nelle campagne senesi ha un podere non lontano dal punto in cui Bovone decise di chiudere i suoi conti con la vita -, mai riuscirò ad accettare l’idea del suo suicidio. Una parola “fine” che mai mi sarei aspettato e, soprattutto, mai in quel modo. Specialmente per me che avevo conosciuto Enrico in numerose e diverse fasi della sua vita. A Milano l’avevo visto crescere, irrobustirsi e uscire dal guscio come uomo e come giocatore. A Udine l’avevo visto affermarsi e conquistare, meritatamente, un posto tra i grandi protagonisti del campionato. In maglia Snaidero, con Massimo Cosmelli, anzi, dovrei dire “suo fratello” Massimo Cosmelli, avevano dato vita ad una più belle ed efficaci coppie del basket italiano. Enrico e Massimo si intendevano ad occhi chiusi perché Cosmelli, playmaker, era la “mente” capace di attivare il “braccio” Bovone. Se non ricordo male era stato addirittura Cosmelli, in uscita da Milano, a proporre il nome di Bovone al cavalier Rino Snaidero ponendo come condizione per il suo trasferimento in Friuli anche la presenza del suo grande amico Enrico. Infine a Siena l’avevo visto mettere le classiche ciliegine, ovvero vivere una seconda giovinezza come giocatore-leader di una squadra davvero amata e realizzarsi e giungere a maturazione come persona: vedi il matrimonio, la soddisfazione della paternità con una figlia bellissima e molto somigliante a lui. 

Certo sapevo, come tutti, che dopo la separazione dalla moglie e qualche disavventura lavorativo-finanziaria, era ripiombato nella cupezza che gli avevo visto tanti anni prima , proprio nei primissimi tempi della nostra comune frequentazione milanese.   

Tuttavia, mai avrei potuto immaginare che potesse togliersi la vita proprio perché, rispetto al periodo meneghino, i rapporti e l’atmosfera che circondavano Bovone erano completamente diversi. Cambiati, in meglio. Enrico a Siena era qualcosa più di un personaggio. Era un idolo per tutti i senesi. Era enormemente considerato e apprezzato anche tra quelli che non lo avevano mai visto giocare e pure tra i giovani che, certamente innamorati di Stonerook, Kaukenas, Mc Intyre, avevano comunque idea di chi fosse “Bovo”. 

Le sue gesta e le sue prestazioni facevano parte della cultura, non solo sportiva, della città. E, per dire, quando passeggiava per Piazza del Campo, o per le strade delle varie contrade, così riconoscibile per la sua altezza che, finalmente, si era connotata di positività, era tutto un fiorire di: “Ciao Enrico, come stai? Bevi un caffè? Ti offro un bicchiere di quello buono? Gradisci qualcosa da mangiare? Ti ricordi quella partita?”. Insomma, una “cascata” di sorrisi e di attenzioni. Solo tanta, coinvolgente, affettuosa amicizia. La mia impressione è che Bovone non fosse solo. Forse solitario, nel modo di vivere. Ma non solo. Per queste ragioni tutta la città, e noi del basket in particolare, abbiamo vissuto male la sua scomparsa. Ci siamo chiesti, me lo chiedo tuttora, ma perché diavolo non me ne hai mai parlato, del tuo malessere? Ma perché non hai chiesto aiuto? Perché??“.

Massimo Turconi

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