Ex calciatore, istruttore, docente di educazione fisica e altro ancora. La vita di Alessandro Magnoni è sempre stata all’insegna dello sport. Una passione che cresce fin dalla giovanissima età e diventa un vero e proprio lavoro a soli 21 anni, quando un brutto infortunio lo costringe a interrompere il suo percorso nel calcio giocato. Le sue esperienze lo portano ad acquisire una profonda conoscenza del tessuto sportivo, diventando una figura di riferimento in Valceresio e nella provincia di Varese. Tra lezioni scolastiche, corsi di nuoto e allenamenti in campo, la sua agenda è fitta di impegni, ma lo spirito è rimasto quello di sempre: “Ho avuto la fortuna di fare il lavoro che sognavo. Quando iniziai, i rimborsi spese erano minimi, ma avevo tanta voglia di fare la gavetta, arrivando a ricoprire anche quattro mansioni contemporaneamente. Col tempo ho dovuto abbassare i ritmi, ma la passione non è mai venuta meno. La dedizione ripaga sempre”.

Partiamo dal principio: il calcio rappresenta il tuo primo colpo di fulmine.
“Esattamente, avevo sette anni. Essendo di Saltrio, l’intenzione era quella di giocare a Viggiù, ma non c’erano mai abbastanza bambini per riuscire a formare una squadra. Così iniziai nel mio comune ma con il CSI. Vedendo in me delle qualità, mio padre decise di propormi a società come Bosto, Azzate e Cantello. Ovviamente i miei genitori scelsero quest’ultima destinazione, poiché era la più vicina a casa. Rimasi lì fino ai 15 anni di età, riuscendo anche a entrare nella selezione rappresentativa della provincia. Fu un trampolino per passare al Varese, ma si trattava di un impegno troppo grande e dopo sei mesi mi svincolai. Una volta libero, finalmente ebbi la possibilità di giocare a Viggiù per tre anni”. 

Una volta lì, però, iniziarono anche i primi problemi fisici.
“Purtroppo sì. Mi infortunavo spesso e non riuscivo ad essere sempre al 100%. Durante la terza stagione ebbi un problema ai piedi e mi sentii abbandonato a me stesso. A quel punto decisi di provare a fare un’esperienza in Ticino, passando allo Stabio e rimanendoci per due anni, prima di partire per la leva militare. Quando tornai mi accasai al Ligornetto, ma il legame durò poco. Nell’estate del 2001, all’inizio del mio secondo anno, mi ruppi il legamento crociato e dovetti ritirarmi. Avevo 21 anni”.

Una grossa delusione per te, come reagisti?
“Fu un brutto colpo. Col tempo ho dovuto dire addio persino al calcetto con gli amici per non rischiare di peggiorare la situazione. Non volevo uscire da quel mondo, perciò mi iscrissi subito all’università, scegliendo il corso di Scienze Motorie”.

E da quel momento, iniziò il secondo capitolo della tua carriera sportiva.
“Sì, e partì subito in quarta. Un ragazzo che frequentava il mio corso di laurea allenava alla Virtus Bisuschio e mi propose di seguirlo. Accettai e mi ritrovai ad allenare gli Esordienti. Ero praticamente allo sbaraglio, ma mi piaceva l’idea di farmi le ossa attraverso sfide importanti. Nel frattempo trovai lavoro come istruttore di nuoto presso la piscina dell’ex Sporting Club Varese Più, a Induno Olona. L’avventura durò cinque anni, prima di passare alla piscina di Saltrio, dove tuttora insegno rieducazione funzionale”.

La parentesi a Bisuschio però dura appena una stagione, come mai?
“Nell’estate 2002 avvenne la fusione tra la Virtus e la Polisportiva Ceresium, da cui nacque l’attuale Ceresium Bisustum. Allenai i più giovani fino al 2010, anno in cui ci fu un grosso scossone societario. A seguito di una collaborazione con l’Arcisatese, infatti, una parte dei nostri dirigenti decise di scindersi per fondare l’attuale Valceresio, portando con sé numerosi ragazzi e bambini. Io volli rimanere, ponendomi come obiettivo quello di ricostruire il settore giovanile della Cerbis. Le premesse non furono particolarmente positive: solo 17 ragazzi non si mossero da Porto Ceresio, perciò giravano voci di fallimento e chiusura dei battenti. Pian piano, anche grazie ad alcune mie conoscenze, arrivarono nuovi allenatori e riuscimmo a formare quattro squadre. La situazione migliorò di anno in anno, riuscendo a riportare entusiasmo e partecipazione. In quel frangente stipulammo un’affiliazione col Varese prima e con il Chievo Verona poi. Ci ingrandimmo al punto tale che nel 2015 formammo anche la selezione femminile. E pensare che fu un’idea sorta per scherzo…”.

In che senso?
“In quel periodo mio fratello doveva diventare padre, sua moglie aspettava una figlia, così gli dissi che avrei creato una squadra in cui lei potesse giocare una volta cresciuta. Era una battuta, ma alla fine si è concretizzata sul serio. Caso vuole che proprio in quei giorni, Roberta Vinoni e Paola Florio, terminata l’esperienza al Varese, mi proposero di creare una realtà femminile. Accettai di buon grado e iscrivemmo subito la squadra in Serie D. Fu una grossa novità per tutti, in società nessuno aveva avuto un’esperienza simile e l’approccio non fu semplice. Eppure, appena due anni dopo le ragazze vinsero il campionato e furono promosse in C. Una grande soddisfazione”. 

La tua esperienza alla Ceresium Bisustum si chiude nel 2017 e decidi di allontanarti momentaneamente dal calcio: perché?
“Il mio ruolo a Porto Ceresio era diventato troppo impegnativo, avevo bisogno di staccare la spina. Negli anni avevo ricoperto molteplici ruoli e mansioni contemporaneamente. Oltre all’attività calcistica portavo avanti i corsi di nuoto a Saltrio, ero diventato docente presso il Coni prima e il Liceo Scientifico di Varese poi, dedicandomi anche all’organizzazione di tornei sportivi. Parallelamente a tutte queste attività istituii il Progetto Pallina, un programma di avvicinamento all’esercizio motorio per i bambini dai 3 ai 4 anni. Inoltre da cinque anni sono allenatore presso i Milan Camp che si svolgono nei mesi estivi.
Avevo bisogno quindi di ricavare del tempo libero per portare avanti i miei studi personali, migliorare la mia graduatoria e pensare a nuovi progetti. La pausa è durata due anni: nel 2019 sono tornato in gioco accettando le proposte provenienti dal Mendrisio e dal Cantello Belfortese per le rispettive giovanili. Recentemente ho iniziato a insegnare proprio presso le Scuole Medie di Mendrisio, perciò ora divido i miei impegni scolastici tra Italia e Svizzera. 

A proposito di progetti, ultimamente hai partecipato a un corso per diventare match analyst: sarà il tuo prossimo lavoro? In fin dei conti, è un ruolo che sta diventando sempre più importante nel calcio.
“Per il momento no, anche perché il tempo è poco, ma mi piacerebbe molto qualora dovesse capitare l’occasione giusta. Ho partecipato al corso abilitante l’estate scorsa perché sentivo il bisogno di ampliare il mio bagaglio tecnico attraverso un argomento che mi ha sempre affascinato. Grazie ad alcuni conoscenti che operano tra Serie A e Serie C, ho preso parte a questo percorso di studi che si è rivelato particolarmente difficile. Sono riuscito a conseguire il diploma, ma molti dei partecipanti non ce l’hanno fatta, questo rende l’idea della scrupolosità della selezione. Probabilmente la passione che ho sempre coltivato per la tattica, i movimenti e l’attenzione alle singole fasi di gioco mi ha aiutato a superare l’esame. Una volta iscritto all’albo, dopo soli due giorni sono stato contattato dal Grosseto per collaborare con loro in Serie C. Per ovvi motivi di lavoro e distanza non ho potuto accettare, magari in futuro si farà avanti qualche società professionistica della zona”. 

Insomma, una vita dedicata all’insegnamento sportivo.
“Proprio così. Sono riuscito a trasformare i miei interessi nel mio lavoro. All’inizio non è stato facile, i rimborsi spese che ricevevo erano minimi ma a quei tempi non lavoravo di certo per i soldi. Volevo fare quanta più gavetta possibile per imparare in fretta. Crescendo, mi sono ritrovato a fare anche quattro mestieri in una volta sola. Nel nuoto ho a che fare perlopiù con gli adulti, attraverso corsi di fitness, aquagym e riabilitazione. Nel calcio, invece, ho sempre avuto a che fare con i più giovani e sinceramente è ciò che ho sempre preferito. Seguire bambini e ragazzi mi fa stare bene, mi piace l’idea di poterli aiutare a crescere mediante l’attività sportiva”. 

In virtù della tua esperienza come istruttore e docente, credi che l’approccio allo sport sia cambiato negli anni? 
“Per quanto riguarda gli ambiti di mia competenza, ho notato che da vent’anni a questa parte la soglia dell’attenzione è diminuita parecchio e con essa anche la voglia. Oggi i bambini hanno molta più varietà di scelta, nonostante questo però si annoiano facilmente. La tecnologia ha influito fortemente, portando sia progressi che regressi. Essa ha facilitato la vita lavorativa, ma ha anche rubato tanto tempo ai ragazzi, sempre più distratti da piattaforme quali consolle, smartphone e social network. Questo aspetto li porta a stare molto più tempo in casa, esulandoli quindi dal vivere determinate dinamiche che si generano passando il proprio tempo libero fuori dalle mura domestiche. Inoltre, è cambiato l’approccio dei giovani nei confronti degli adulti”.

Qualche esempio?
“La caratteristica più grave che ho riscontrato è data da una sempre più marcata mancanza di rispetto verso figure autoritarie come genitori, allenatori e insegnanti. Sicuramente crescere dei figli non è facile, ma non lo è mai stato. Penso che l’educazione odierna sia differente e non per questo migliore rispetto al passato. È un discorso che non vale per tutti, ma approcciandomi ogni giorno con bambini e ragazzi posso dire che la curva sociale sia in declino”.

Dario Primerano

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