Un giocatore che non ha bisogno di presentazioni, un atleta in grado di fare la differenza ma capace, allo stesso tempo, di far parlare spesso di sé. Si tratta di Osarimen Ebagua, nome ormai legato in maniera quasi indissolubile alla città di Varese e ad un ambiente che, il più delle volte, ha saputo farlo sentire davvero a casa. Trasferitosi in Italia ad appena pochi mesi di vita, il percorso professionale di Ebagua non è stato sempre dei più facili, nonostante l’obiettivo della sua carriera fosse chiaro sin da subito: raggiungere quanto prima la Serie A, meglio se con la maglia biancorossa addosso.
E allora ecco che, nel suo andare in giro per l’Italia, alla ricerca della sistemazione più adatta alle sue esigenze, quella di Varese è stata davvero l’esperienza che lo ha lanciato nel mondo dei grandi, facendolo conoscere per quelle abilità che, da ragazzo, gli avevano fatto credere di non possedere, costringendolo a giocare per molto tempo in difesa. E se il rapporto con i tifosi, negli ultimi anni, non è stato sempre idilliaco, Ebagua continua comunque a coltivare il sogno di tornare, ancora una volta, da quella società che ha più volte definito come una seconda “mamma”, con l’obiettivo di portarla, di nuovo, nelle categorie che le competono. 

Iniziamo parlando di quelli che sono stati i tuoi primi passi nel mondo del calcio. La tua storia è piuttosto particolare dato che, nonostante sia nato in Nigeria, ti sei trasferito in Italia quando eri ancora molto piccolo, vivendo prima a Roma e poi a Torino. Come sei riuscito ad avvicinarti al mondo del calcio?
“Ho iniziato a giocare a calcio sin da piccolo. Lo facevo per puro divertimento, un po’ come fanno tutti i bambini, pur avendo da sempre il sogno di diventare calciatore. Poi, dopo aver giocato in due oratori differenti, sono stato chiamato dal Torino per fare dei provini, nonostante mi avessero cerato anche altre squadre come Juventus e Atalanta. Se ho scelto di andare dai granata, è stato semplicemente perché lì avrei ritrovato i miei amici, e mi sarebbe dispiaciuto non condividere questo percorso con loro”. 

Con il Torino hai fatto tutta la trafila delle giovanili, senza mai riuscire, però, ad esordire in prima squadra. Ti aspettavi di scendere in campo almeno una volta con “i grandi”?
“No, a dire il vero non mi aspettavo grandi cose. Negli ultimi sei mesi sono stato comunque nel giro della prima squadra, con cui abbiamo vinto il campionato e siamo stati promossi in Serie A, poi persa a causa del fallimento. Purtroppo, non sono riuscito a dare il mio contributo in campo, ma ero ancora molto giovane ed era giusto dare spazio a gente più esperta di me”.

Hai parlato di fallimento. Nel 2006, infatti, il Torino ha dovuto ripartire dalla Serie B e da una nuova società, nonostante la promozione ottenuta l’anno precedente. Tu eri ancora un ragazzo, ma che ricordi hai di quell’esperienza? 
“In realtà non ho vissuto troppo male quell’episodio. Ero ancora un ragazzo, troppo spensierato per farmi grossi problemi, e poi, sinceramente, pensavo di rimanere a Torino anche con la nuova società. Alla fine, però, il presidente Cairo mi ha proposto di ripartire, ancora una volta, dalla Primavera, e capisci bene che, dopo aver fatto tanti anni di giovanili ed essere entrato nel giro della prima squadra, ormai avevo voglia di iniziare il mio percorso tra i grandi. Non me la sono sentita di aspettare ancora qualche anno”. 

Così, nel 2005, ti trasferisci al Casale e, con i piemontesi, riesci a trovare anche la tua esatta collocazione in campo. Fino a quel momento, infatti, venivi schierato in diversi ruoli del reparto difensivo, prima che mister Lerda riuscisse a spostarti definitivamente in avanti. Possiamo dire che le tue fortune sono arrivate grazie a quell’intuizione. Che rapporto avevi con lui?
“Ho un ricordo bellissimo del mister, anche se il nostro rapporto, ogni tanto, è stato un po’ burrascoso. Se penso a lui, in ogni caso, non ho problemi a dire che gli devo una carriera, dato che il cambio di ruolo è stato fondamentale per quello che sarebbe stato il mio percorso futuro. In generale, però, posso dire che i due anni al Casale sono stati davvero molto importanti per me, ed è con quella società che sono maturato parecchio”.

Finita l’esperienza con il Casale, arriva anche il tuo esordio in Serie C1, grazie ai trasferimenti a Novara e Pescara. In tutta la stagione, però, sei riuscito a scendere in campo appena 7 volte. Perché hai giocato così poco? Non eri ancora pronto per affrontare il salto di categoria?
“No, non è stato assolutamente un problema di preparazione, la colpa va data tutta alla burocrazia. Non avendo mai giocato all’estero, infatti, venivo ancora considerato come un extra comunitario e sono riuscito ad essere tesserato solo ad ottobre. Risolto quell’aspetto, sono stato fermo ancora per questioni legate alla pubalgia, mentre a Pescara non ho trovato spazio semplicemente perché, in quel momento, giocava gente più affidabile di me. Non voglio dire che non fossi forte abbastanza ma, rispetto agli altri, dovevo ancora dimostrare qualcosa”. 

In ogni caso, uno spazio importante sei riuscito a ritagliartelo nella stagione 2009/2010, in seguito al tuo approdo al Varese. Puoi spiegarci come è nata la trattativa che ti ha portato a giocare in Lombardia?
“È nato tutto dal fatto che il mio procuratore fosse in contatto con il direttore Sogliano, con cui abbiamo iniziato subito a parlare di un mio possibile trasferimento. È stata tutta una questione di feeling dato che, già a pelle, avevo capito che Varese sarebbe stata la scelta giusta. Io, del resto, volevo liberarmi dal Novara e la società è stata disponibile a comprarmi a titolo definitivo, puntando tanto su di me. È vero, ho dovuto rivedere leggermente il mio ingaggio, ma andavo comunque a guadagnare il giusto rispetto a quanto dimostrato fino a quel momento. Erano anni in cui non mi interessavo molto del lato economico, volevo solo giocare a calcio ed arrivare il più in alto possibile”. 

Hai detto che, con la società, hai trovato subito un ottimo feeling ma, evidentemente, la stessa cosa deve essere successa anche con il resto dell’ambiente. Nelle prime 7 partite, infatti, vieni sempre schierato titolare, mettendo a segno addirittura 6 reti. Ti aspettavi un inizio del genere?
“Considera che, all’inizio, la società era preoccupata per me (ride, ndr). Ricordo che il direttore Sogliano diceva al mister che fossi fortissimo, ma che avevo un problema con i gol. Nella preparazione estiva, infatti, credo di non averne fatto nemmeno uno, nonostante la mia forma fisica non fosse delle peggiori. L’ambiente, però, era davvero fantastico, mi sono sentito accolto da una vera e propria famiglia. Ho sempre detto che Varese, per me, è come se fosse una seconda casa, quel luogo in cui mi sono sempre sentito a mio agio e dove sono riuscito a consacrarmi, davvero, nel mondo dei grandi”.

Tra le tante partite di cui sei stato protagonista a Varese, non possiamo non citare le due semifinali dei playoff di Serie C contro il Benevento. Che ricordi hai di quelle gare?
“Ho dei ricordi tutto sommato positivi, anche se porto dietro ancora qualche rammarico. Nelle interviste post gara, infatti, dissi che non sarei stato io l’uomo che avrebbe portato la squadra in Serie B. Probabilmente era tutto scritto, perché nella partita di ritorno sono stato espulso ingiustamente, senza che avessi fatto nulla di sbagliato. Sostanzialmente, ero andato vicino a Landaida per cercare di placare gli animi dopo qualche battibecco, venendo ripagato addirittura con una testata. Con il senno di poi, sarei potuto rimanere nel mio senza dire nulla”. 

In più di un’intervista, però, i tuoi ex compagni hanno sempre parlato di Ebagua come l’uomo in grado di risolvere le partite in caso di difficoltà. Hai mai percepito la sensazione di essere diventato, nel tempo, il vero leader di quel gruppo? 
“No, non mi sono mai sentito un giocatore così imprescindibile. Credo che fosse tutto il gruppo ad essere forte ed io, da solo, non potevo di certo vincere le partite. Secondo me, a Varese, avevamo il giusto mix di giocatori giovani e calciatori di esperienza, e l’unica cosa che, probabilmente, avevo in più rispetto agli altri, era la cattiveria agonistica. Torno a ripeterlo, il segreto dei nostri successi era proprio l’aria di famiglia che si respirava e su questo va fatto un enorme plauso alla società”.

Hai parlato di famiglia ma, nel tempo, ci sono stati degli episodi tra te e tifosi che hanno, in qualche modo, lasciato il segno, uno tra tutti quello dopo la partita di Coppa contro il Ponte San Pietro. Hai più volte parlato di incomprensioni, di frasi riportate male, ma vuoi spiegarci davvero cosa è successo?
“Possiamo dire che è nato tutto dall’espulsione contro il Benevento di cui ti ho parlato prima. Io, al termine di quella partita, ormai sicuro di prendere due giornate di squalifica, volevo chiudere l’anno salutando i tifosi, ma la frase “Grazie a tutti, per me l’anno finisce qua” è stata interpretata come un addio, con molta gente che ci ha ricamato sopra. Per me era semplicemente la verità, volevo solamente salutare tutti, dato che per quella stagione non avrei più indossato la maglia del Varese. Certo, non posso nascondere l’ambizione di salire di categoria, ma quello era un discorso completamente diverso, slegato da quanto accaduto nella gara. Ripeto, volevo solo ringraziare tutti per la bella annata, dato che non avrei giocato la finale ma, da quel momento, mi sono trovato molta gente contro”. 

Quindi perché nell’estate del 2011 lasci Varese? Ricevuta la chiamata del Torino, sentivi la necessità di tornare a casa? O semplicemente volevi ambire ad una squadra, a tuo parere, più blasonata?
“Ripeto, io ho sempre avuto l’ambizione di salire continuamente di livello e sicuramente quello è un aspetto che ha influito molto. Però considera che io, quell’anno, sarei potuto andare in Serie A, dato che l’Atalanta, di cui ho rifiutato l’offerta visto che erano immischiati in questioni legate al calcioscommesse, mi aveva cercato in maniera importante. Oltre ai bergamaschi, però, mi avevano chiamato anche Chievo e Udinese, quindi di occasioni per andare ancora più in alto ne avrei avute parecchie. Se ho scelto Torino, è stato semplicemente per questioni di cuore, sia perché sarei tornato nella mia città, sia perché il direttore Sogliano, persona che rispetto molto, mi aveva parlato di Petrachi come un uomo a cui era legato particolarmente. Diciamo che è soprattutto per questo aspetto che ho scelto di tornare a vestire la maglia granata ma, con il senno di poi, avrei potuto fare altre scelte”.

Perché dici di esserti pentito? A Torino sei riuscito comunque a ritagliarti uno spazio importante, con 20 presenze e 3 gol all’attivo. 
“Diciamo che, dopo quell’esperienza, è cambiata la mia filosofia di vita. Metaforicamente, ho semplicemente iniziato a preferire l’uovo alla gallina e da altre parti avrei guadagnato molto di più. Considera che l’Atalanta mi aveva fatto una proposta di 400.000 euro, mentre a Torino ne prendevo circa centomila in meno, anche se avevo un bonus legato alla vittoria del campionato che mi avrebbe fatto arrivare a mezzo milione annuo. Poi, non ho problemi a dire che, negli ultimi anni della mia vita, ho cambiato tante squadre semplicemente per guadagnare di più. Ripeto, di base c’era sempre l’ambizione di arrivare in Serie A, ma il lato economico ha spesso influito in maniera importante nelle mie scelte”. 

A Catania, però, la Serie A riuscirai a raggiungerla davvero, anche se giocherai appena 74 minuti. Utilizzando un eufemismo, possiamo dire che non è stata l’esperienza migliore della tua carriera.
“Se vuoi ti racconto un aneddoto. Una volta deciso di andare via da Torino, con il mio procuratore avevamo praticamente trovato l’accordo con il Chievo. Considera che ero già pronto per firmare il nuovo contratto ma, una volta arrivati in albergo, mi ha chiamato direttamente il direttore Lo Monaco per convincermi ad andare in Sicilia. Certo, a Catania ho sicuramente trovato un ambiente molto stimolante ma, una volta raggiunto l’obiettivo di arrivare in massima serie, probabilmente mi sono sentito come appagato di quanto fatto fino a quel momento. Ormai, pensavo di essere arrivato all’apice della mia carriera, e invece avrei sicuramente dovuto dimostrare qualcosa di più.  Su questo sono davvero molto critico con me stesso e, nonostante non giocare mi desse un fastidio enorme, non ho mai fatto nulla per invertire la rotta”. 

Dopo l’occasione a Catania, pensavi di poter tornare comunque in Serie A? Magari proprio con il Varese, come hai dichiarato più volte.
“Sinceramente sì, e anche dopo la seconda esperienza a Varese speravo di avere richieste dalla massima serie. Ricordo che mi voleva il Cesena, il Verona e qualche altra squadra, ma non sono mai riuscito a chiudere le trattative a causa del mio ingaggio, troppo oneroso per molti dei club interessati. Guadagnavo circa 500.000€ più bonus e, detto con tutta onestà, ormai non ero più disposto a ridurre il mio compenso, tanto da essere costretto a scegliere sempre tra quelle poche squadre che potessero soddisfare le mie richieste, ad eccezione di Spezia e Bari. Se c’è un rammarico di quegli anni, è stato proprio quello di essere diventato schiavo del mio stesso contratto. E poi, se anche fossi arrivato in Serie A, non avrei voluto avere un ruolo di secondo nelle gerarchie del mister. Volevo giocare con continuità”.

Quando nell’estate del 2013, a solo un anno di distanza dal tuo ritorno in biancorosso, hai lasciato nuovamente Varese, avevi già dei sentori su come sarebbe andata a finire a livello societario? O, anche in quel caso, avevi semplicemente ricevuto un’offerta economica superiore?
“Ero già a conoscenza di tutti problemi societari e, proprio per questo, ti dico che prima di andare via ho fatto un vero e proprio favore a Rosati e Montemurro. Considera che avevo appositamente rinnovato il contratto per altri 3 anni a 500.000€, in modo da far quadrare i conti in vista dell’arrivo della nuova presidenza. La situazione, però, era troppo compromessa, e se non avessi fatto quel gesto probabilmente la società sarebbe fallita già nel 2013. Capisci che la mia presenza, almeno sulla carta, avrebbe aumentato il valore della rosa, e il presidente Laurenza, da cui avanzo ancora dei soldi, avrebbe potuto fare “cassa” con la mia cessione. In realtà, avevo già la rescissione in mano ed è stato fatto tutto ad hoc per salvare la squadra. E poi, se sono andato via da Varese, è stato anche perché sentivo di aver pagato il mio debito con la città, con Sogliano e con tutta la gente che mi ha sempre voluto bene”.

Quell’anno, in ogni caso, in un’intervista hai dichiarato che il valore della rosa del Varese fosse “mediocre” rispetto a quello delle stagioni precedenti. A posteriori, come giudichi quell’annata? Alla fine avete perso i playoff solo all’ ultima giornata.
“Confermo quanto detto tempo fa, il gruppo squadra era mediocre e lo stesso cambio in panchina tra Castori e Agostinelli è servito solo per buttare fumo negli occhi alla gente. Quella, detto sinceramente, non era una squadra all’altezza di combattere per determinati obiettivi, ed è solo grazie alla coesione del gruppo se siamo arrivati comunque in alto”.

In una delle tante tappe della tua carriera sei passato anche per Como. Non hai mai pensato che, da parte dei tuoi vecchi tifosi, il tuo trasferimento in azzurro potesse essere visto come un “tradimento”?
“Sicuramente ci ho pensato ma, la verità era mi piaceva l’idea di tornare a vivere vicino Varese. E poi, e se addirittura grandi campioni hanno vissuto situazioni del genere, non vedo perché non potessi farlo anche io. Questo non farà mai scemare il mio amore verso Varese ma, in certi momenti, devi ragionare da professionista. Tra l’altro, anche a Como mi sono trovato bene, anche se il progetto di squadra, a lungo andare, si è rivelato completamente diverso rispetto a quanto prospettato ad inizio anno”. 

L’ultimissima. Ora sei a Malta, stai per firmare con lo Gzira in vista di un progetto tutto nuovo che ti vedrà protagonista. Che idee hai per il futuro?
“Intanto mi sto allenando con loro, la firma che dovrebbe arrivare a breve. Ormai voglio giocare solo per divertimento, mi piacerebbe riuscire a provare ancora una volta la purezza di questo sport. Vorrei aprirmi a nuovi scenari per il futuro, qui ho trovato una società seria, con progetti interessanti ma allo stesso tempo realizzabili. Mi hanno già fatto una serie di proposte, vedremo a breve come andrà a finire. Di sicuro, porterò sempre Varese nel cuore, con la speranza di tornare presto in biancorosso. Mi piacerebbe giocare ancora un anno, a prescindere dalla categoria, ma se tutto questo non dovesse essere possibile, vorrei entrare almeno nello staff, con la voglia di riportare la squadra dove merita”.

Gabriele Rocchi

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