Mi piace pensare che il destino cestistico di Enzo Carraria sia stato scritto fin dai suoi primi passi in una piccola società di Udine: Libertas Il Lavoratore. Ed è proprio quella parola “Lavoratore” che qualifica, illumina, caratterizza e rende luccicante tutto il percorso sportivo e umano di Enzo, pivottone classe 1957 ex Pallacanestro Varese, con una lunghissima militanza in serie A.

Il percorso di un uomo tanto serio quanto umile. Ma non di quell’umiltà che talvolta sconfina in rassegnazione. Tutt’altro. Quella di Enzo è l’umiltà che appartiene agli uomini consci dei loro limiti e ogni giorno, tenacemente e in maniera ostinata, un centimetro alla volta, lavorano per eliminarli e per rendere migliori sé stessi. E’ l’umiltà di quelli che riconoscono subito il talento, ma sanno che con lavorando con impegno, durezza e grandissima determinazione mentale possono “bypassare” le doti sovrannaturali e ritagliarsi uno spazio apprezzato, e spesso determinante, tra i grandi. Questo è stato Enzino Carraria, un giocatore assolutamente fondamentale nell’economia tecnica ed emotiva di tutte le squadre in cui ha giocato e, in definitiva, titolare di una carriera onesta e ampiamente, del tutto meritata.

“Una carriera iniziata “mille” anni fa quando Ezio Cernich – ricorda Carraria -, professore di educazione fisica alle scuole medie “Manzoni”, nonché grande personaggio della pallacanestro friulana, mi vede svettare di una testa sopra gli altri compagni di classe e mi invita ad un allenamento alla palestra “Zanon”, casa della Libertas Lavoratori Udine, società che a livello giovanile alla fine degli anni ’60 se la giocava alla pari con l’AP Udine targata Snaidero. Alla fine del primo allenamento sono “visto e preso” e affidato alla cure di coach Rivancic che oltre a farmi giocare in tutte le categorie giovanili, a soli 14 anni, senza troppi salamelecchi, mi fa esordire nel campionato di Promozione. Come dire: fammi vedere se hai testa e fisico per rimanere vivo nuotando in mezzo agli squali”.

E tu? Vivissimo, immagino.
“Beh, vivissimo è un’esagerazione però ho il fisico per farmi rispettare, ma l’esperienza, la malizia e soprattutto la cattiveria agonistica sono quelle di un adolescente, quindi, spiegata in parole comprensibili: prendo un sacco di botte. Legnate che però mi aiutano a crescere più in fretta e trovare rapidamente la mia dimensione tecnica, ovvero rimbalzi, giocate di sacrificio e difesa. Tutte cose che insieme al fisico mi mettono in luce e mi consentono, unico giocatore di un piccolo club, di entrare nel giro delle nazionali giovanili. Mentre partecipo ad uno dei tanti raduni azzurri mi nota Bruno Brumana, coach delle giovanili Ignis Varese che prontamente mi segnala al g.m. Giancarlo Gualco. Il dirigente varesino per avermi a Varese deve battere la concorrenza di Olimpia Milano, ma in realtà in questa lotta ha vita facile per due ragioni determinanti. La prima: io faccio un tifo sfegatato per Varese e la Ignis è la squadra dei miei sogni. La seconda: Milano mi prospetta un impegno solo per le giovanili, mentre Varese mi garantisce un doppio impiego: giocare negli Juniores e, soprattutto, far parte da aggregato alla serie A. Quindi, al momento della firma del cartellino non c’è proprio competizione, così vado di corsa a Varese”.

All’Ignis, raccontano le cronache dell’epoca, sei il “punching ball” preferito di Dino Meneghin.
“Tutta verità. Sacrosanta verità. Del resto, nel raggiungere la grande Ignis Varese nel 1973 so benissimo cosa mi aspetta perchè al termine di quel campionato “Lucky” Lucarelli, storico sparring partner di Meneghin, lascia Varese per andare a Cagliari, così tocca a me il compito di allenare e fare da “materasso” per il Menego. Però, pur di far parte della squadra dei miei sogni sarei andato anche in capo al mondo”.

Come sono i primi approcci con l’ambiente Ignis, con Meneghin e i tuoi futuri compagni delle giovanili?
“Le mie prime settimane varesine, ad inizio estate sono letteralmente terrificanti perchè la società mi affida alle cure di Tommaso “Tom” Assi, un preparatore di incredibile bravura, professionalità e rigore. Il professor Assi dopo aver visto il mio fisico, ancora piuttosto gracile – 203 cm per 88 chili -, allestisce un programma a base di dieta ferrea, pesi e lavoro atletico intenso, durissimo con allenamenti al ritmo di quattro mattine e tutti i pomeriggi della settimana. I frutti di un simile “massacro” si vedono abbastanza rapidamente perchè, dopo circa due mesi, all’inizio della vera preparazione con tutta la squadra, sono già passato a quota 98 chili: il minimo sindacale per reggere il peso dei duelli con Meneghin, una straordinario atleta non giocatore dotato di pazzesca forza fisica. L’impatto col Menego è, immancabilmente, di quelli che ti aprono gli occhi perchè mi rendo immediatamente conto che Dino è di un altro pianeta. Irraggiungibile per chiunque. Però, ho sempre bene in mente ciò che devo fare: marcare Meneghin e tenerlo in forma fisica e mentale. Una consegna difficilissima. Improba, in alcuni momenti. Come solo può esserlo marcare il miglior giocatore d’Europa. Invece, con i miei compagni delle giovanili ci si incontra ogni tanto perchè insieme al povero Sergio Rizzi siamo parte stabile del gruppo prima squadra e, di fatto, ci si vede solo in occasione delle partite più importanti”. 

Tra queste partite ci sono le “famose” finali nazionali juniores del 1974.
“Lepori, Bessi, Collitorti, Gualco e compagnia sono un gruppo che giocando insieme da tanti anni è rodatissimo. Sono molto affiatati e, come si usa dire, si trovano ad occhi chiusi. Così l’inserimento mio e di Rizzi anzichè alzare il livello complessivo, questa almeno era la speranza degli allenatori, cambia in peggio gli equilibri consolidati di quella squadra. Noi, in tutta onestà, in quel meccanismo oliato e filante facciamo la figura dei corpi estranei così a Reggio Emilia, nonostante le aspettative e le ambizioni, non saliamo nemmeno sul podio. Tuttavia, al di là del risultato davvero deludente (ricordo ancora un megacazziatone di coach Gamba presente alle finali…) mi tengo comunque stretta la mia breve parentesi nelle giovanili di Ignis Varese perchè i ragazzi di quel fantastico gruppo sono miei amici tuttora. Con alcuni di loro ho vissuto momenti straordinari al Convitto De Filippi, in spogliatoio, in campo e durante le trasferte. Eravamo ragazzi semplici, limpidi, genuini, accomunati dall’immenso amore per la pallacanestro. Il legame “chimico” che ci spingeva verso il basket era talmente forte che ogni momento libero era quello buono per giocare all’oratorio organizzando ogni genere di sfide. Un legame che ovviamente superava i “campanili” perchè gli avversari della Robur et Fides erano “nemici” solo per gli 80 minuti dei due derby stagionali, mentre nella vita di tutti i giorni con i fratelli Crocetti, Trombetta, Segato e compagnia si faceva casino tutti insieme”.

Al termine delle giovanili inizi la tua carriera da “Pro”: prima tappa, decisamente storica, all’Atletico Genova.
“Mi sembra giusto sottolineare il termine “storica” non fosse altro perchè in quel paio d’anni meravigliosi portiamo Genova a raggiungere vette cestisti in seguito mai più toccate. Sotto la “Lanterna” approda una nutrita “colonia” di varesini – Dodo Rusconi, Gualco, Salvaneschi e il sottoscritto -, e insieme a Gino Natali, Billeri, un fenomeno come Marquinho e un bravissimo coach come Luciano Bertolassi realizziamo un miracolo: promozione in A1 e città impazzita di gioia per la pallacanestro. Ma quel sogno genovese è come un grande fuoco di paglia: luce e calore intensissimi, ma di breve durata e nel giro di un paio di stagioni la pallacanestro scompare dal “faro”. Due stagioni che però mi sono utilissime perchè giocando tanto, spesso bene soprattutto in difesa e a rimbalzo, mi guadagno il ritorno a casa all’Emerson Varese dei “miei” grandi e inossidabili campioni”.

Nel 1979 ti guadagni l’appellativo di “Ragazzo di Madrid”.
“Esatto: dopo Sergione Rizzi, indimenticato “Ragazzo di Anversa” per la sue prodezze nelle finale di Coppa dei Campioni vinta in Belgio, mi toccano, credo meritati, i classici 15 minuti di popolarità. Succede a Madrid, contro il “solito” Real. Noi, all’ultima giornata del girone di qualificazione, ci presentiamo al Palacio de Deportes per giocarci una sorta di spareggio: chi vince va in finale di Coppa dei Campioni. Noi però siamo senza Dino Meneghin che pochi giorni prima si è infortunato rompendosi il braccio sinistro. Il clan del Real, pensando ad una formalità, anzi, ad una tranquilla passeggiata ha già fatto stampare le locandine che reclamizzano il viaggio verso Grenoble, sede della finalissima e prima della partita organizzano addirittura un servizio di prenotazione. Questo atteggiamento ci fa incazzare non poco e guidati dalla coppia Morse-Yelverton giochiamo un partitone clamoroso nel quale anch’io faccio bene la mia parte (8 punti e 9 rimbalzi ndr) sostituendo degnamente “Il Dino””.

Farai bene anche l’anno dopo, 1980, nella finale di Coppa di Coppe vinta contro Cantù.
“Partita durissima, vinta dopo un supplementare grazie ad una grandissima prova del mio amico Alberto Mottini che, purtroppo, è mancato di recente. Alberto è stato un giocatore di buonissima qualità, ma io ricordo soprattutto un uomo serio, intelligente e davvero generoso nei rapporti di amicizia”.

In quegli anni sei il classico “pendolare” del basket: una stazione via l’altra, con frequenti ritorni a casa.
“Viaggiare, conoscere posti nuovi, nuovi compagni di squadra, nuove situazioni di basket e di vita: in effetti quello è stato un periodo molto bello con fermate alla Stella Azzurra Roma, Cagiva Varese con Percudani e Magee, Binova Bergamo, Beroni Torino con il fantastico coach Dido Guerrieri e Scott May, Morandotti, Vecchiato, Della Valle e compagnia, Di Varese Varese, Montecatini con Boni, Niccolai e la “guerra” nei pazzeschi derby contro Pistoia. Tutto bello e interessante anche se, devo ammetterlo, non privo di momenti negativi perchè il comportamento di alcuni club non è sempre stato esemplare. Però, fortunatamente, avevo sempre una certezza: la “mia” Varese, posto sicuro, ottima pallacanestro, gente seria”.

Poi, arriva quel maledetto 1988 e quel referto medico: stop al basket per problemi cardiaci.
“In quell’estate con Montecatini siamo in preparazione al Ciocco e nel corso di un elettrocardiogramma di “routine” i medici segnalano la comparsa di coppie di extrasistoli. In quel momento inizia un calvario durato quasi 2 mesi al termine dei quali il professor Furlanetto stila la diagnosi: stop definitivo col basket professionistico. Lo shock, come puoi ben immaginare, è fortissimo, ma grazie l’affetto dei miei famigliari e al sostegno di figure fondamentali supero anche questa fase critica. Ma, è chiaro, con la pallacanestro non si chiude perchè dopo un paio d’anni di inattività torno sui parquet delle minori e con grande divertimento e passione ci resto un’altra decina d’anni giocando in diverse squadre della nostra provincia”.

A questo punto, le emozioni…
“Emozioni? Il primo allenamento nella palestra della ragioneria a Varese vestendo la canottiera dell’Ignis. Il primo ritorno a Udine da avversario: appena sceso dal pullman con il mio borsone Ignis Pallacanestro Varese i miei ex-compagni sento i miei ex-compagni della Libertas che mi applaudono e vedo i loro sorrisi commossi. Poi, le vittorie degli scudetti e delle Coppe e la vivissima felicità negli occhi di Dino, Marino, Charlie, Zago, Bob, Dodo: una generazione di incredibili campioni e bellissime persone. E l’idea di averne fatto parte in qualche modo è totalmente gratificante”.

I tuoi quintetti “best ever”?
“Ossola, Rusconi, Zanatta, Bisson e Meneghin per gli italiani. D’Antoni, Yelverton, Morse, Jura e Sojourner per gli stranieri”.

E oggi, com’è la tua vita?
“Dopo aver forzatamente appeso le scarpe al chiodo ho trovato lavoro in banca e, ormai, sono prossimo alla pensione. Sono sposato con Ornella e seguo mia figlia Erika studentessa universitaria. Il basket è sempre presente nei miei pensieri anche se, per ovvie ragioni, quello attuale è lontano anni luce da quello che ho frequentato io. Ma, ne sono consapevole, i tempi cambiano e personalmente detesto fare paragoni con le varie epoche. Anzi, aggiungo, penso sia profondamente ingiusto. Accarezzo il mio passato, sono fiero per quello che ho fatto nel basket e grato alla pallacanestro per i tanti amici che mi ha fato incontrare lungo la strada e per le esperienza che mi ha regalato. I “ragazzi” del ’56-’57-’58 e ’59 sono ancora parte integrante e attiva della mia vita e grazie alle splendide capacità organizzative di Maurizio “Pelucco” Gualco ci ritroviamo e ce la raccontiamo come se tutto il bello che ci è capitato fosse successo l’altro ieri. Se non è straordinario questo, non so cos’altro potrebbe esserlo”.

Massimo Turconi

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