Quando “nipoti e pronipoti” del Basket Busto si daranno da fare per allestire una “Hall of Fame” della pallacanestro bustocca, non avranno dubbi sul primo nome da inserire nella cosiddetta “Arca della Gloria” e la scelta, sicuramente, premierà Claudio Lesica. La guardia nata a Monfalcone nel 1956, ma “adottato” da Busto quando era giovanissimo, rappresenta infatti il più classico esempio di “giocatore franchigia”, ovvero colui nel quale riconoscersi e di cui essere perennemente orgogliosi per storia tecnica, doti morali e indiscusse qualità umane.
La storia tecnica di Claudio parla da sola giacchè stiamo argomentando di un giocatore che a Busto Arsizio ha vissuto, da grandissimo protagonista, l’imperiosa scalata che a metà anni ’70 proiettò l’allora Cestistica Bustese Omega Bilance dalla serie D fino alla “poule” per la serie A2. Le doti morali descrivono invece un giocatore correttissimo, perfetto interprete del concetto di squadra e sempre disponibile nel farsi in quattro a favore dei compagni e del club. Le qualità umane infine pongono l’accento su un ragazzo sempre sorridente, pieno di entusiasmo, trascinante vitalità, disponibilità, simpatia e altruismo. Tutti elementi che hanno lasciato un segno profondo nei tifosi dell’Omega Bilance i quali, ancora oggi, di Claudio Lesica ricordano tutto. Apprezzano tutto.

Gli stessi sentimenti che, nemmeno il caso di sottolinearlo, provano anche i tifosi di Robur Varese, Robur Saronno e Basket Venegono, le altre società per cui Lesica ha giocato successivamente a Busto riscuotendo consensi tecnici e ammirazione per tutto quello che ha seminato e per “come” lo ha seminato. 
“Sono stato bene in tutte le piazze e spero di aver lasciato buoni ricordi in tutti i club per i quali ho giocato però – commenta Lesica -, è indubbio che i tanti anni trascorsi Busto Arsizio abbiano recitato un ruolo fondamentale nello sviluppo della mia carriera”.

Una carriera che inizia quando e dove?
“E’ presto detto: a 12-13 anni all’Italcantieri Monfalcone in una squadra che, in barba alla scarsa considerazione generale, è invece un gruppo eccezionale, granitico in campo, affiatato e coeso come pochi altri in spogliatoio. A Monfalcone siamo tutti ragazzi cresciuti insieme e legati dall’immensa passione per la pallacanestro: due elementi che ci permettono di ottenere importanti risultati perchè ancora juniores vinciamo consecutivamente i campionati di Promozione, serie D e C facendo bella figura anche in serie B. Forte di questa esperienza approdo a Busto nella stagione 1975-’76, ma non per il basket, bensì per studiare all’ISEF di Milano, ateneo dove è già iscritta mia sorella Fulvia, giocatrice pure a Varese. L’allenatore di Fulvia è coach Dodo Colombo che mi segnala a Franco Passera, in quella stagione coach, appunto, a Busto in serie D”.

Com’è l’impatto con la realtà cestistica lombarda?
“I primi mesi, vuoi per il cambio radicale di vita e abitudini, vuoi per la fatica nell’adattarsi al ritmo università-pallacanestro, sono durissimi, ma un partitone prodotto contro l’Italiana Macchi Gallarate nel cosiddetto “derby delle bilance” mi sblocca, allontana tutte le tensioni e mi spalanca le porte per 7 anni bellissimi, tutti da ricordare”.

Anni caratterizzati da “mille” vittorie, giusto?
“Il primo campionato in squadra con Griffanti, Imparato, Scattolin, Nando Passera, Frattini, Morandi, Sergione Crespi vinciamo la serie D battendo sul filo di lana Casale e Gallarate. L’anno successivo, il 1976-’77, perdiamo invece lo spareggio per la promozione in serie B contro il CMB Rho. Una sconfitta “famosa” soprattutto per il clamoroso “non fischio”, proprio ai miei danni, e nell’ultima azione, da parte dell’arbitro Pietro Tallone, al quale, scherzandoci sopra, ricordo quell’episodio. La promozione sfumata arriva però 12 mesi più tardi perchè nel ’78, in un altro spareggio, battiamo Biella e con la città di Busto festante come mai saliamo in serie B. L’onda lunga e vincente prosegue anche nel ’79, l’anno che ricordo come il migliore di tutti dal punto di vista agonistico dal momento che finiamo terzi assoluti in B, conservando l’imbattibilità nel “bunker” del PalaAriosto. Per altre tre stagioni, seppur con risultati altalenanti, la serie B è il nostro “pascolo” e, per quanto mi riguarda, ho la fortuna di giocare insieme a compagni di squadra stupendi come e tanti altri ancora”.

In serie B, giusto per usare la tua terminologia, continuerai a “pascolare” ancora per diversi anni.
“Nel 1982 chiudo la lunga parentesi bustocca e vado alla Robur et Fides ancora in serie B in una situazione ideale sia dal punto di vista tecnico-agonistico, sia sotto il profilo logistico perchè i miei incarichi scolastici abbracciano tutto il varesotto. Dei tre campionati giocati in Robur solo il secondo merita una grande menzione perchè, anche se poco considerati, arriviamo ad un passo dalla clamorosa promozione in serie A2 e finiamo al terzo posto. Dopo Varese e un rapido passaggio al Mina Induno vivo le ultime, eccellenti, sei stagioni divise equamente tra Robur Saronno e Basket Venegono e nel 1992-’93, a 37 anni e dopo un “chilometraggio” infinito nelle gambe appendo finalmente le scarpe al chiodo”.

Appendi le scarpe, ma dal chiodo stacchi il classico fischietto cominciando il tuo buonissimo percorso come allenatore nelle “minors”.
“Succede tutto, appunto, nel ’93 quando il Basket Venegono retrocede in C2. Il presidente di allora, Gennaro Avvisati, mi propone di passare direttamente dal campo alla panchina, io rispondo “Sì, volentieri” e comincio il mio percorso da coach restando per quattro stagioni a Venegono, per poi trasferirmi a Schianno con promozione in serie D; due anni in C2 a Borgomanero e, a seguire, quattro campionati a Daverio con promozione dalla D alla C2. Infine, nel 2005-2006 la tappa a Gorla Maggiore in un’annata in cui, da vincente, chiudo il mio cammino da allenatore portando la squadra dalla C2 alla C1 grazie ad un fantastico recupero realizzato quando ormai tutti ci davano fuori dai giochi. Ed è ancora vivissimo il ricordo di una serie playoff durante la quale spazziamo via dal parquet il favoritissimo Cassano d’Adda. Insomma, un campionato strepitoso alla guida di un gruppo di buonissime giocatori e ottimi uomini come Borghese, Giglio, i fratelli Lucarelli, il compianto Fabio Porta e altri ancora”.

Non hai chiuso troppo presto col mestiere di allenatore?
“Può essere ma – sottolinea “Highlander” Lesica -, in quel periodo, in qualità di Preside, stavano aumentando in maniera vertiginosa, e quindi non più conciliabile con la pallacanestro, gli impegni come dirigente di un multi plesso scolastico. Così, ho scelto di dedicarmi anima e corpo alla scuola e, credimi, quando hai da dirigere, com’è successo a me, una dozzina di istituti con oltre 900 alunni e un corpo docente composto da più di 100 insegnanti, la sera non ti resta nemmeno il tempo di respirare.  Figurati, la lucidità per andare in palestra. Poi, per come sono fatto, e per la meticolosità che ho sempre dedicato ad ogni  attività, non avrei mai svolto in maniera superficiale un ruolo così cruciale come quello del preside. Non a caso, quando nel 2018 sono andato in pensione ho ricevuto migliaia di messaggi, lettere, attestati di amicizia e stima. Il tutto a voler confermare che se lavori bene, con impegno, onestà, limpidezza nei comportamenti e serenità di giudizio, il tuo operato viene condiviso e, in definitiva, totalmente apprezzato”. 

Beh, stando alle testimonianze di alcuni tuoi ex-giocatori, era apprezzato anche il tuo lavoro come allenatore.
“La pallacanestro ha rappresentato per tantissimi anni una fetta importante della mia vita ma, attenzione, senza mai dimenticare che, a conti fatti, è un gioco e se viene a mancare la parte ludica, direi infantile e legata al piacere di giocare e stare in compagnia, allora perde molto del suo fascino. Per queste ragioni, prima da giocatore, poi come coach, ho sempre cercato di trasmettere la  forza e la leggerezza di questo messaggio e ho sempre spinto prima i miei compagni, poi i miei giocatori, ad allenarsi seriamente, al 110% delle possibilità, ma sempre, sempre col sorriso sulle labbra. Spero solo di esserci riuscito”.

Negli anni da giocatore in serie B eri considerato un “top player” in odore di serie A: non hai mai pensato di cimentarti nel massimo campionato?
“Non solo ci ho pensato, ma in due-tre occasioni sono stato ad un centimetro dall’abbracciare la carriera professionistica. Prima con coach Dido Guerrieri che mi aveva proposto per Vigevano in A2. Poi Livorno e Firenze, in squadroni di serie A2 e, infine nientemeno che al Billy Campione d’Italia 1982. In quell’estate, dopo essermi allenato con l’Olimpia Milano per quasi due mesi, il g.m. Tony Cappellari mi propose un posto da vice di Roberto Premier, ma si trattava di lasciare la scuola e le garanzie di una vita sicura per un sogno bello finchè si vuole, ma instabile, soprattutto a 26-27 anni. Non è stato facile sbarrare le porte al desiderio, ma ritengo che in certe situazioni le scelte lucide siano più importanti di quelle di “pancia”. In ogni caso, non mi sono mai pentito di nulla e, più ancora, non ho rimpianti di alcun genere”.

Nicola, tuo figlio, ha seguito le tue orme…
“Nico, classe 1994, ha messo insieme una carriera più che discreta a livello giovanile e a livello senior ha disputato buoni campionati in C2 a Daverio ma, per fortuna, ha scelto di impegnarsi a fondo con lo studio e, dopo la laurea in economia alla Bocconi, ha frequentato un Master alla London Business School of Economics, ha lavorato a Londra per alcuni anni ed ora è tornato a Milano con incarichi importanti in una multinazionale. Invece mia figlia Sofia dopo una laurea ottenuta in una università statunitense sta frequentando un dottorato in neuropsicologia in Michigan”.

E tu, ti godi la vita da pensionato.
“Pensionato ma – precisa Claudio, sempre attivo perché sono Formatore alla Scuola dello Sport del Coni, ho un ruolo dirigenziale al Basket Daverio e coordino l’attività cestistica di uno dei più importanti e frequentati Camp estivi italiani. Insomma: mai fermo. Come sempre”.

La “fermata” finale della nostra chiacchierata è dedicata come di consuetudine ai tuoi quintetti da giocatore e allenatore.
“Non riuscirò mai a fare dei quintetti e non potrei mai perdonarmi il fatto di aver escluso tanti compagni di squadra, ma soprattutto innumerevoli amici. Pertanto, in deroga, ti chiedo di farmi citare tutti quelli che mi vengono in mente, consapevole che tantissimi rimarranno comunque fuori da questo elenco e, a tutti quanti, chiedo scusa in anticipo. Quindi, un grazie di cuore a Nando Passera, Bessi, Guidali, Lepori, Merlin, Gabrielli, Veronesi, Gabrielli,  Maggiotto, Franzin, Sergio Crespi, Pagani, Buzzi, Brakus, Lucarelli, Ciccio Della fiori Ferraiuolo, Formenti, Aliverti, Bernasconi, Sterzi e Morandi, mio compagno a Busto scomparso troppo presto”.

La tua squadra da allenatore?
“Bernasconi, Zingaro, Conconi, Massimo Rossi, Luca e Damiano Taverna, Borghese, Costantino, Mariolino Di Sabato e l’indimenticabile Fabio Porta”.

Allenatori da citare?
“Il primo ovviamente è Franco Passera che mi ha sgrezzato dal punto di vista tecnico e aiutato molto sotto il profilo umano nei miei primi periodi, tutt’altro che agevoli, in Lombardia. Poi ricordo più che volentieri Maurizio Tallone, un coach significativamente presente nelle mie stagioni a Venegono e, infine, Charly Yelverton che a Saronno, nonostante avessi superato la trentina mi ha insegnato tantissimo dimostrando di essere un meraviglioso insegnante di fondamentali e di possedere un cervello cestistico degno di un “fuori categoria””.

Ultima curiosità, Gigi Piatti mi ha rivelato che Lucarelli aveva coniato per te il soprannome “Conte Monaldo”: perché mai?
“Per due ragioni: Lucky, uomo di infinita cultura, diceva che assomigliavo a Conte Monaldo, il padre di Giacomo Leopardi e soprattutto perché – conclude con un largo sorriso Claudio -, arrivavo dalla terra dei Mona”.

Massimo Turconi

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