Anche se fuori piove e fa freddo, nel cuore di tutti i tifosi biancorossi l’11 maggio è una giornata splendida, che brilla di luce propria, della luce di una stella che nel 1999 è caduta su Varese, quella del 10° scudetto.
Una data che ogni anno viene celebrata dai tanti tifosi e componenti di quel gruppo unico, capace di ribaltare le sorti di un campionato nel quale non partiva certo come il favorito, visto che i Roosters avevano il terzo budget più basso del campionato. Alla fine però sono stati proprio i biancorossi a conquistare un traguardo unico ed eccezionale.

Tra i tanti personaggi che anno vissuto quella giornata, quell’annata sensazionale, abbiamo parlato con Gianni Chiapparo di quelle emozioni uniche che tutti a Varese sperano di tornare a vivere presto nel nome e nel ricordo del Dodo Colombo, scomparso poche settimane fa. Che giornata fu quell’11 maggio 1999?
“Ricordo che quella giornata fu una giornata abbastanza strana, non piovosa come oggi, ma alternata. Più che maggio pareva di essere ancora in piena prima primavera, con il cielo che cambiava spesso, prima nuvoloso poi sereno, fino ad arrivare ad avere un caldo incredibile la sera. Ero andato in ufficio come tutti i giorni, poi nel primo pomeriggio la segretaria mi disse di andare a casa perché era inutile stessi lì a girare in giro per scaricare la tensione. Era una sensazione strana, non sapevamo bene cosa fare. Avevamo mangiato assieme, perché durante i playoff mangiavamo tutti al Campus, c’era anche il negozio, i tifosi venivano per farsi autografare una maglietta e per fare qualche foto con i giocatori che erano sempre disponibilissimi. Smitizzavamo quelle forme estreme di professionismo nelle quali si crea molto distacco tra tifo e squadra. Noi invece eravamo molto attaccati, facevamo sempre allenamenti a porte aperte, non nascondevamo nulla. Poi la serata fu indimenticabile anche se non mi ricordo molto della gara dal vivo. Nel senso che, essendo responsabile societario a quell’epoca anche per l’ordine, gli ingressi e altro, controllavo che tutto andasse bene, nonostante ci fossero 7000/7500 persone nel palazzetto. Dopo essere andati a mangiare e festeggiare, tornai a casa e mia moglie mi aveva registrato tutta la partita e finalmente me la sono goduto appieno. Un ricordo particolare che però mi porto dietro è il palazzetto vuoto al termine della grande festa, io che rimasi sulla panchina della squadra con un mio amico d’infanzia dell’elementari d’Avigno e, guardando qualche stella scendere ancora giù, pensammo a quanta strada avessimo fatto dall’oratorio allo scudetto. Molto meno di quanto sta facendo il mio amico Beppe Marotta che sta facendo cose straordinarie, anche se non sono interista. Siamo cresciuti assieme fino ai vent’anni e ora sta dando lezioni manageriali nella gestione societaria a tutti”.

Quale fu la più grande soddisfazione di quella vittoria?
“Sicuramente vedere la gente contenta e felice. Generazioni e generazioni di genitori e figli vivere un momento che oggi pare molto lontano, nonostante qualche anno fa ci siamo andati davvero vicini. Io penso che la cosa più bella sia stata raggiungere quel risultato grazie ad un’identità di squadra italiana e varesina, in tanti suoi componenti: proprietario, presidente,  vicepresidente, General Manager, il vice allenatore, il Dodone, a cui va questo mio ricordo, era di Varese, Cedro Galli pure, il preparatore atletico, il medico Carletti, Galleani che è varesino acquisito, Andrea Meneghin, Cecco Vescovi, Giadini. Poi Pozzecco che è cresciuto qui cestisticamente, De Pol, Galanda, che erano di fuori ma si sono poi integrati qui al massimo, ma soprattutto tanti italiani. Non so come possa essere vincere uno scudetto oggi con molti stranieri ma secondo me resta dentro meno, è meno identitario rispetto a quello che provammo quella volta, indimenticabile”.

Alessandro Burin

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