“Pensavo di essere uno che si allenava bene, in maniera forte. Poi, in allenamento, ho visto Davide Bianchi. Pensavo di essere un giocatore dotato di grande determinazione. Poi, ho visto Davide Bianchi. Pensavo di essere uno capace di mettere passione e fede in tutto quello che facevo in palestra. Poi, una vigilia di Natale, ho visto Davide Bianchi allenarsi, da solo, fino alle 10 di sera. E la mattina dopo, il giorno di Natale, sempre da solo, Dacio Bianchi era ancora lì, sul parquet. Pensavo di poter diventare un giocatore buono anche per gli alti livelli. Poi, quando ho visto Bianchi, e ho toccato con mano la sua incredibile, inarrivabile durezza mentale, ho capito perché lui è arrivato, con merito, fino alla serie A1, mentre io sono rimasto un giocatore appena discreto per le categorie di B2 e C1”.
L’articolo su Davide “Dacio” Bianchi, classe 1969, guardia di 187 cm., purissimo prodotto Robur et Fides che partito dall’oratorio di Bobbiate è arrivato fino alla serie A1 giocata da protagonista, potrebbe anche chiudersi qui. Potrebbe chiudersi con la testimonianza sincera di un suo ex compagno di squadra il quale, nelle scorse settimane, riannodando i fili della memoria ha sublimato in poche righe essenza e sostanza della stupenda carriera di Davide. Una vicenda sportiva costruita usando soprattutto i materiali descritti: impegno, determinazione, tremenda forza di volontà, smisurata capacità di soffrire, coraggio, autostima, mentalità e parecchio altro ancora.

“Una carriera, quella di cestista che – racconta Bianchi -, non doveva nemmeno iniziare perché Enrico, mio padre, mancato purtroppo lo scorso anno, mi aveva destinato e instradato verso il calcio. Ruolo: portiere, quello che lui stesso aveva ricoperto con onore per tantissimi anni tra serie C, D e “minors” in numerose società della provincia: Malnate e Vedano, per esempio. Papà infatti tutte le domeniche pomeriggio, calcio d’inizio ore 15, mi portava a vedere le partite nella miriade di campetti intorno casa. Poi, al momento di cominciare a tirare seriamente quattro calci al pallone, mamma Elisa, scomparsa nel 2016, si oppose perché probabilmente stufa di indumenti da gioco infangati, di partite viste al freddo immersa nella nebbia, e in fondo di uno sport che nemmeno le piaceva. Così, tra partitelle di calcio e di pallacanestro giocate all’oratorio di Bobbiate, arriva il giorno in cui Marco Marocco, meraviglioso professore di educazione fisica, dopo avermi osservato sui vari campetti mi accompagna di peso in Robur et Fides lasciandomi nelle mani di un altro fantastico “Prof”: Gianni Chiapparo. Gianni, in un vortice virtuoso, mi deposita nelle mani, capacissime, del mitico Aldo Monti, allora istruttore di minibasket in R&F. Da quel giorno in avanti, nella mia vita, solo pallacanestro”.

Cosa ricordi dei tuoi anni giovanili?
“Il primo pensiero è: sono stato fortunato perché ho avuto l’opportunità di vivere subito esperienze belle e vincenti, quindi determinanti per darmi entusiasmo e voglia di migliorarmi ogni giorno. Dopo nemmeno due mesi di minibasket ho avuto la fortuna di vincere la prima edizione del Trofeo Garbosi e, se devo dirlo, ricordo quella vittoria e quel giorno come uno dei felici di tutta la mia vita da giocatore perché le emozioni e le magie che vivi quando sei bambino ti restano addosso, appiccicate per sempre. Gli anni successivi, a conferma della bontà dei gruppi Robur, raggiungiamo sempre le finali nazionali nelle varie categorie – Propaganda, Ragazzi e Allievi – ottenendo buonissimi piazzamenti. A livello Cadetti invece, dopo essere partito col gruppo dei miei pari età, coach Passera mi sposta con gli juniores, quindi ragazzi classe ’67 e ’68. Con quella squadra raggiungiamo le finali nazionali juniores che si giocano a Cantù e, piccola grande soddisfazione personale, al termine della manifestazione gli allenatori mi votano come miglior giocatore giovane delle finali”. 

Da qui alla prima squadra, se non ricordo male, il passo è breve.
“Esatto: nella stagione ’85-’86 coach Dodo Rusconi mi inserisce nella rosa della serie B1 e a circa metà campionato mi fa esordire in categoria, ma è nel 1986-’87 che coach Gianni Chiapparo, nel frattempo diventato capo allenatore della B1, mi lancia in quintetto. Così, a soli 17 anni, all’esordio, contro Mister Day Siena, mi ritrovo a marcare nientemeno che Lorenzo Carraro, uno dei miei giocatori-idolo. Da quando gioco in pianta stabile in B1, che detto tra noi era un campionato bellissimo, il vero torneo dei giocatori italiani, le categorie giovanili vanno a sfumare. Da un lato le esigenze della prima squadra, dall’altro il rischio elevato di incappare in infortuni, spingono dirigenti e staff tecnico ad una scelta obbligata: stop con le categorie giovanili. Un po’ mi dispiace, ma per fortuna, quasi sul finire della stagione, mi restano i tornei scolastici e, per inciso, il ricordo due scudetti giovanili conquistati con il “De Filippi”, inserito in squadre francamente illegali e allenate da coach Giannino Chiapparo. Roba che potrebbe fare il verso alla famosa pubblicità: “Ti piace vincere facile?” perché con un quintetto da serie A: Degli Innocenti, Bianchi, Brignoli, Curtarello, Rusconi e una panchina di altissimo livello, per perdere devi davvero impegnarti”.

In B1, nonostante la giovane età fai subito le onde.
“Faccia tosta, coraggio, voglia di lavorare e ambizione per arrivare il più in alto possibile non mi mancano, inoltre – continua Dacio -, in gruppi che comprendono giocatori fantastici come Ciccio Della Fiori, grandissimo maestro, Pagani,  Cappelletti, Brakus è facile giocare ed esprimersi al massimo. Poi, massimamente, sentendo intorno a me la fiducia totale dello staff tecnico e compagni è tutto più semplice. Così, alla fine della stagione ’87-’88 sono pronto per il campionato successivo, quello della consacrazione definitiva che, per chi crede alla cabala, porta con sé un numero: 38. Come i punti segnati alla Stefanel Trieste in stagione regolare. Al termine di quella partita Bepi Stefanel, proprietario del club, dà un preciso mandato ai suoi collaboratori: “Il prossimo anno il numero 13 di Varese lo voglio nella mia squadra!”.

Detto, fatto, se non sbaglio.
“Proprio così. Alla fine del campionato Giancarlo Gualco. G.m. Robur et Fides, convoca in sede mio padre e il sottoscritto e ci espone la situazione. “Signor Bianchi – spiega Gualco -, per suo figlio Davide sono arrivate 8 richieste da società di A1 e A2 e una da una società di B1, Trieste. Cosa ha, o meglio, avete intenzione di fare?”.
Mio papà replica al dirigente roburino con una domanda: “Signor Gualco, se stessimo parlando di suo figlio, lei come si comporterebbe? Che scelta farebbe?”.
“Andrei senza esitazione a Trieste perché è un club di alto livello che ha progetti ambiziosi, una squadra giovane e di grande potenziale e, aspetto importantissimo, uno staff tecnico di primissima categoria”. Mio padre ascolta il consiglio, ci riflettiamo sopra meno di 24 ore e alla fine diciamo ok: “Va benissimo Trieste”.

Ok, il prezzo è giusto?
“Non ho mai conosciuto a fondo i dettagli dell’operazione, ma mi era stato riferito che il prezzo del cartellino definitivo si aggirava intorno ai 7-800 milioni di lire. Direi un prezzo congruo per l’epoca. Oggi, con una cifra del genere (circa 400.000 euro ndr), ci fai un’intera e ricca stagione in A2”.

A posteriori come giudichi quella scelta?
“In modo assolutamente perfettissimo per almeno mille ragioni. In Stefanel mi fermo cinque anni, i più significativi e importanti della mia vita. Nel club alabardato trovo l’ambiente ideale per maturare tecnicamente, tatticamente e come uomo e per questo progressivo e costante processo di maturazione devo ringraziare un personaggio unico e meraviglioso come coach Tanjevic. Boscia, bisogna urlarlo ai quattro venti, è il protagonista assoluto della cavalcata che ci porta dalla B1 fino a disputare la Coppa Korac perché di quel progetto è il multiforme interprete: architetto, ingegnere, capomastro e manovale che lavora con noi tutto il giorno, tutti i giorni. Solo allenandomi con Tanjevic sei, a volte otto ore al giorno tutti giorni ho capito in senso del termine “scuola slava”. Capito e, aggiungo, amato profondamente anche perché in quegli anni insieme a Boscia ho il privilegio di poter lavorare nientemeno che con il professor Aza Nikolic. Per dare l’idea del programma: due settimane filate di università cestistica con Tanjevic e tre giorni di master con Nikolic. Praticamente il Paradiso in terra per ogni giocatore davvero innamorato della pallacanestro”.

Il mitico “Prof. Aza”: che ricordo hai di lui?
“Non voglio nemmeno parlare delle sue ide di basket perché in questo senso la grandezza di Nikolic ha ormai superato la barriera della fama per entrare nella leggenda. Conservo invece emozioni e ricordi della “persona Aza” che, a Trieste, lontano dalle tensioni della pallacanestro giocata mi ha rivelato tutta la sua enorme intelligenza e la grandissima ironia con cui sapeva corredare ogni considerazione. Col suo inconfondibile vocione, l’inflessione slava e un italiano mai del tutto imparato mi chiedeva “Dacio, ce lo vai al mare oggi? Se ce lo vai, tu ce lo dai passaggio a spiaggia a vecchio professore di Bosnia?”. Così, via. Insieme sugli scogli di Barcola volano le ore parlando di uomini di basket, avventure e vita vissuta. Meraviglioso e inimitabile, Aza”.

E Boscia?
“Che grande personaggio, Tanjevic. Boscia ha un cervello cestistico che gira al doppio della velocità dei suoi colleghi, totalmente dedicato all’insegnamento della pallacanestro per la quale, pensa te, a soli 24 ani, lascia addirittura il ruolo di playmaker titolare della nazionale jugoslava. Uno che parlava tantissimo, continuamente solo in campo. Lontano dal parquet abbiamo chiacchierato solo una volta in cinque anni e solo perchè stavo vivendo un periodo complicato. Per il resto gli devo molto, quasi tutto perchè mi ha preso da ragazzo giovane, con zero esperienza e ha “restituito” al mondo un uomo realizzato e un giocatore molto più forte e completo”.

Dopo 5 anni triestini nel 1993-’94 torni a Varese, ma alla Pallacanestro Varese, giusto in tempo per vincere un altro campionato di A2.
“Lascio Trieste con grande dispiacere perchè loro prendono Nando Gentile e per me non c’è più posto, però l’offerta della PallVa è di quelle esaltanti. Significa tornare a giocare finalmente nella mia città, a Masnago, e in serie A. Di fatto tre sogni che realizzano. L’annata del gruppo è strepitosa perchè partiamo con un gruppo giovane e poco considerato al quale, grandissimo colpaccio, si aggiunge un fenomeno, una superstar del calibro di Arjian Komazec, giocatore illegale in A2 che, alla media di 30 punti a partita, ci trascina di peso in A1. La mia annata invece, lo ammetto, non è esattamente esaltante a causa del rapporto “spigoloso” con coach Dodo Rusconi con cui fatico a relazionarmi. Del resto, cinque anni di cura-Tanjevic mi hanno abituato ad una forte dialettica con l’allenatore. Con Boscia in allenamento e in partita si discute, si parla, ci si confronta in modo aspro. Spesso Boscia mi tira l’accendino, qualche volta volano le borse in spogliatoio e, quando capita, ci si manda anche affan…bagno reciprocamente. Però, tutto finisce lì, con una pacca sulle spalle e un immediato sorriso di riconciliazione. Con Dodo, no. Rusconi non gradisce i miei comportamenti “ribelli”, ma io ho la lingua lunga, non sono capace di stare zitto e lui me la giura. L’anno dopo, nonostante la bella cavalcata che porta alla promozione, non mi riconferma e il mio ritorno a Varese dura solo una stagione. Peccato, ma devo ammettere: solo colpa mia. Avrei dovuto essere più paraculo e seguire l’onda del “Signorsì, signore””.

Dopo Varese comincia il tuo lunghissimo viaggio da professionista in giro per l’Italia.
“Gioco a Modena e Battipaglia in A2; Parma e Viterbo in B1, Montichiari con cui eliminiamo la Robur ai playoff e Bassano in B2. Mentre gioco nel club veneto il mio ginocchio si frantuma in mille pezzi. In pratica tutto quello che c’è all’interno del ginocchio si rompe: legamenti, menischi, tendini, cartilagini e chi più ne ha, più ne metta. Il professor Lelli, luminare degli interventi al ginocchio mi opera nel settembre del 2001, ricostruisce tutto quanto e mi raccomanda: “Davide, prima di rivederti sul campo dovranno passare 13-14 mesi”. Invece sei mesi dopo, nel marzo del 2002, sono di nuovo sul parquet per disputare il quarto di playoff ancora contro la Robur e, guarda che destino bastardo, tocca proprio a me il ruolo di killer dei miei ex-compagni: 5 punti nei secondi decisivi e Robur di nuovo eliminata dalla corsa per la promozione in B1. Poi, scendo di categoria e gioco in C1 ad Assisi finchè nel 2004 torno al Nord accettando il doppio incarico giocatore-coach a Lonato, Brescia. Il ruolo di giocatore però dura poche settimane perchè il ginocchio va ancora in crisi e il professor Lelli mi consiglia caldamente di smettere”.

A quel punto inizi, come allenatore, la seconda parte della tua vita da “baskettaro” incallito…
“In realtà inizio qualche anno prima, ma si tratta di un impegno part-time che condivido col ruolo di giocatore. Tuttavia, diciamo che esattamente dalla stagione 2004-2005 mi dedico anima e corpo al mestiere di coach con tappe pluriennali a Lonato, Verona Villafranca con cui conquisto la promozione in B2; di nuovo a Lonato in doppio tesseramento con Asola; a Montichiari e dal 2018 sono alla Cestistica Verona, a casa mia – da quando ho messo su famiglia abito a Verona e ho due figli: Martina classe 1995 e Mattia classe 1999 -, in qualità di capo allenatore in CGold e responsabile del settore giovanile”.

Intanto, attratto magneticamente dal parquet, sei tornato a giocare.
“Sì, con tutte le cautele del caso e dopo una lunga preparazione ho accettato di far parte della Nazionale Over 50 con la quale, tanto per non perdere l’abitudine, abbiamo vinto i Campionati Mondiali di categoria che si sono giocati a Helsinki nel 2019. Siamo una squadra buona – tra gli altri Angeli, Riccardo Esposito ex PallaVa, Gigi Delli Carri, Corvo, coach Lino Lardo -, ma soprattutto siamo un gruppo di amici super affiatati, orgogliosi e felicissimi di giocare per la maglia azzurra. Del resto, non avrei mai nemmeno pensato di poter vedere il tricolore salire al cielo, sentire l’Inno di Mameli e, come da tradizione, “assaggiare” l’oro della medaglia. Emozioni incredibili, difficili da tradurre in parole”.

Siamo arrivati quasi alla fine della nostra interminabile chiacchierata e, come sai già, ti chiedo di citarmi i tuoi giocatori “All-Time”. Chi è il compagno di tutta una vita?
“Lungo una carriera durata circa vent’anni, ne avrei tantissimi da citare, ma ne voglio ricordare uno, Davide Cantarello, che li comprenda tutti in un forte e caloroso abbraccio ideale. Con Davide ho condiviso quasi ogni minuto dei miei 5 anni trascorsi a Trieste: migliaia di ore tra allenamenti, trasferte, pranzi insieme, viaggi in macchina, momenti di libertà quando entrambi non avevamo ancora famiglie e figli. Un “fratellone”, Davide, mio testimone di nozze nonchè amico su cui so di poter contare in qualsiasi situazione”.

Avversari più pericolosi e difficili da marcare?
“Tra gli italiani indico Roberto Brunamonti, giocatore straordinario per classe, intelligenza e comprensione del gioco. Tra gli stranieri, siccome Boscia mi faceva partire dalla panchina col compito di marcare gli avversari più rognosi, di solito gli americani, ti indico i primi cinque che ho marcato, penso abbastanza bene, all’esordio in A1: Ray Richardson, Bologna Virtus, Michael Cooper, Roma, Pace Mannion, Cantù, Darwin Cook, Pesaro e Frank “Rana” Johnson, Varese. Poi, per fare “scopa” aggiungo Danilovic e Djordjevic. Non male, eh, come battesimo per l’Inferno?”.

L’ultima dedica?
“La rivolgo a Renato Passi, mio dirigente in Robur et Fides. Una persona davvero speciale per generosità e nobiltà d’animo. Nei miei primi anni roburini, quando ero un ragazzino senza patente, Renato mi prende sotto la sua ala protettrice. Mi scarrozza in giro a qualsiasi ora del giorno e della notte e, di più, mi regala  preziosi consigli di vita. Non so quanti altri, al suo posto, si sarebbero comportati allo stesso modo. La sera in cui morì per un grave malore, tra l’altro al PalaLido mentre si disputava il derby tra Busto Arsizio e Robur, io ero in trasferta a Sassari con Trieste. Ricevuta la terribile notizia, piansi a dirotto per un tempo che mi sembrò infinito e ancora oggi, a istanza di oltre trent’anni, il ricordo di Renato fa calare in me un velo di profonda tristezza”.

Massimo Turconi

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