The American Dream. Siamo cresciuti con il mito del Sogno Americano, del volare oltreoceano per realizzare i propri sogni, e c’è chi, come Stefano Gandini, ha voluto concretizzarlo. Il varesino classe ’90, figlio di Maurizio (un volto noto della nostra provincia), non ha avuto dubbi nel lasciare l’Italia per trasferirsi a New York dove ha potuto coniugare la sua passione, allenare, con una professione.

“Negli USA – spiega Gandini – l’allenatore è un lavoro a tutti gli effetti, mentre in Italia viene considerato tale solo ad altissimi livelli. Allenare è la mia identità, e qui mi sento libero di viverla a 360°: abito a Brooklyn e lavoro per il Metropolitan Oval, un’Academy calcistica del Queens che, ad oggi, accoglie e fa crescere ogni anno oltre 500 bambini e ragazzi di età compresa tra i 6 e i 19 anni”.

Riavvolgiamo brevemente il nastro; come sei arrivato a New York?
“In Italia ho iniziato la mia carriera al Verbano nel 2012 finché l’allora direttore tecnico Donato Caragnano mi ha spinto a lasciare la scrivania per allenare. Così l’ho seguito alla Giovanile dei Laghi, a Cadrezzate, per poi passare nel settore giovanile della Vergiatese dove sono rimasto fino al 2017. In quel periodo ho capito che volevo fare della mia passione un lavoro e ho cominciato ad informarmi per trasferirmi in America anche se, a dirla tutta, inizialmente non era la mia prima scelta. Un mio amico mi aveva parlato della green card (il visto che garantisce il permesso di soggiorno permanente negli USA, ndr), ho fatto richiesta online, e sono stato tra i fortunati che l’hanno vinta. L’ho scoperto il giorno stesso in cui stavo partendo per un anno di servizio civile a Bruxelles e lì ho capito che il Belgio sarebbe stato un periodo di preparazione al grande salto”.

Grande salto che, dicevamo, ha subito dato i suoi frutti: al Metropolitan Oval, tra l’altro, non eri l’unico a parlare italiano…
“Esatto. Appena giunto a New York ho iniziato a lavorare per una High School a Manhattan, ma ho subito conosciuto Giuseppe Rossi che mi ha presentato a Filippo Giovagnoli, all’epoca direttore del Coaching al Met Ova. Ben presto, lui e Rossi sono stati ingaggiati dal Dundalk, in Premier Division irlandese, e lo scorso anno hanno ottenuto un bel risultato in Europa League; per la prossima stagione Giuseppe tornerà da noi, mentre Filippo è in cerca di una nuova avventura. Sta di fatto che qui al Metropolitan Oval ho trovato ciò che cercavo: un club innovativo, moderno, che sfrutta nuove tecnologie per gli allenamenti e che mi stimola quotidianamente a mettermi in gioco per migliorare”.

Di quali categorie ti occupi?
“Io alleno le due squadre Under12 che rappresentano un bivio importante: le giovani promesse del nostro club devono capire, e in parte spetta a me capirlo, il loro livello e le concrete possibilità per il prosieguo. Dall’U13, infatti, si entra a far parte della MLS Next, una competizione importante e stimolante che offre parecchi sbocchi accademici e professionali ai giovani atleti”.

Quali sono gli obiettivi del tuo lavoro e, più in generale, del club?
“Il mio obiettivo è lavorare in modo da permettere la costruzione di una Under13 estremamente competitiva, forte nel collettivo e ricca di talenti individuali. Questo perché la filosofia del club è legata alla crescita di ragazzi: da qui possono tentare l’ingresso nei professionisti oppure farsi notare dalle università e ricevere borse di studio per meriti sportivi. Risultati? Ogni anno almeno una ventina di ragazzi firmano il commitment con qualche università prestigiosa come Harvard o Columbia, ma non manca chi va nei professionisti; ad esempio, quest’anno, Giulio Misitano è andato all’U16 della Roma”.

A livello concreto come lavorate sulla formazione dei ragazzi?
“Il club opta per una fusione tra la metodologia italiana e quella olandese su suolo americano: l’obiettivo è dominare la partita attraverso un calcio offensivo senza però trascurare la fase difensiva. Grazie alla nostra roadmap capiamo dove serve intervenire a livello tattico e tecnico e, solitamente, ci concentriamo molto sulla costruzione dal basso: riteniamo infatti che sia uno strumento eccezionale per forgiare giocatori psicologicamente forti e con l’autostima sufficiente da permettersi, quando possibile, un controllo orientato o un dribbling per uscire dalla pressione avversaria”.

Qual è l’iter di una tua giornata tipo?
“Dipende dal giorno, ma solitamente al mattino riguardo senza interruzioni la partita del weekend precedente e successivamente la video analizzo per cogliere gli obiettivi secondari da conseguire nelle sedute settimanali. La periodizzazione tattica, solitamente, è già stabilita all’inizio della stagione, ma è ovvio che l’attività settimanale venga organizzata anche in base alle prestazioni dei weekend. Dopo questo passaggio creo la sessione di allenamento e nel pomeriggio vado al campo per metterla in pratica: con l’U12 ho tre sedute settimanali dalle 16.30 e, quando finisco, ho una sessione di assistenza in U16 (da settembre U17,ndr)”.

Come avete passato la pandemia?
“Grazie al cielo l’ho vissuta negli USA e non in Italia. Qui siamo stati in lockdown solo tra marzo e maggio 2019 e, fin da subito, ci siamo organizzati tramite allenamenti online, sessioni di video analisi, allenamenti di tecnica e discussioni con ospiti. Poi abbastanza velocemente, da metà giugno, siamo riusciti a tornare in campo rispettando il distanziamento concentrandoci su sessioni di recupero, di intercettazioni e di tecnica senza tackle. Da agosto siamo ripartiti a pieno regime rispettando il protocollo anticovid e non ci siamo mai fermati; abbiamo registrato solo qualche caso isolato e tutti provenienti da ambienti esterni”.

Qual è il livello culturale del calcio negli USA?
“Come sport giovanile è al primo posto per numero di partecipanti. Gli USA hanno la tipica divisione interna che esiste tra la città e le zone rurali e, all’interno della città, esistono ulteriori divisioni: il calcio è quasi una religione per i latini e gli europei, mentre per gli americani è uno sport conosciuto e praticato ma  non così seguito. Il livello è comunque molto buono nonostante gli USA soffrano le distanze geografiche e non ci sia un’organizzazione piramidale delle federazioni come avviene in Europa”.

Il Metropolitan Oval è anche un club che fa ampio uso della realtà virtuale, di cui hai parlato nella tua tesi, esatto?
“Sì, anche se non era l’argomento principale del mio studio e l’ho trattata solo nella parte finale. Io mi sono concentrato sulle abilità cognitive nel calcio, ovvero capire come le capacità mentali siano coinvolte all’interno del gioco. In questo, ovviamente, la realtà virtuale ha una sua importanza perché è un lavoro specifico fatto sulle abilità cognitive del giocatore in un contesto realistico, ma virtuale. Diciamo che è stato un bel biglietto da visita da presentare qui al Met Oval”.

Come funziona la realtà virtuale?
“Il ragazzo viene immerso in una partita dei professionisti, solitamente una di Premier League dato ne abbiamo i diritti, e la vede dalla prospettiva dei giocatori. Tramite il coaching effettuato si spinge il ragazzo a riflettere su quelle che sono le decisioni dei calciatori in campo provando a prevedere e anticipare le scelte in un contesto dinamico. Chiaramente, a differenza del campo, nella realtà virtuale si ha tempo per riflettere e pensare e proprio per questo motivo è importante spingere il ragazzo a giustificare in maniera critica le sue sensazioni e le sue scelte”.

Quali sono le qualità che un allenatore deve avere?
“Apertura mentale, voglia di imparare, determinazione e capacità di mettere i giocatori al primo posto”.

Alla luce di ciò, hai qualche allenatore che prendi come modello di riferimento?
“In realtà per quanto ammiri parecchi allenatori credo che ognuno abbia qualche difetto per cui non riesco ad identificarmi al 100%. Mi piace molto De Zerbi per le sue idee di gioco, anche se vorrei che insistesse più sulla fase difensiva e, ovviamente, non posso non nominare Mancini. Il CT mi ha sorpreso per come abbia adottato uno stile di gioco diverso, adattandosi anche agli avversari: ha dimostrato come sia possibile usare i punti di forza tradizionali del calcio italiano rendendoli più moderni. Mi auguro che questo sia un bel segnale per il futuro, una spinta propulsiva per modernizzare il nostro calcio”.

Qual è il tuo sogno?
“Il mio sogno, come chiunque faccia il mio lavoro, è diventare un allenatore professionista di un club in Europa. Ho comunque anche altre alternative: come obiettivo a breve termine vorrei arrivare ad allenare nel giro di qualche anno una squadra di MLS Next de nostro club, ma non mi dispiacerebbe, entro cinque o sei anni, trovare una posizione come direttore del coaching. Non so cosa mi riserverà il futuro, ma lavorerò sodo per conseguire il massimo”.

Matteo Carraro

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