Esterno: giorno. Località: Pila, provincia di Aosta, Italia. Situazione: ritiro pre-campionato della Cagiva Pallacanestro Varese. Periodo: agosto 1994. E’ in quel periodo che, per la prima volta, sento parlare del professor Cecco Lenotti, preparatore atletico della squadra varesina. In realtà, più che di Cecco, sento parlare di “Fiocco di Neve” e, nemmeno il caso di dirlo, è Gianmarco Pozzecco a spiegarmi il senso del soprannome affibbiato seduta stante al professor Lenotti.

“Come sarebbe a dire chi è “Fiocco di Neve?” – mi chiede con occhi stralunati Pozzecco -. E’ la famosa capretta amica di Heidi, ossia quel “simpatico” quadrupede che corre su e giù per montagne con pendenze vertiginose inseguendo la bionda montanara con le treccine. Ecco, “Fiocco di Neve” è proprio Cecco perché, pure lui, corre instancabilmente su e giù per le montagne. Solo che al posto di Heidi Cecco deve inseguire il sottoscritto, Ricky Petruska o Giò Savio. Se non ci credi, guarda fuori dal finestrone”.

In un attimo mi accorgo che è tutto vero. Sul terrificante costone che sale fino a quota 2000 e potrebbe stroncare anche uno stambecco, si può scorgere, nitidissima, l’immagine di un bipede che, con passo “ginnico”, fa la spola tra la testa e la coda del gruppo. E’ Cecco. E’ il “Prof” che, senza palesare nessuna fatica, sale e scende dalla montagna con grande agilità esattamente come noi “patetici terrestri” potremmo fare sui lunghissimi nastri trasportatori dell’aeroporto. 

La scena, ovviamente, si ripeterà anche negli anni seguire, a volte con un curioso cambio di soprannomi. E’ il caso di Marcellino Damiao, a sua volta etichettato “Fiocco di Neve” nel tempo di un battito di ciglia.
E’ la scena di un uomo, Cecco Lenotti, che da solo avrebbe tranquillamente potuto fondare una società polisportiva con la certezza di primeggiare in tantissime specialità. 
Non ci credete? Allora ricordatevi le figurine e recitate il “mantra delle figu”.

Basket? Celo. Atletica leggera? Celo. Nuoto? Celo. Bici su strada? Celo. Slalom gigante? Celo. Calcio? Celo. Discesa libera? Celo. Sci alpinismo? Celo. Rugby? Cosa campestre? Celo. Ciclocross? Celo. Salto in alto e salto con l’asta? Celo tutti e due. Free climbing? Celo. Motocross? Celo. Triathlon? Celo. Vela e wind-surf? Celo, anche queste. E, credetemi l’elenco potrebbe essere, anzi, è ancora lungo.

Ma, tra tante scene, la più bella è quella che cristallizza l’immagine di un “hombre vertical”. Un personaggio che non ha mai venduto i suoi ideali e, più ancora, non ha mai “svenduto” la sua dignità. Insomma: uomo vero, Cecco. Uomo fino in fondo. Anche a costo di rimetterci di tasca sua. 

Eppure, esaurita questa lunga premessa, ecco che la storia dello sportivissimo Lenotti, quasi fosse un contrappasso dantesco, nasce in un contesto “anomalo”…
“Anomalo perchè – conferma Lenotti -, la mia famiglia d’origine, ovvero papà Angelo, Ispettore del Corpo Forestale, e mamma Valentina, casalinga, erano ben poco, direi quasi nulla interessati allo sport e, quindi, da loro non ho mai ricevuto particolari input, nè stimoli. Il mio avvicinamento allo sport avviene in modo del tutto istintiva partecipando da ragazzino alle prove multiple delle “Mini Olimpiadi” organizzate in estate all’oratorio di Giubiano: salto in alto, salto in lungo, lancio del peso, 100 metri, 400 metri, ostacoli, corsa campestre, 1000 metri. Tanta corsa, tantissimo movimento e, se si eccettuano delle improvvisate partite di pallamano e le immancabili partite di calcio, pochissimi altri giochi di squadra”.

Quindi, il basket da dove salta fuori?
“Inizio a giocare a pallacanestro alle scuole superiori, all’ITIS di Busto. Le insistenze di alcuni compagni di classe mi spingono verso il basket, ma i primi approcci fatti con un pizzico di serietà alla Robur et Fides finiscono subito malissimo perchè tra me e coach Dodo Colombo è immediata “guerra” sul piano caratteriale. Dodo, lo sanno tutti, aveva un carattere duro, esigente, schietto, diretto. Io, se possibile, con la sfrontatezza dei sedicenni, ero anche più testardo di lui. Per farla breve, dopo alcuni allenamenti ci siamo mandati reciprocamente a quel paese e a quel punto me ne sono andato”.

Dove?
“A cercare altro basket perché, comunque, ‘sto sport mi piaceva. E alla fine trovo la pallacanestro che mi piace a Gavirate, in un gruppo di amici – i fratelli Imperiali, Chicco Gandossi, Silvio Focchi, Marco Parolini -, coi quali negli anni abbiamo girato mezza provincia spostandoci in blocco in vari club tra Prima Divisione e Promozione”.

Pallacanestro di categorie un po’ più “nobili”, l’hai vista?
“Certo, ma solo al termine dell’ISEF e una volta tornato da militare. Gioco infatti in serie D a Somma Lombardo con coach Marco Vescovi e sono anni davvero divertenti, ma lascio il club sommese quando arriva coach Bussetti con cui non ho grande “feeling”. Dopo Somma, approdo a Saronno in serie C1 allenato dal mitico Charlie Yelverton. La serie C rappresenta il mio massimo in carriera e in tutta onestà non avrei mai pensato di arrivare in una categoria come quella perché, non avendo mai fatto le giovanili, i fondamentali e la conoscenza del gioco sono quantomeno approssimativi. Però, siccome atleticamente me la cavo abbastanza bene e gioco sempre col coltello fra i denti, Charlie mi dà spazio consapevole dal sottoscritto avrebbe sempre spremuto qualcosa di buono. Così, dopo aver portato a casa qualche soddisfazione, a 31 anni nel 1988 smetto con la pallacanestro “seria” e in ritardo di circa vent’anni mi butto finalmente nell’atletica grazie al professor Giuseppe Balsamo, favoloso allenatore di prove multiple”.

E in pista, cosa succede?
“Succede semplicemente una cosa: sotto il profilo puramente sportivo vivo gli 8 anni più belli della mia vita. La pista di Calcinate degli Origoni diventa la mia seconda casa – spesso anche la prima – e con la mia squadra l’Atletica Varese vinciamo un campionato regionale e ci piazziamo al terzo posto in una finale nazionale alle spalle di club professionistici come il Gruppo Carabinieri e l’Atletica Siena”.

Quando torna in auge la pallacanestro?
“In verità il basket non esce mai del tutto dalla mia vita perché, esaurita la parentesi da giocatore, chiamato dall’ottimo Arturo Benelli comincio il mio percorso come preparatore atletico al Mina Induno. Per un paio di stagioni seguo Arturo a Borgomanero finchè coach Cedro Galli mi propone di entrare in Pallacanestro Varese come preparatore atletico delle formazioni giovanili. Siccome dalle giovanili alla prima squadra il passo è breve, eccomi in serie A addetto in modo specifico al recupero degli infortunati. Tutto ciò fino a quando, nell’estate del 1994 che hai già citato, coach Dodo Rusconi mi inserisce nello staff. Prima come elemento di supporto per la preparazione atletica, poi, svanita pian piano l’iniziale diffidenza come preparatore a tutti gli effetti”.

Diffidenza, come mai?
“Dodo, discepolo dichiarato di coach Aza Nikolic, è abituato a fare di testa sua e si occupa in toto anche della preparazione atletica. Però, evidentemente, apprezza qualcosa della mia metodologia di lavoro e, seppur a piccoli pezzi, mi chiede di dargli una mano”.

E proprio in quegli anni scatta la scintilla che porterà al fuoco del famoso scudetto della Stella: che merito ti riconosci per quella impresa leggendaria?
“Solo uno: l’essere riuscito a costruire un rapporto speciale con i giocatori. Una relazione fatta di fiducia, amicizia, serenità, chiarezza e onestà. Ma, anche, direi soprattutto, un rapporto “tra pari” che, dovessi descriverlo in tre parole, definirei: emotivamente e fisicamente coinvolgente. Sono sempre stato insieme ai giocatori nel condividere sudore, fatica, a volte dolore, certamente stanchezza, gioia per i risultati ottenuti e momenti di sconforto per le difficoltà incontrate lungo le strada. Insieme a loro ho sudato, fatto pesi, stretching, pedalato in tutte le condizioni climatiche, trascorso lunghe mattinate solitarie in piscina o in pista allo stadio a fare riabilitazione e come ti ha già detto il “Poz” corso su e giù in montagna fino allo sfinimento. Sono stato sempre al loro fianco e di sicuro non sono stato uno armato solo di tabelle, test cronometrici e grandi teorie. Menego, De Pol e compagni mi hanno visto con gli occhi di fuori per la fatica e, credo, alla fine abbiano apprezzato la concretezza del mio esempio”.

Insomma, grazie a te, mai un problema.
“Beh, le cose non stanno proprio così e in qualche occasione, rara in verità, ho passato dei brutti momenti. Per esempio ricordo la faccia preoccupata e poco convinta di coach Recalcati dopo il terribile -47 subito a Treviso. In quel periodo avevo sottoposto la squadra ad un durissimo richiamo atletico con l’idea di trasformare i tremendi carichi in energia pura, velocità e freschezza da utilizzare con l’avvio dei playoff. Così, è vero, Mrsic e soci arrivano all’appuntamento contro la Benetton con le gambe “cementate”, ma con la miccia già accesa e pronta ad esplodere nella post-season. Diciamo che ho corso un rischio calcolato e alla fine tutto è andato benone. Però, aggiungo, senza l’intervento diplomaticamente risolutorio di Gianni Chiapparo non so come sarebbe andata a finire”.

Scusa, quale intervento?
“Al ritorno dalla scoppola trevigiana l’ambiente per qualche giorno vive in uno stato di comprensibile tensione temendo probabilmente di perdere le molte certezze acquisite nel corso di tutta la stagione. In particolare ricordo i dubbi espressi da Carlo Recalcati sulla qualità e sull’efficacia del lavoro che avevo proposto. Dubbi che, come potrai immaginare, se lasciati fluttuare liberamente avrebbero potuto “collassare” il gruppo squadra. Invece, per fortuna, con carattere pari all’intelligenza, Gianni Chiapparo prende da parte coach Recalcati e, con tranquillità, lo invita a fare, al meglio, il suo lavoro di allenatore, senza pensare al mio di preparatore atletico. Così, grazie alla ferma posizione di Gianni, il quadro d’insieme si ricompone e la squadra, smaltite del tutto le tossine residue nel turno di playoff contro Pepsi Rimini, mette il turbo contro Virtus Bologna e decolla definitivamente verso la “Stella” contro Treviso”.

La tua gioia per lo scudetto dura relativamente poco…
“Circa 7 mesi, dal “famoso” 11 maggio fino al giorno in cui “segano” clamorosamente coach Cedro Galli. Il giorno dopo il licenziamento di Cedro salgo in ufficio dal presidente Tony Bulgheroni e rassegno le mie dimissioni irrevocabili. Il mio però, vorrei precisarlo, non è gesto di rottura totale, ma solo una reazione, credo umanamente comprensibile, di fronte ad una decisione, cacciare Cedro, che reputavo allora, e reputo anche oggi, profondamente ingiusta. Evidenzio e sottolineo che, qualche anno più tardi, ripropongo lo stesso comportamento quando, sotto la gestione della famiglia Castiglioni, viene allontanato coach Greg Beugnot che, mio parere personale, non ha grandi colpe per l’andamento così così di una squadra balorda.
Dopo le dimissioni relative al “caso-Beugnot” per alcuni mesi esco dal mondo della pallacanestro ma, un po’ a sorpresa, proprio mentre sono in Francia da coach Beugnot per curare la preparazione atletica del suo Chalon, prende vita una delle esperienze più belle, suggestive, divertenti e, se posso dirlo, anche avventurose della mia vita: la partecipazione alla Coppa America con il “Consorzio +39″”.

E, qui, consentimi l’iperbole, siamo davvero al “top”.
“In effetti, se la mettiamo dal punto di vista economico, per rilevanza degli sponsor, dei personaggi coinvolti, dei capitali investiti, della esposizione mediatica che è certamente a livello mondiale e di tanti altri innumerevoli aspetti, ci si rende conto che la Coppa America rappresenta un evento di livello incredibile. Poi, è chiaro, accanto ad “Alinghi” di Bertarelli, vincitrice di quella edizione, siamo presenti in maniera più folcloristica anche noi di “+39””.

Perché folcloristica?
“Perché alla lunga possiamo allenarci, fare le sedute di preparazione atletica, lavorare sulla barca e scendere in acqua solo quando arriva il bonifico sul conto corrente. Però, a parte questi “irrilevanti e trascurabili” incidenti di percorso, ti confermo di aver vissuto tre anni incredibili, in giro per il mondo, dentro una bolla speciale”.

Racconta, prego.
“Tutto inizia grazie al meraviglioso Mario “Doc” Carletti che propone il mio nome come preparatore atletico ai responsabili organizzativi di “+39”. Nel giro di pochissimi giorni risolvo le pratiche per ottenere il permesso presso la scuola per la quale insegno e volo a Palermo, sede della nostra base operativa.
I primi mesi di preparazione fisica sono strepitosi e, per me, assolutamente gratificanti. Infatti l’equipaggio, formato da grandissimi professionisti e gente davvero tosta, si impegna in modo superlativo arrivando, tutte le voci comprese, anche a 14 ore di lavoro quotidiano senza mai sentire la fatica perché il clima che circonda la nostra barca è entusiasmante. Da Palermo ci spostiamo in giro a Valencia, sede delle regate di “Louis Vuitton Cup” e della finalissima. Poi, da Valencia, inizia un piccolo giro del mondo per effettuare i “test” di rodaggio dello scafo. Tuttavia, a circa metà del percorso, cominciano i problemi economici e, detta papale papale, quando finiscono i soldi, ci tocca restare per diversi giorni negli hangar perché ci è impossibile anche recuperare i materiali di consumo: vele, cordame, altre attrezzature e così via. Insomma, ci si prepara a strappi, ma io trovo il modo di utilizzare al meglio i lunghi tempi di pausa tra un bonifico e l’altro girando mezza Spagna sulla bici da corsa, vedendo paesaggi bellissimi e gente accogliente e simpatica. Il tutto fino a che iniziano le regate ufficiali per la “Vuitton Cup” che, al netto dei problemi, non vanno poi così male. Quali problemi? Beh, giusto per accennare, nel corso di una regata ci si rompe l’albero e non ne abbiamo uno di scorta. Per fortuna Bertarelli, generoso come pochi, ce ne presta uno così possiamo finire la “LV Cup” chiudendo all’ottavo posto su 12 scafi partecipanti”.

In uscita dalla bolla e al ritorno nella normalità, cosa succede nella tua vita?
“Comincia l’ultima avventura, quella del rugby, sportivamente bellissima e umanamente insuperabile. Il rugby parte avendo come protagonisti i miei ex-alunni della scuola media di Coquio Trevisago, ragazzi  con cui, per ragioni insondabili, ho sempre avuto un rapporto molto profondo. Ai ragazzi di Coquio, sul finire degli anni ’80, propongo come percorso didattico il rugby e la  palla ovale, per loro, è una sorta di rivelazione, di stella cometa da inseguire all’infinito. La passione per il rugby, per una di quelle strane alchimie positive, travolge molti di quei ragazzi che, più avanti, continueranno a praticare questo sport. Alcuni finiranno per giocare nel Varese Rugby, altri arriveranno alle sogli di categorie importanti ma, comunque, tutti quanti resteranno indissolubilmente attaccati al sottoscritto e al “15”. Attaccati a tal punto che, quanto torno dalla Coppa America, si presenta una loro nutrita delegazione e, nel nome di una vecchia promessa fatta anni prima, mi dicono: “Prof, siamo tutti qui e, adesso, insieme a te vogliamo fondare la “nostra” società di rugby”
Potevo rispondere no a questa richiesta? No, che non potevo. Così, diamo vita ad una nuova società, troviamo un campo a Cassano Valcuvia e iniziamo l’attività battezzandoci nell’unico modo possibile: Rugby Unni Cassano Valcuvia. Il nome Unni è ovviamente legato alla particolarità di alcuni di questi ragazzi che durante l’adolescenza erano, come dire, un tantino, “esuberanti”. I ragazzi mi nominano presidente di un club in cui naturalmente faccio il preparatore atletico, ma anche il segretario, il magazziniere e così via. Dopo cinque anni di attività vinciamo addirittura il campionato di serie C, categoria che dopo essere retrocessi disputiamo ancora oggi. Negli ultimi anni c’è stato un ovvio ricambio generazionale e un alternarsi nelle cariche dirigenziali. Oggi sono vice-presidente e, bella cosa, abbiamo fatto partire anche le giovanili. Nello specifico, a livello giovanile mi occupo delle prime categorie, Under 10 e Under 12, cercando di sviluppare soprattutto l’educazione motoria di base e la capacità coordinative”.

Quindi, dentro il rugby e stop col basket?
“No, in realtà, ho avuto altre due “toccate e fuga” con la serie A. La prima, nel 2008-2009, stagione della promozione in A con la squadra allenata  da coach Pillastrini. Però stante l’impossibilità, con “Pilla”, di stabilire una seppur minima programmazione di lavoro, il mio rapporto con la Cimberio dura non più di un mese. La seconda, e davvero ultimissima esperienza di pallacanestro, si verifica l’anno dopo a Castelletto Ticino, in B1, chiamato da coach Sandrino De Pol, ma l’annata è stata talmente brutta, problematica e complicata che non voglio nemmeno ricordarla”.

E oggi, quindi, senza pallacanestro fra i piedi, cosa fai?
“Da circa un mese ho lasciato la scuola e sono in pensione, ma le mie giornate, oltre al rugby a Cassano, sono sempre strapiene di sport. Finchè avrò un goccio di energia mi vedrai in giro in bicicletta per le Valli Varesine oppure a nuotare nei nostri laghi o, ancora, in giro a correre per i nostri boschi. Ma, prima di iniziare a correre, vorrei, grazie a te, levarmi l’ultimo sassolino dalla scarpa su quello che capita nello “strano”, ovviamente è un purissimo eufemismo, mondo del basket”.

Come dice Michele Mirabella: ne hai la facoltà. Vai pure…
“Allora, pochi anni mi convoca il settore squadre nazionali chiedendomi la disponibilità per fare da preparatore atletico ad una importante squadra azzurra. Parto da Varese per incontrare il coach di questa formazione e nel corso di un colloquio lungo e articolato mettiamo nero su bianco programma di preparazione, date, scadenze e tutto quello che serve per affrontare il lungo periodo di allenamenti, circa due mesi, che fa da preludio ad un importante torneo di qualificazione. Un paio di giorni dopo mi chiama un’addetta della Federazione dicendomi: “Professor Lenotti, le ricordo che la prossima settimana dovrà sostenere l’esame per la nostra abilitazione a preparatore Atletico, indispensabile per lavorare con noi”.
Mia risposta: “Scusi ? Ho capito bene? Dopo quarant’anni di lavoro come preparatore, oltre la metà dei quali trascorsi in serie A o comunque a livello professionistico dovrei sostenere un esame? Un “vostro” esame? Ok, è stato bello, arrivederci e grazie…”.  

Questo aneddoto, per chi non l’avesse ancora capito, racconta in modo definitivo chi è Cecco Lenotti. Un uomo tutto di un pezzo, poco incline ai compromessi e del tutto refrattario alle ingiustizie. Personali o riflesse. Un uomo prendere o lasciare. Io, che mi onoro di conoscerlo abbastanza bene, prendo. Prendo sempre. Perché da uno così c’è solo da imparare.   

Massimo Turconi

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