Se dovessimo girare un film sulla vita, comunque interessante, di Anna Bulgheroni, figlia “del Toto”, il titolo sarebbe sicuramente: “Nel nome del padre”. Trama classica di commedia brillantissima alla “Woody Allen”, piena di riferimenti buoni per la psicanalisi, con frequenti colpi di scena e un paio d’ore che vi tengono incollati alla poltrona perchè il finale può essere, e in realtà lo è, davvero sorprendente.
Però, pensandoci bene, potrebbe funzionare anche una trama alla “Sliding doors” con questa giovane donna, simpatica, dotata di intelligenza acuta, sincera fino allo stupore e in possesso di quel tocco di saporita ironia. Tutte qualità che dal fondo dei suoi occhi azzurro mare, ti regalano la sensazione di poter scegliere il finale che preferisci. Il “The End” di stampo baskettaro ti offre per esempio il ritratto di una ex-giocatrice, ex-appassionata di pallacanestro suo malgrado. E, non a caso, Anna, una di quelle “point guard” che non sbagliano una scelta inizia la nostra chiacchierata smazzando un assist dietro l’altro. Deliziosi passaggi che, giornalisticamente parlando, sono per “noblesse famigliare” come deliziosi “cioccolatini” da gustare uno via l’altro. 

“Come dice mio papà  io sono una “femmina maschiata” e come tale – esordisce con un paio di pungenti battute Anna-, ho dovuto lottare tutta la vita per affermare la mia “povera esistenza”. Quindi, figurati la rabbia che avevo dentro quando all’appassionato di basket che ha creato la pagina di Wikipedia su mio padre ho fatto notare che Toto aveva “ben” tre figli e non solo i conosciuti Edoardo e Tony. Messo in chiaro lo “stato di famiglia” inizio subito col dirti che la pallacanestro per me è stato un obbligo, mentre equitazione, cavalli, scuderie sono stati la mia scelta”. 

Obbligo e tradizione famigliare, immagino.
“No, no: proprio obbligo che – rinforza il concetto Anna -, comincio ad assolvere in età tenerissima, neanche 5 anni, frequentando i corsi minibasket della Robur et Fides perché in Pallacanestro Varese accettano solo bambini dai 6 anni già compiuti. Dopo la prima lezione, grazie alla gentilezza e alla sensibilità del mio primo allenatore Andrea Schiavi, ricevo una bella magliettina rosa e con essa la certezza, mica da poco, che nonostante il mio caschetto biondo con taglio corto che su rigida imposizione paterna avrei tenuto fino a nove anni, sarei stata trattata come una bambina”. 

Benissimo: stabilita subita la differenza di genere, come andiamo avanti?
“Ovviamente con il mio primo canestro che – continua sorridendo Anna -, è come il primo bacio: non si scorda mai. Il mio, poi, è impossibile da dimenticare visto che per una distorta visione del gioco, penso di far canestro dal basso verso l’alto, ovvero facendo uscire la palla dalla parte sbagliata. La pallacanestro comunque mi “piaciucchia” e, a margine, mi deve piacere per forza perchè rappresenta la “religione” della mia famiglia, devota e fedelissima alla palla a spicchi con “totem”, canestri e retine, disseminati ovunque. In casa mia, sempre frequentata da giganti, tutto rimbalza e fa “ciuff” e la pallacanestro, seguendo l’imprinting di papà Toto è un percorso inevitabile. Anche per me che magari non ne sono del tutto convinta. Però, a 5 anni, indossando una straordinaria maglietta rosa, manovrando a due mani un pallone enorme e imitando i miei fratelli Edo e Tony, il mondo mi sembrava davvero bellissimo”. 

E a 6 anni?
“Lì, cambia tutto perchè passo alla casa-madre Pallacanestro Varese. In PallaVa sono l’unica femminuccia in mezzo a un miliardo di compagni maschi e il mio allenatore è Bruno Arena, istruttore dai mezzi piuttosto sbrigativi, a sua volta aiutato da Pino Pinelli. Dai maschi prendo solo gran botte e spintoni e, per di più, non mi passano mai la palla. Intanto, siccome la maglietta rosa lascia spazio ad una t-shirt con disegnate delle simpatiche scimmiette in un attimo tutti quanti mi appiccicano un ovvio soprannome: “Cita” che su di me ha un effetto devastante accendendo ancora di più la miccia della mia avversione verso la pallacanestro. Piango, batto i piedi e mi rifiuto di andare agli allenamenti. Con gli occhi gonfi di lacrime arrivo a implorare mia madre la quale, poveretta, si trova tra due fuochi. Da una parte arde, giustamente, il suo “tenero cuore”. Dall’altra c’è quello duro e inscalfibile di Toto che semplicemente dice: “Non se parla. Tu vai agli allenamenti e non rompere le balle!””.

E poi, che succede?
“Quelli sono gli anni in cui spopolano i cartoni di Mila&Shiro e, ovviamente, mi assale il trip della pallavolo. ”Ok, vada per la pallavolo, però continui a giocare anche a pallacanestro -, sentenzia gelido mio papà”. Nel volley trovo squadra a Solbiate Arno scatenando le prese in giro dei miei fratelli perché sono l’unica che in famiglia non fa uno sport di contatto. Intanto, siccome nel minibasket ci sono pochissime bambine, papà, sotto l’egida di Pallacanestro Varese, dà il via all’organizzazione della “benedetta” sezione di pallacanestro femminile. Di fatto a 10 anni mi ritrovo ad essere la prima tesserata di una squadra nuova di zecca”.

Con una battuta direi: cosa non si fa per i figli…
“Sono d’accordissimo anche se personalmente ne avrei fatto a meno visto che – sottolinea con un sospirone Anna -, mi son sempre sentita un pesce fuor d’acqua a causa del mio cognome. Gli eventi prendono una piega diversa perché mollo il volley dopo una sola stagione e a settembre, grazie ad un lungo lavoro di reclutamento, inizia l’avventura della PallVa Femminile. Al mio fianco, per fortuna, c’è ancora la compagna di mille battaglie vissute nel minibasket: Annalisa Migliazza che Pino Pinelli ribattezza “Titti”, mentre per me, essendo figlia del Toto, in uno strepitoso afflato di fantasia sceglie “Tota””.

La coppia Titti & Tota sarà, per anni, il terrore delle avversarie sul parquet.  
“Insieme a noi quelle che per numerose stagioni saranno le volenterose e agguerrite pioniere della sezione femminile: Laura Manetti, Micaela Savelli, Alessia Angelucci, Cristina Sbarra, Fedra Morganti, Serena Petrocchi, Raffaella Salmoiraghi, Michela Zanzi, Eliana Monciardini, Nadia Fibbiani, Monica Protta, Federica Martarelli. Il gruppo viene affidato alla cure di coach Carlo Rossi che, lo capisco, accetta l’incarico come fosse stata una punizione. Una sorta di inferno da scontare in terra per aver commesso chissà quali peccati”.

Perché fai questa considerazione?
“Perché Carlo, tecnicamente bravissimo allenatore, ma abituato a trattare coi maschi non cambia né metodo, né soprattutto approccio e in quella stagione le ragazze che resistono si trasformano in una sorta di plotone di “marines”: dure e incazzose vere. In seguito, parliamo sempre di categorie giovanili, passiamo alle più amorevoli cure di coach Alberto Soldati, impeccabile lord che ci allenava con un loden di lana morbidissima e coach Stefano Cespa. 
Ho ricordi terribili dell’annata in categoria cadette perchè finiamo nelle mani di una preparatrice atletica – meglio sorvolare sul nome – che usando metodi da caserma punitiva ci spacca tutte mandando metà squadra in infermeria con  problemi muscolari, ossei e tendinei. Intanto, con numeri in discesa finisce l’esperimento Pallacanestro Varese Femminile così ci trasferiamo in blocco prima a Cantello, poi a Gavirate disputando campionati bellissimi con coach Lorenzo Colombo, subito ribattezzato “Don Lorenzo”, per la sua capacità di imitare ironicamente il comportamento e le movenze dei preti. Leggendarie le sue preghiere in spogliatoio prima della partita: “Preghiamo perchè oggi le tue mani non sudino e tu riesca a tenere in mano un pallone. Preghiamo perchè oggi tu possa fare canestro e non il solito spregevole 1 su 12 al tiro. Preghiamo perchè oggi il tuo stomaco sia così forte da non farti vomitare tra un tempo e l’altro. Tutti insieme preghiamo!”.
Facezie del genere, ovviamente divertenti e distensive, valevano più di qualsiasi discorso tecnico-tattico anche perchè noi  viviamo in bilico tra atteggiamenti bambineschi – interminabili gare di rutti in spogliatoio rendono l’idea? -, e gli slanci tipici da giovani donne in formazione permanente. Sono gli anni in cui abbiamo quasi tutte il motorino e con una sella sotto il sedere assaporiamo i primi spicchi di libertà. Gli allenamenti alla palestra di Valle Olona, soprattutto in pieno inverno, rappresentano un viaggio avventuroso. In più, per sentirci e tirarcela da “grandi” dopo le partite facciamo serata al “Golden Egg”. Sono gli anni, davvero bellissimi, in cui si gioca per il gusto di farlo, stare in compagnia di altre ragazze animate dalla tua stessa passione e di imparare i segreti del basket”.

L’ippica invece si concilia?
“Faticosamente, si concilia. Infatti, arrivando direttamente dal maneggio “Don” Lorenzo e le mie compagne mi obbligano a fare la doccia “prima” dell’allenamento visto che nessuno del gruppo-squadra vuole stare vicino e tantomeno difendere contro una che puzza di cavallo come un mandriano della Maremma Toscana”. 

Risultati? Partite? Momenti da ricordare?
“Non ne ho o, quantomeno, non ne ricordo di particolarmente elevati anche perché, diciamola tutta la verità, non è che a basket fossi proprio ‘sto fenomeno da stropicciarsi gli occhi. Ero bravina, una playmaker ordinata, grintosa, con buona comprensione del gioco e del ritmo, sempre pronta a fare un passaggio in più a favore delle mie compagne, a difendere anche per quelle un po’ pigre”.

Una giocatrice “alla Luciano Ligabue”: di quelle che “giocano generose sempre lì”.
“Proprio così: credo infatti che la maggior parte delle mie compagne mi apprezzassero proprio per questi motivi. Ma, tecnicamente, nulla più di questo. Inoltre, quando arriva in squadra la “Fede”, al secolo Federica Martarelli, coach Colombo va spedito su di lei scegliendola come sua playmaker del cuore. Così, a 16 anni, per giocare mi tocca cambiare ruolo e trasformarmi in una guardia. Metamorfosi che peraltro, e in maniera inaspettata, funziona pure. Martarelli diventa la mia personalissima John Stockton. Lei mi passa bene la palla e io dalla mia piastrella faccio spesso canestro. Però, oggettivamente, riconosco che quelle brave, brave vere intendo, sono altre. La “Vale”, per esempio, ovvero Valentina Girardin. Lei sì che gira al doppio della mia velocità e del mio talento, tant’è che a un provino per la Comense prendono subito lei, mentre io sono scartata senza pietà. Ma è normale che fosse così”.

Beh, saranno capitate pure a te situazione di epico agonismo, o no?
“Il “Trofeo “Una lacrima sul viso- Coppa Bobby Solo”, vale come situazione epica? – chiede Anna in tono fintamente ingenuo”.

Dipende. Prima, racconta e spiega.
“Al termine di una settimana di Camp di basket estivo vinco, da dominatrice incontrastata, il Trofeo e la Coppa con la seguente motivazione: per aver pianto tutti i giorni, ben sette, urlando tra le lacrime: “Voglio la mamma! Voglio tornare a casa!”. Comunque, archiviati questi episodi di maltrattamento dei minori, direi che nella narrazione, certamente epica, ma ben poco agonistica, rientra l’anno in cui la bravissima Giovanna Cuccuru prima ci riunisce tutte in spogliatoio, poi ci insegna la Lambada. Il tutto per la disperazione di coach Carlo Rossi che, poveretto, va giù di testa perché i movimenti degli schemi non ci entrano in testa nemmeno a martellate, mentre dopo una decina di minuti eseguiamo la Lambada meglio di ballerine caraibiche. Nella memoria conservo alcuni canestri segnati in momenti importanti e soprattutto il senso di eroismo che mi coglie dopo un paio di infortuni piuttosto seri e papà mi mette a disposizione le cure migliori possibili: il dottor Mario Carletti col suo staff e il numero 1 dei massofisioterapisti, quella persona meravigliosa che è Sandro Galleani”.

Poi, che succede?
“Succede che la mia folgorante e splendida carriera finisce con l’arrivo in panca di coach Luca Vittori in una stagione drammatica in cui non funziona nulla, al termine della quale, di fatto, smettiamo quasi tutte. Alla fine di quel campionato disastroso sono ormai alle soglie dei 18 anni e raccogliendo tutto il coraggio possibile convoco il “Consiglio di famiglia Bulgheroni” e annuncio solennemente: “Caro papà, tra poche settimane compio 18 anni e potendo decidere del mio futuro ti comunico che ho ufficialmente deciso di smettere di giocare a pallacanestro. Del mio cartellino, se vuoi, puoi farne coriandoli!”.
Detto questo non concedo a Toto nemmeno il tempo di replicare e come nella pubblicità del famoso shampoo esco di corsa dalla sala da pranzo: finalmente “Libera e bella”. Non puoi immaginare quale peso mi sia tolta in quel giorno a suo modo “storico””.

Però, dopo quel giorno la “storia” cambia di colpo. Cosa dice? Cosa racconta di nuovo?
“Dice che la pallacanestro, almeno quella giocata, esce dalla mia vita che invece, sportivamente, prosegue con l’equitazione e i miei adorati cavalli. Partecipo a diversi concorsi – Piazza di Siena, il più importante e prestigioso al mondo, vale davvero un bel po’ -, e per anni mi divido tra studio e maneggio. Il basket invece è argomento ovviamente sempre presentissimo in famiglia perché oltre alla Pallacanestro Varese adesso “bisogna” seguire anche le vicende di Edoardo, che inizia la sua carriera senior al CMB Rho, e Tony, che è aggregato alla prima squadra”.

Insomma: se capisco bene, nonostante la “fuga in tram” (cit.), i tuoi fine settimana sono sempre strapieni di impegni baskettari.
“Ahimè, sì. Il week-end cestistico comincia il sabato sera andando al Molinello di Rho per vedere Edo e prosegue la domenica con la serie A. Quando giochiamo a Masnago in casa nostra aleggia un’atmosfera strana, particolare. Uno strano impasto tra aspettative, speranze, scaramanzie,  ambizioni, scetticismo. Mamma, per esempio, segue la pallacanestro animata da un solo desiderio: vincere per garantirsi una settimana tranquilla. Vive perennemente, e in negativo, il suo personalissimo “Giorno della marmotta”. Scrive le famose “Leggi di Murphy” ben prima che vengano pubblicate in Italia e pur giocando contro l’ultima in classifica, girovaga per casa ammollando a tutti il suo mantra: “Oggi non ce la facciamo. Non possiamo farcela. Loro sono troooopppo più forti di noi. Oggi sento che ci facciamo fregare”. I miei fratelli invece, da espertoni, scommettono tra loro usando un linguaggio a me incomprensibile. Toto invece il più delle volte tira via occupato, o per meglio dire pre-occupato da pensieri probabilmente più gravosi”.

Come si vive in una casa in cui la pallacanestro al altissimo livello è perennemente al centro del soggiorno?
“E’ come essere a teatro: sempre in bilico tra tragedia, dramma, farsa e commedia brillante. La nostra casa, come puoi ben immaginare, è sempre stata, ed è tuttora, frequentata dal “popolo” del basket e dai miei primissimi ricordi di bambina affiorano le sagome, peraltro gigantesche, di tanti personaggi ai quali sono e siamo legati. Primo fra tutti Marino Zanatta che per mio papà è un fratello e per tutti noi è una persona specialissima. Quante straordinarie vacanze abbiamo trascorso in compagnia di Marino, uomo dal cuore enorme, sempre sorridente, disponibile, allegro. Poi, aggiungo, vero “Re” del barbecue. Ricordo con affetto coach Riccardo Sales, Kevin Magee, Corny “Ciccio” Thompson, Charlie Pittman e Frankie “La Rana” Johnson, americani che in quegli anni erano spesso a cena da noi. Un pensiero costante è per Chicco Ravaglia che avrà sempre un posto nel mio cuore e, come io padre, ho grande considerazione per i suoi  “figli” varesini: Stefano Rusconi, Andrea Meneghin, Gianmarco Pozzecco che, in fondo, da giocatore è cresciuto qui a Varese.
Tra i giocatori italiani cito ovviamente Meo Sacchetti e sua moglie Olimpia e tutti i ragazzi del periodo d’oro della DiVarese in compagnia dei quali ci si divertiva davvero un bel po’. Salto invece a piedi pari giocatori come Wes Matthews e Reggie Theus, il cui ricordo ci manda ancora in ansia e cito più che volentieri Komazec, ragazzo di straordinaria sensibilità e gentilezza. Devo anche dire che quei figli di buona donna dei suoi compagni un po’ si approfittavano della bontà d’animo di Arjian. Per esempio ricordo la sua prima cena di Natale da noi in cui, su “consiglio” di Pozz&Menego, Komazec e la moglie si presentarono in smoking e luccicante abito da sera, mentre il resto della squadra era “conciata” come al solito: pantalonacci hip-hop, felpe e così via. Komazec e consorte in evidente imbarazzo, ma bastò dir loro che erano i più eleganti e più belli della festa per rasserenarli”.

Eccoci a “Anna e i suoi fratelli”: com’è la sceneggiatura cestistica?
“Edo a Rho trova la sua dimensione tecnica e umana e dal mio punto di vista un senso di liberazione nell’uscire dalla sfera varesina. Ho visto e ammirato Edoardo col CMB Rho e nel vederlo giocare ricordo soprattutto un ragazzo sereno e “compiuto”. Tony invece ai miei occhi è stato un vero “Roosters” per il suo animo combattivo, tenace, pure duro e cattivo quando serviva e sempre, sempre orgoglioso.  Tecnicamente, passami il paragone, l’ho sempre definito un “Pozzecco imbrigliato”, ovvero un giocatore in possesso di estro, creatività, fantasia ma, purtroppo per lui, frenato nella sua espressione più vera dal nostro cognome. Per essere ancora più chiari e “tranchant”: se ti chiami Pozzecco puoi esplodere, fare le sceneggiate, farti i capelli rossi, tirare la palla in tribuna e saltare sulla balaustra. Se ti chiami Bulgheroni no, certi comportamenti poco dignitosi è meglio evitarli. Però, conoscendo mio fratello so che un pizzico di sana follia “pozzecchiana” scorreva nelle sue vene. Non a caso Tony e Poz sono grandi amici. Amici di pelle e di “odore”, come quei cani che dopo essersi annusati si piacciono immediatamente. Ti racconto questa: Pozzecco arriva a Varese nell’estate del 1994 e in attesa di trovare un appartamento, abita a casa per un paio di settimane. Io, ragazzina di 17 anni, li osservo da lontano e in quei due “hooligans” scatenati intravedo una potenzialità pazzesca nel combinare casini e fare disastri con Tony che al fianco di una “guida spirituale” come Gianmarco trova terreno fertile per alzare anche il suo livello di “scemenza””.

Pozzecco, Menego, Galanda, De Pol, Santiago, Vescovi, Giadini, Bianchi, Recalcati. In una parola, scudetto.
“La “Stella” è prima di tutto la festa dei miei fratelli. Una festa esibita, travolgente, piena di passione e di una incontenibile felicità volutamente mostrata a tutta la città. Tutto il contrario dei comportamenti di Toto che vive la vittoria di quel clamoroso scudetto in modo molto intimo, personale, quasi raccolto. Una felicità che, è storia, pochi mesi dopo lo scudetto, era il dicembre del 1999, si spegne all’improvviso su quel terrificante coro “Bulgheroni, Bulgheroni vaffanculo!”. In quel momento, tanto triste quanto deludente, ho capito due cose. Prima: l’ingratitudine umana è sorprendentemente senza confini. Seconda: era arrivato il momento di passare la mano. Un momento che, però, mio papà ha vissuto come se gli avessero strappato il cuore”.

Oggi, invece?
“Vedo che il fuoco della passione per la pallacanestro continua divorare mio papà. Giorno dopo giorno tocco con mano il grandissimo, infinito amore che Toto nutre per questo sport, per i suoi riti, per le persone che ci stanno dentro. Anche se ormai grande parte di queste non sono quelle con cui lui è cresciuto.
Tuttavia, proprio per questi sentimenti, va da sè purissimi, che Toto ancora riversa in questo “maledetto benedetto basket”, spero che l’ambiente sia in grado di offrirgli almeno il rispetto che merita e che, in fondo, gli sarebbe anche dovuto. Spero, insomma, che almeno venga trattato bene, con affetto. Anche se non ci credo molto perchè la pallacanestro oggi è cambiata tanto, troppo e in peggio allontanandosi dall’idea romantica e nobilissima che ne ha, ancora, mio papà”.

La tua vita che so essere ormai lontanissima dal basket come “funziona”?
“Funziona che dopo essermi laureata in Economia Aziendale entro, direi quasi naturalmente e ovviamente, in Lindt e vi resto per sette anni facendo, sul serio, la gavetta. Nel mio lavoro – sviluppo delle risorse umane -, sono brava e preparata, ma siccome anche in Lindt il cognome Bulgheroni è “abbastanza pesante”, sfidando l’incazzatura feroce di mio padre mi dimetto e vado a lavorare per AB Inbev, il più grande gruppo birrario al mondo. In Inbev nessuno sa chi sono e il mio cognome è alla stregua di Rossi, Bianchi, Colombo e così via. Da perfetta sconosciuta, forte solo del mio curriculum e della mia preparazione faccio una carriera folgorante e nel giro di pochi anni mi nominano capo della filiale spagnola. Con l’orgoglio di essere unica donna ad occupare una posizione di vertice nell’organigramma di una società brasilo-belga di maschilisti fatti e finiti. Dopo tre anni in Germania e uno in Spagna, mollo AB Inbev nel momento esatto in cui, dopo aver consegnato una lunga relazione, mi accorgo che chi deve prendere delle decisioni forti non ha le “palle” per farlo. Mi trasferisco in Campari col ruolo di Global Marketing Director, viaggio come una trottola sciroppandomi per almeno tre volte il giro del mondo. Resto in Campari quasi quattro anni e mollo tutto quando, anche lì, capisco che due-tre cosette non girano per il verso giusto. Allora, improvvisamente, spalanco gli occhi sulla mia vita e dopo un paio di riflessioni davvero “centrate” decido che “Basta, non ne posso proprio più”. Allora alzo le mani in segno di resa, faccio “ciaone” a tutti e dopo una ventina d’anni trascorsi in un mondo troppo competitivo, ma nel modo sbagliato, mollo tutto. Mollo carriera, viaggi di lavoro allucinanti che durano anche tre-quattro settimane, intere giornate buttate via in “meeting aziendali” vuoti e senza più senso, miglia aeree “mangiate” come fossero caramelle, cene solitarie e notti trascorse in alberghi tutti uguali e tante sciocchezze del genere”.

Molli tutto e…?
“E decido, finalmente, era ora, di fare solo quello che ho in testa e mi piace per davvero”.

Cioè?  
“Da qualche anno ho cambiato completamente vita. Prima di tutto mi sono trasferita a Courmayeur insieme a Marco, il mio compagno. Abbiamo un ristorante sushi che si chiama “Sushi Ball” che sta aperto circa dieci mesi all’anno e, non ancora contenti, abbiamo aperto un’agenzia viaggi on-line. Poi, giusto per mettere a frutto una brillante carriera lavorativa insegno all’Università IULM di Milano. Quindi, adesso, eccomi qui: alle prese con giornate sempre pienissime, ma certamente più serene e volute, anzichè subite. Eccomi a Courmayeur con i miei cani, con lo sci d’inverno e infinite passeggiate nei boschi nelle altre stagioni, con la mia attività di “florovivaista eroica” che a 1500 metri di altezza nonostante condizioni atmosferiche speso infami si ostina a coltivare fiori e fare l’orto. Insomma, anche lì: testarda, caparbia, umile, riservata, da sempre libera nello spirito e, da qualche tempo, anche nella vita quotidiana”.

E la pallacanestro? Val d’Aosta ce n’è poca, credo.
“Non ce n’è e, posso dirlo, non mi manca. Dopo una ventina d’anni d’assenza sono tornata al palazzetto in occasione della partita contro Tortona, ma solo perchè avevamo ospiti un paio di miei amici tortonesi. Per il resto la “mia” pallacanestro è ancora quella fatta di emozione e disperazione. In bilico tra desiderio e obbligo. Tra amore e, si sarà capito, dovere di famiglia. 
In tutto ciò è comunque bello, quando capita, rovistare tra le mille esperienza cestistiche e i momenti unici, certamente irripetibili che ho avuto la fortuna di vivere. Nondimeno, e per questo devo rendere atto e onore a mio padre, il privilegio di aver conosciuto grazie al mondo della pallacanestro alcune persone davvero bellissime che mi hanno reso una donna migliore. E, credimi, non è poco”.

Massimo Turconi

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