Carisma, passione, consapevolezza: scegliamo queste tre parole per riassumere l’indole e il temperamento, dentro e fuori dal campo, dell’argentino Maxi Pescara. L’anno che stiamo per lasciarci alle spalle è stato, calcisticamente parlando, una montagna russa di emozioni per l’esperto centrale di difesa, che nel mese di maggio festeggiava una sudata e meritata salvezza con il suo Gavirate.

L’attuale stagione, iniziata con il giusto carico di aspettative, ha poi riservato qualche difficoltà in più del previsto, fino all’improvvisa, e per molti impensata, separazione da quei colori indossati con orgoglio per due anni e mezzo. Parallelamente, sui lontani campi del Qatar, la Selección albiceleste regalava a un’intera nazione una gioia difficile da descrivere, come lo stesso Maxi ci racconta in quest’intervista a tutto tondo. Dalla sua amicizia con Mac Allister ai progetti per l’immediato futuro, sono tanti i temi toccati con il classe ’91, che guarda con riconoscenza al periodo trascorso in rossoblù ed è pronto a tornare in Italia per un girone di ritorno da protagonista.

Dopo tre stagioni, lasci quella che è stata la tua casa rossoblù. Come si è arrivati a questo addio? E cosa ti mancherà più di tutto?
“Innanzitutto, lasciare Gavirate non era nei miei programmi, perché non mi piace cambiare in questo modo. Detto ciò, il calcio non è uno sport individuale, ma di squadra, dove tutti sono utili per la causa, e non avevo gradito certe situazioni che si erano create. Prima che finisse il girone di andata, mi avevano chiamato alcune squadre in zona playoff e la mia idea era di restare a Gavirate, purché si volesse fare un girone di ritorno importante e intervenire dove era necessario. Il detonante di tutto, però, è stato un episodio che mi ha lasciato amareggiato e per il quale non ho potuto prendere parte al derby dell’ultima giornata contro il Verbano. E così ho preso la mia decisione. Sicuramente mi mancheranno tantissimo i miei amici Rosa ed Enzo, che gestiscono il bar del centro sportivo, l’addetto alla manutenzione Moustafa, il papà del direttore, Franco Fumagalli, il responsabile dei campi Roberto Tognali, il collaboratore Daniele Faroni e ovviamente tutti i miei compagni. Avevamo creato un bellissimo gruppo in cui loro mi consideravano il capitano e io a mia volta sentivo di avere questa responsabilità. Tutti sapevano che per loro ero disposto a tutto e che avrei voluto accompagnarli verso qualcosa di grande, come la possibilità di lottare per salire di categoria. Quando sono andato via, li ho ringraziati uno ad uno, sapendo bene che essere mio compagno non è semplice dato che sono una persona esigente che chiede sempre a se stesso e agli altri di dare il cento per cento anche nell’esercizio più banale. Alla fine, però, mi ringraziavano per questo mio modo di fare, quindi so di averli aiutati a migliorare”.

Ripercorriamo questa prima parte di stagione al Gavirate, conclusasi con un piazzamento che non rispecchia le individualità del gruppo. Secondo te, cosa non è andato nel verso giusto?
“Quest’anno c’erano delle aspettative importanti, soprattutto perché a mio parere eravamo la squadra che più di tutti giocava un calcio fantasioso; di questo, il merito assoluto va al mister, che ci dava tutti gli strumenti necessari per esprimerci a un livello molto alto e fare cose di cui nessun’altra squadra in questa categoria sarebbe capace. Segnavamo gol mai visti su altri campi, ma poi perdevamo tanti punti per dei piccoli dettagli. Avremmo dovuto essere un po’ più furbi e invece, giocando ogni domenica con degli interpreti diversi, abbiamo faticato a trovare continuità. Spesso mi sono trovato in campo con tanti ragazzi giovani; è vero che davano l’anima, ma in certi momenti della stagione c’è bisogno di esperienza. Noi, invece, abbiamo avuto la sfortuna di perdere per infortunio Roveda, e per un certo periodo anche Menegon, e così siamo entrati in un tunnel da cui è stato difficile uscire. Ricordo benissimo il trittico deleterio di partite: prima contro l’Oltrepò a Gavirate, in cui abbiamo preso gol da Pedrabissi all’ottantesimo minuto dopo aver sempre tenuto in mano il gioco; il mercoledì, a Vergiate, eravamo in vantaggio con un uomo in meno, ma all’ultimo ci è stato fischiato contro un rigore inesistente e abbiamo perso due punti; la domenica, vincevamo 1-0 a Pavia, poi loro hanno pareggiato per un errore mio e allo scadere abbiamo preso il secondo gol, buttando via altri tre punti. Questi tre risultati in una settimana ci hanno ucciso psicologicamente, facendoci perdere le nostre certezze. Non è stato semplice cambiare l’umore nello spogliatoio e tirar su di morale i giocatori più giovani, ma alla fine c’è stato un grande miglioramento, perché secondo me a Pontelambro abbiamo fatto una partita da squadra di alta classifica e ancora oggi non riesco a capire come abbiamo potuto perdere 3-2 dopo essere andati in vantaggio per 2-0. Il calcio, però, è anche questo e penso che senza quella sconfitta sarebbe stata tutta un’altra storia, così come sono convito che il derby col Verbano, con me e Selpa, sarebbe potuto andare diversamente. Avevamo il potenziale per trovarci a metà classifica, con gli occhi puntati verso l’alto, ma abbiamo subito troppe sconfitte nei minuti finali. Quando succedono queste cose, bisogna sempre capire il perché, e so per certo che non si è trattato di un problema fisico, perché avendo giocato per tanti anni nel professionismo posso dire che Valerio Povia è il miglior preparatore atletico della categoria. Sicuramente l’attenzione, i cambi e tanti altri fattori hanno influito sul gioco e sui risultati”.

Dove ti vedremo nel girone di ritorno? E come affronterai la tua nuova avventura?
“Prima di tutto, ho dovuto fare un allenamento più mentale che fisico, proprio per assimilare quanto successo. Ma dopotutto, bisogna sempre prendere atto di ogni situazione e andare avanti, amando ciò che si fa, perché il calcio ripaga sempre e restituisce tutto quello che gli dai. Ora sono in Argentina e mi sto allenando duramente con il mio preparatore, quindi sono sicuro che tornerò più forte di prima per fare un gran girone di ritorno, che per me è il vero e proprio campionato. Se il girone di andata serve per capire cosa vuole e può fare una squadra, è da gennaio in poi che ci si gioca tutto. Al momento non ho ancora una destinazione certa: ho ricevuto diverse proposte da altre squadre dell’Eccellenza lombarda e piemontese e anche dalla Serie D, sto ancora valutando e a breve prenderò una decisione, ma quel che è certo è che sarò pronto sia psicologicamente che fisicamente”.

Lasciamo momentaneamente l’Eccellenza e parliamo di Selección. Il 18 dicembre è una data che resterà per sempre nel cuore degli argentini. Si può descrivere a parole il sentimento di una nazione in festa?
“Come ho detto ai miei compagni, e come dice anche la canzone, no te lo puedo explicar porque no vas a entender. Non posso spiegarlo a parole, perché se non si è di qua, è difficile capire. Posso solo dire che arrivare in Argentina in tempo per guardare la finale con la mia famiglia e i miei amici è stata un’emozione che non dimenticherò mai. Siamo una nazione che soffre e ha sofferto, e posso dire con certezza che c’è gente che ha venduto tutto per andare in Qatar a vedere la partita, gente a cui una vittoria fa dimenticare tutti i problemi. Ho visto un’Argentina unita, che urlava per la stessa causa, e come ho sempre saputo e detto – e con tutto il rispetto per tutti i Paesi che mi hanno accolto e dato la possibilità di crescere – siamo la nazione più bella del mondo, perché quando siamo uniti, siamo imbattibili. Dopo la sconfitta con l’Arabia, il nostro capitano ci ha chiesto di fidarci di questo gruppo; noi l’abbiamo fatto e loro ci hanno regalato questa gioia che non avrà fine. Ho visto piangere bambini di tre anni, signore di ottant’anni, gente per strada… Questa vittoria è per tutti, perché siamo tutti campioni del mondo. Se ci pensiamo, dopotutto, non è una coincidenza che al tavolino dei migliori giocatori di tutta la storia, che sono Maradona, Di Stefano, Pelé, Cruijff e Messi, siedano tre argentini. In questa terra viviamo e amiamo il calcio e poter festeggiare qui questa vittoria è stato il regalo di Natale più bello della mia vita”.

Qual è stato, secondo te, il fattore che più di tutti ha permesso all’Argentina di raggiungere la vetta del mondo?
“L’Argentina ha avuto la determinazione di un gruppo che era disposto a morire o addirittura farsi uccidere per il suo capitano. Messi sapeva che era il suo ultimo mondiale, la sua ultima possibilità, e penso che il resto fosse già scritto. Oltre alla voglia di vincere e di essere campione del mondo, questa squadra ha avuto uno staff tecnico molto competente che ha preparato ogni partita in modo impeccabile, sfruttando ogni punto debole degli avversari e trasmettendo ai giocatori tutto quello che il popolo argentino ha sempre trasmesso loro. Hanno sopportato tutto, si sono rialzati dopo ogni caduta e soprattutto hanno avuto fede, anche quando le cose non andavano come ci si aspettava, e quando una persona crede in se stessa, diventa invincibile. Questi ragazzi non hanno lasciato nulla nelle mani di nessuno; al contrario, avevano un sogno e sono andati a prenderselo, giocando un calcio di altissimo livello. In particolare, per noi di La Pampa, è stato un orgoglio vedere Alexis Mac Allister diventare campione e tornare qui per alzare la Coppa davanti a tutta la sua gente. Solo sei mesi fa ci allenavamo insieme nel centro sportivo di suo papà, che è stato il mio procuratore per anni. Poi è cambiato tutto in un attimo: Lo Celso si è infortunato e lui è stato convocato al mondiale, diventando il giocatore più importante della finale. Quello che è successo ha dell’incredibile e sono davvero felice per lui e la sua famiglia, tra cui suo zio Patricio e suo cugino, uno dei miei migliori amici, che ha vissuto l’intero mondiale con lui in Qatar: dopo la vittoria, è entrato in campo e ha fatto foto con tutti, e per noi è stato straordinario vivere questo momento magico attraverso i suoi occhi”.

Calcisticamente, qual è il tuo bilancio del 2022? E cosa ti aspetti o prefiggi dal 2023?
“Il bilancio è sicuramente positivo e devo ringraziare Dio per avermi permesso di essere sempre a disposizione. Sono una persona che cerca sempre di guardare il bicchiere mezzo pieno, quindi devo dire che ho imparato tanto grazie a mister Caon, che mi ha dato la possibilità di giocare un tipo di calcio che mi piace. Nella prima parte dell’anno, il risultato collettivo non era sempre quello che meritavamo, ma con il gioco espresso e la nostra determinazione alla fine abbiamo raggiunto l’obiettivo di salvarci. Negli ultimi sei mesi, abbiamo raccolto ancora meno di quello che seminavamo e sono convinto che se fossi rimasto avremmo potuto fare un girone di ritorno importante. Ma va bene così; dopotutto, non si può mai sapere cosa ci riserva la vita e l’unica cosa che possiamo fare è accettare la volontà di Dio. Quanto al 2023, mi auguro di sentirmi sempre bene. Penso che quello che più conta sia prepararsi tanto per una vittoria quanto per una sconfitta e restare sempre la stessa persona, indipendentemente da ciò che si riesce a raggiungere”.

Silvia Alabardi

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