Insegnare ed educare, due termini che spesso vanno a braccetto e che sono la base fondante delle attività del BasketBall Gallarate.

Insegnare, la pallacanestro come lo stare insieme, il rispetto delle regole, dell’avversario, dei ruoli, di tante cose. Educare, perché senza educazione non esiste base per poter insegnare proprio nulla di come vivere in palestra e al di fuori di essa.

Un lavoro che ovviamente fa capo all’allenatore, sempre più educatore che mero tecnico. Di questo e di come si fa attività al BBG ne abbiamo parlato con coach Francesco “Chicco” Riva, allenatore degli U19 e della squadra U17 Silver biancoblu, che ci spiega cosa significhi relazionarsi con ragazzi in età adolescenziale, sia in campo che fuori.

Cosa significa per lei allenare in BBG?
“Parto dal presupposto che io ho solo lavorato qui come allenatore ma ho conosciuto tantissime altre realtà come giocatore. Qui c’è una grandissima attenzione sullo sviluppo e la crescita dei ragazzi, circoscritta non solo alla pallacanestro in campo ma anche al di fuori. Capita che ci siano ragazzi con problematiche relazionali, al di là del fatto che uno possa diventare un giocatore o meno e da questo punto di vista il livello di attenzione che noi diamo ai nostri atleti lo vedo davvero poco altrove. Si dà tanta attenzione a tutti, sia a chi ha più prospettive cestistiche che meno. E’ importante che tutti i ragazzi possano crescere non solo come giocatori ma anche come veri e propri uomini, indipendentemente dal loro mero talento individuale. Prima le persone, poi i giocatori”.

Lei si rapporta con una fascia d’età davvero critica, quella dei 18 anni, con ragazzi che stanno facendo il grande salto. Come ci si relaziona con ragazzi che spesso possono avere la testa la di fuori di quello che è l’impegno sportivo?
“La ricetta secondo me è solo una con i ragazzi dai 15 anni in su, ovvero l’attenzione. Ogni ragazzo ha bisogno di avere un’attenzione individualizzata. Non tutti sono uguali, ognuno è un mondo diverso. La cosa più complicata per noi è capirli e cercare di dargli l’attenzione che meritano in quel determinato momento della loro vita. Non si può bollare come scansafatiche un ragazzo che per un mese o due si allena sotto le sue possibilità perché magari in quel momento ha una problematica al di fuori del basket. Vanno compresi e gli va data una grande attenzione, tutto questo però nel pieno rispetto reciproco del coach e dei compagni, perché noi viviamo in un contesto di squadra. E’ fondamentale che i ragazzi sappiano stare all’interno delle regole di comunità che ci sono in squadra. Io penso che se ai ragazzi dai molto, ricevi molto”.

Ha parlato di rispetto delle regole, in un periodo storico in cui si sente sempre più parlare di sovversione da parte dei giovani. Lei riscontra questa difficoltà nel far rispettare le regole?
“Secondo me, rispetto a vent’anni fa, c’è meno spirito di comunità ma molto più individualismo. Viviamo in una società fortemente individualista ed i ragazzi questo lo sentono in maniera forte. I due anni di pandemia non hanno aiutato da questo punto di vista e l’individualismo a livello di approccio alla vita di squadra, lo si vede molto. Il fatto di renderli partecipi di un gruppo, fargli capire che l’unione fa la forza, è la migliore medicina per superare questo. Non dobbiamo vivere come un alibi che ci sia questo individualismo, dobbiamo lavorarci per abbattere questo muro”.

Si sente più un allenatore-educatore o un allenatore-psicologo?
“Rispetto a quello che ti dicevo prima, secondo me le due cose vanno molto a braccetto. Bisogna avere degli strumenti per gestire dei ragazzi giovani e spesso un allenatore che inizia la strada per allenare, queste qualità non le ha. Bisogna continuare ad adeguarsi ai tempi che passano. Il lavoro psicologico è molto complicato, ma chi lavora nello sport, a scuola, in oratorio, dove volete, fa psicologia”.

Avvicinandoci alla dimensione più cestistica della nostra chiacchierata, è vero che i ragazzi più grandi credono sempre meno di poter diventare campioni affermati?
“Questo è un problema complesso che però ha una ragione di fondo. Secondo me i ragazzi vivono con il mito di diventare dei grandissimi campioni ed è giusto così, però bisogna essere realisti e sapere che in Serie A ci va a giocare uno su un milione. Io vedevo l’arrivare a giocare in Serie B come un grande traguardo, mentre oggi per i ragazzi giocare in B o in C non è un grande risultato ed invece è sbagliato. Da noi abbiamo proprio un esempio lampante di ragazzi che coniugano passione per il basket e fatiche della vita quotidiana, giocando a livello nazionale un campionato come la Serie B tutt’altro che facile o di basso livello. Oggi i ragazzi hanno forse sempre meno passione. Non guardano tante partite ad esempio, perché non hanno pazienza di appassionarsi a questo sport. Dobbiamo portarli ad innamorarsi della pallacanestro”.

Passione per questo sport che passa dal lavoro quotidiano sul campo. Lei che tipo di allenatore è? Più incentrato su tecnica e tattica o più su un lato quasi mentale di gioco dei ragazzi?
“Io sono dell’idea che ci siano degli step di crescita che ogni giocatore deve fare, pur senza dover seguire per forza lo stesso percorso. C’è chi arriva più pronto su un fondamentale rispetto ad altri, chi acquisisce competenze tecniche più velocemente, chi meno, chi ha più talento, chi meno, però ognuno va aiutato. Io penso che senza fondamentali tecnici non puoi fare tattica. Il lavoro sui fondamentali penso sia importantissimo. Secondo me non tutti i giocatori sono portati per andare in campo e fare 30 punti. C’è chi ha il dono e chi meno, ma non per questo va escluso, anzi. In BBG pensiamo che ogni giocatore debba trovare il proprio ruolo e diventare fondamentale in quella dimensione per la squadra. In un mondo fatto sempre più di specialisti, chi come giocatore si allontana da questa definizione diventa fondamentale per tutta la squadra”.

Alessandro Burin

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