Scriveva nel suo Aleph il famoso scrittore brasiliano Paulo Coelho: “Vivere è allenarsi. Allenandoci, ci prepariamo per affrontare tutto quello da cui siamo attesi. A quel punto, la vita e la morte perdono ogni significato: esistono solo le sfide che accogliamo con gioia e superiamo con serenità”.
Una citazione che ci fa pensare al potere dello sport come esercizio non solo per il corpo ma anche per l’anima, come opportunità di costante miglioramento, come spazio in cui rinascere e dare piena e libera espressione alle proprie passioni.

Oggi vogliamo condividere la storia di quello che lo stesso Coelho definirebbe un “Guerriero”: classe 1998 proveniente da Albusciago, Gabriele Alzati si sta preparando per il suo secondo mondiale con la Nazionale Italiana Pallavolo trapiantati e dializzati, che il 17 aprile scenderà in campo a Perth, nella West Coast in Australia. Dal suo primo mondiale, tenutosi a Newcastle nel 2019, era già tornato a casa con una medaglia d’oro al petto, neanche due anni dopo il trapianto di midollo osseo a cui si era dovuto sottoporre a causa della leucemia. L’anno scorso, invece, primo posto agli Europei a Oxford. Pallavolista, arbitro FIPAV e ambasciatore ADMO (Associazione Donatori di Midollo Osseo), Gabriele ci racconta le sfide affrontate e superate lungo il suo percorso, avanzando a passo sicuro, senza mai perdere la convinzione di poter vincere la partita più importante di tutte, contro un avversario infido e non avvezzo alle regole del fair play.

La malattia ti ha cambiato la vita, ma tu l’hai affrontata come una possibilità di rimetterti in gioco. Come hai vissuto quel periodo?
“Mi sono ammalato nel 2017 e ho ricevuto la diagnosi il 2 luglio, nel periodo degli esami di maturità. A pallavolo era il mio ultimo anno di U19; avevo già giocato in Serie C e per la stagione successiva ci sarebbe stata la possibilità di passare per un anno in B a Malnate, ma proprio quell’estate mi è stato detto che avrei avuto bisogno di un trapianto di midollo osseo e così tutto è cambiato. I miei fratelli, entrambi tipizzati, non erano compatibili al 100%, quindi sono iniziate le ricerche nel registro dei donatori finché non è stata trovata una ragazza americana, della California, che aveva una compatibilità completa con il mio midollo osseo. Sono stato operato il 16 novembre, ma purtroppo dopo il trapianto il mio percorso si è discostato dal protocollo di cura standard. Teoricamente, in tre o quattro mesi avrei dovuto riprendere in mano la mia vita, in modo più o meno normale, e invece sono sorti dei problemi di rigetto (più tecnicamente, GVHD) che hanno fatto precipitare la situazione. Il recupero, così, è diventato di sette mesi e mezzo, durante i quali mi hanno sottoposto a varie cure sperimentali, dato che quelle standard non facevano più effetto sul mio corpo. Ci sono stati dei momenti difficili e ho anche rischiato di non farcela, ma in quel periodo la pallavolo è stata la mia ancora di salvezza”.

In che modo questa tua passione e il tuo carattere ti hanno aiutato?
“Sono convinto che oltre alle medicine, contino molto anche la mentalità e la voglia di sconfiggere la malattia. Tanti non riuscivano a reggere questo peso e appena mollavano di testa, nel giro di tre o quattro giorni le loro stanze si svuotavano. È così che ho perso otto miei compagni di percorso. La pallavolo mi ha aiutato molto perché mi offriva una prospettiva futura. Già prima del trapianto, avevo deciso che sarei tornato in campo, che avrei giocato in nazionale e che avrei vinto il mondiale. Riuscirci al primo tentativo è stato bellissimo, anche se forse è successo tutto fin troppo in fretta. La strada fino a lì, comunque, era stata piuttosto lunga. Avevo perso venti chili e avevo dovuto rimparare a camminare e a mangiare. Per riprendere a giocare, ho dovuto prima recuperare la fisicità; dopodiché ho ricevuto la prima convocazione e sono arrivati i primi raduni”.

Oltre ad aver iniziato la carriera come arbitro…
“Seguire il corso era un progetto a cui già pensavo prima di ammalarmi, ma che probabilmente non avrei intrapreso subito, trattandosi di un impegno in più. Diciamo che ho approfittato del periodo di cura per togliermi anche questa soddisfazione. La carriera da arbitro ha preso piede sin da subito, persino meglio di quanto speravo, tant’è che due anni fa sono stato promosso dalla Serie C alla Serie B”.

Com’è cambiato il tuo rapporto con lo sport dopo la malattia?
“Purtroppo noi trapiantati di midollo ci portiamo dietro degli strascichi, dovuti principalmente all’alto dosaggio di cortisone che ci è stato somministrato per molto tempo. Dobbiamo convivere con danni alle articolazioni, necrosi dei tessuti ossei e fragilità della cartilagine. Nel mio caso specifico, ciclicamente devo sottopormi a degli interventi a ginocchia, anche e caviglie: per ora ne ho già fatti due, di cui uno prima dell’europeo – che ho anche rischiato di saltare –, e al ritorno dal mondiale dovrò valutare se farne un altro”.

Parlando del Mondiale, cosa ci puoi raccontare su questa competizione? E come vi state preparando?
“I Mondiali si svolgono come manifestazione in stile Olimpiadi, quindi tutte le discipline vengono svolte in vari centri sportivi dislocati nel territorio. Per quanto riguarda la nostra squadra, scenderemo in campo il primo giorno della competizione, lunedì 17 aprile, arrivando a questa competizione da campioni in carica. Nel mio primo Mondiale del 2019, avevamo vinto in finale contro l’Olanda, e anche contro ogni aspettativa, visto che eravamo una rosa praticamente nuova. L’edizione del 2021, in programma in America, era poi saltata per il Covid e al suo posto era stata organizzata una versione multimediale in cui ogni atleta doveva realizzare una staffetta di cinque chilometri a casa. È stato un evento simbolico, in linea con il concetto di base del Mondiale, che non è la vittoria della manifestazione, ma il fatto di celebrare tutte le persone che possono parteciparvi grazie al dono di qualcun altro. Ovvio che all’atto pratico si cerca sempre di vincere, ma l’aspetto più importante è proprio quest’atmosfera di festa per chi ce l’ha fatta. Per quanto riguarda il lavoro di preparazione, la nostra delegazione è coordinata da ANED Sport, l’associazione referente per i giochi mondiali, che si occupa anche di organizzare varie manifestazioni sportive sul territorio durante l’anno. Il mese scorso eravamo stati a Modena, mentre questo weekend ci siamo trovati a Milano per il nostro ultimo raduno prima della partenza. Oltre agli allenamenti, è anche un’occasione per incontrare giovani atleti e sensibilizzarli sulla cultura del dono”.

Come funziona esattamente questo vostro lavoro di sensibilizzazione?
“Parlando nella specifico della pallavolo, in media partecipiamo a un evento ogni mese o mese e mezzo, per cercare di fare gruppo e promuovere l’associazione. Solitamente partiamo per due o tre giorni, in concomitanza con feste del paese, inaugurazioni di palestre, banchetti di solidarietà e via dicendo, per parlare di cos’è un trapianto e di cosa significa avere una seconda opportunità”.

Questo impegno sociale si riflette anche nel tuo ruolo di ambasciatore ADMO. Cosa puoi dirci di questa esperienza? Nello specifico, come si articola il tuo incarico?
“In ADMO sono ambasciatore regionale e referente territoriale per l’area di Varese. Ci rechiamo spesso in scuole e università a raccontare la nostra esperienza, che può essere quella di un ricevente o anche di un donatore. È un momento di testimonianza che ci dà molto riscontro, oltre alla possibilità di iscrivere direttamente gli interessati al registro donatori negli eventi in piazza”.

La tua testimonianza può essere di ispirazione a tanti sportivi e non. Per concludere, vorresti lasciare un messaggio a chi sta affrontando o deve affrontare un percorso simile al tuo?
“Quello che mi sento di dire è che i momenti di difficoltà possono arrivare sempre, in tanti ambiti diversi. Per questo, quando vado a parlare nelle scuole, mi piace esulare dalla tematica del trapianto e lasciare messaggi più generici che possano aiutare gli studenti nelle loro vite. Non deve essere per forza una malattia a farci trovare la forza di reagire; al contrario, qualsiasi cosa capiti, bisogna crederci sempre e avere un obiettivo sempre fisso in testa, perché la mentalità può fare davvero molto”.

Silvia Alabardi

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