Possono una sconfitta cocente e gli infortuni a spegnere il fuoco della passione? Non per Federico Maestrani, centrocampista del Ponte Tresa e protagonista della sfida che ha visto i gialloblù uscire sconfitti dalla finale playoff di Terza Categoria contro l’Angerese.

Il venticinquenne cugliatese è riuscito infatti a recuperare la forma fisica giusto in tempo per aiutare i suoi compagni nelle battute conclusive del torneo, dopo oltre un anno di stop causato dalla rottura del menisco. “È stata un’annata comunque emozionante, seppur vissuta quasi per intero da spettatore – afferma Maestrani ponendo fin da ora i prossimi obiettivi tanto per sé stesso quanto per la sua squadra -. Voglio ristabilirmi completamente, tornare a giocare con continuità e raggiungere finalmente la promozione. La società e i nostri tifosi meritano un riconoscimento che passi dai risultati sul campo”.

Soffermiamoci proprio sulla stagione appena conclusa: ancora una volta sono stati fatali i playoff.
“La delusione è tanta. A sei partite dalla fine del campionato avevamo sette punti di vantaggio sul Gazzada, purtroppo siamo incappati in una serie di prestazioni che ci hanno rallentato fino all’epilogo finale di Angera. Dobbiamo ritrovare la mentalità e le energie per riprovarci perché l’intento è quello di salire di categoria. Il nostro presidente Mario Colabufo è il primo a non voler mollare, persone determinate come lui ne ho viste davvero poche: riesce a trasmettere grande grinta a tutto l’ambiente. Per quanto mi riguarda, vedere i miei compagni da fuori è stato comunque piacevole, cercando di offrire il mio supporto morale e stando loro vicino tanto in allenamento quanto in tribuna e in panchina”.

Il tuo calvario è cominciato lo scorso anno, cos’è successo?
“Durante un allenamento in primavera ho sentito una fitta al ginocchio, ho pensato fosse qualcosa di lieve e ho lasciato perdere. Col passare delle settimane il dolore non cessava e ho deciso quindi di fare una visita approfondita, le lastre però non lasciavano spazio a dubbi: rottura del crociato. Ho iniziato la lunga trafila scandita dalle liste d’attesa per l’intervento, avvenuto poi a novembre, dovendo quindi saltare la semifinale contro il Caesar e l’inizio della stagione successiva. La ripresa dopo diversi mesi a riposo non è stata facile, anche perché è subentrata inevitabilmente una certa dose di paura, oltre che un po’ di rabbia nel non riuscire ad essere presente sul campo per aiutare i miei compagni”.

Possiamo dire che per il Ponte Tresa sei stato un capitano senza fascia?
“Non esageriamo (ride, ndr), ci sono persone meglio preposte di me in quel ruolo. Sono in squadra da quattro anni e sto cercando di ambientarmi al meglio, prendendo esempio da chi ha sposato il progetto fin dal primo giorno. La passione mi ha spinto a volermi spendere nonostante fossi impossibilitato, avevo bisogno di continuare a vivere il gruppo: le risate, le cene post allenamento, la gioia dopo le vittorie”.

La vostra è una società sorta pochi anni fa: come sei arrivato a Ponte? E cosa ti ha spinto ad accettare?
“Quando il Ponte Tresa è nato nel 2019, io avevo appena lasciato la Cuassese. Diversi amici mi avevano parlato di questa nuova squadra, proponendomi più volte di prenderne parte sebbene significasse per me scendere di categoria. Da qualche anno ormai faccio coppia fissa con Andrea Tafuri: dove va lui, mi muovo pure io. Oltre ad essere un buon giocatore è soprattutto un amico, mi sono lasciato convincere dalla sua curiosità di provare questa nuova esperienza. L’obiettivo del presidente Colabufo era quello di creare una squadra autoctona, capace di rappresentare in toto il comune di Ponte Tresa. Missione che definirei compiuta, essendo lui riuscito a creare un club formato da bravi ragazzi provenienti dalle zone limitrofe e generando grande affezione da parte della comunità. I tifosi ci hanno sempre seguito tanto in casa quanto in trasferta, fronteggiando la pioggia, il freddo e il caldo. Questo clima di passione ci ha fatto innamorare della maglia gialloblu”.

Hai citato Andrea Tafuri, tra i candidati al nostro Pallone d’Oro, col quale hai un’amicizia che va oltre il terreno di gioco.
“Assolutamente si, nonostante la differenza d’età ha voluto prendermi sotto la sua ala sia dal punto di vista calcistico che umano. Quando giochiamo l’affinità si riscontra e questo ci induce a voler proseguire le rispettive avventure assieme e al contempo ci porta anche a scontrarci, ma ciò che conta è saper chiarire ogni disguido. Il potere del calcio e dello sport è questo: riuscire a creare legami che vanno oltre all’agonismo, consolidandoli nelle sfide di tutti i giorni”.

Nonostante l’infortunio hai comunque seguito da vicino i tuoi compagni: chi ti ha stupito maggiormente?
“Penso che fossimo la squadra più forte del torneo ma siamo stati limitati dai guai fisici, perciò è difficile fare dei nomi in particolare. Citare senatori quali Nania, Pittella, Tafuri o Tansini può sembrare scontato, ma il loro apporto è stato fondamentale sotto vari aspetti. A sorprendermi è stata sicuramente la linea verde, potrei menzionare Pirrello e De Maria ma i complimenti voglio rivolgerli a tutti i ragazzi più giovani: educati, volenterosi ed essenziali. I meriti vanno attribuiti anche a mister Pellegrino, che lasciando il calcio svizzero ha voluto seguire il cuore accasandosi al Ponte Tresa, portando tutta la sua esperienza e infondendo nella squadra la professionalità che lo contraddistingue”.

Se dovessi convincere qualcuno a sposare la causa del Ponte Tresa, cosa gli diresti?
“Di lasciarsi convincere dalla personalità del presidente Colabufo e dalla passione dei nostri tifosi. La comunità non chiede nulla, se non il rispetto dell’impegno preso con la società, in cambio però può donare un affetto non scontato ma sincero. L’abnegazione che tutto l’ambiente impiega verso la squadra ci spinge a voler dimostrare riconoscenza e attaccamento alla maglia”.

Dario Primerano

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