Bello rivedere dopo undici anni, e in maniera del tutto casuale, Diego Fajardo, ex-giocatore, e che giocatore, della Pallacanestro Varese targata Cimberio.

Fajardo, tanto duro, determinato e talentuoso sul campo, quanto “Gentil Hombre” lontano dal parquet, latore di uno stile e dignità di comportamento e linguaggio che rimandano direttamente ai famosi “hidalgo”, i nobili spagnoli.

A Varese ce lo siamo goduto per due campionati – 2010-2011 e 2011-2012 -, esitato con due viaggi nei playoff con successive eliminazioni nei quarti rispettivamente da parte di Cantù e Siena. Diego, in quelle squadre allenate dal grande coach Carlo Recalcati, ricopriva al meglio il ruolo di collante tecnico, tattico e mentale abile nell’uscire dalla panchina per garantire ciò di cui il gruppo aveva bisogno: difesa e presenza a rimbalzo prima di tutto, poi duttilità e giocate piene di intelligenza ed efficacia in attacco. In poche parole: un giocatore importante e apprezzato per l’esperienza e la qualità prodotta nei minuti trascorsi in campo.

Fajardo, classe 1976, ala grande di 208 cm. Spagnolo nato a Santa Cruz di Tenerife, si trova in Italia in qualità di “tifoso numero 1” dei suoi due figli: i gemelli Aurora e Nicholas, nati nel 2008, che in questi giorni sono impegnati nelle fasi finali dei campionati giovanili.

Diego, dunque, in giro come una trottola per l’Italia. La scorsa settimana a Roseto degli Abruzzi e questa settimana a Busto Arsizio per le Finali Nazionali Under 17 e Under 15 giocate da Aurora, ala piccola che milita nelle Lupe San Martino di Lupari, Padova. La prossima settimana invece sarà la volta di Nicholas, impegnato con i gruppi Under 15 e Under 17 di Basket Bassano, Vicenza.

“Appena possibile, quando gli impegni lavorativi me ne concedono l’opportunità – dice Fajardo -, lascio Tenerife per far visita ai miei figli, trascorrere del tempo con loro e seguirli nei loro percorsi scolastici, ovviamente fondamentali e nell’attività cestistica che, in questi anni, vorrei che fosse indirizzata solo verso il divertimento, la passione, la gioia di praticare uno sport bellissimo e, più di tutto, stare insieme e sentirsi parte di un gruppo di adolescenti che, a mio modestissimo parer, dovrebbe essere accomunati dagli stessi interessi e obiettivi. Per ora, mi sembra che entrambi stiano camminando sulla strada giusta”.

Parlando di “strada”, proviamo a ripercorre quella lunga e ricca di soddisfazioni che riguarda la tua carriera. Solo in Italia parliamo di 15 stagioni con 351 presenze, 3169 punti segnati e quasi 8000 minuti in serie A
“Allora mi tocca cominciare dalla “preistoria” – sorride Dieguito -. Io sono figlio e nipote d’arte perchè sia mio padre Francisco, che oggi ha quasi 80 anni, sia i suoi due fratelli, miei zii, negli anni ’60 sono stati cestisti professionisti nell’Iberostar di Tenerife. Sono dunque cresciuto in un ambiente nel quale lo sport, praticato seriamente, ha sempre avuto un ruolo importante e anch’io dopo una breve carriera giovanile, a 16 anni, da Tenerife mi sono spostato al Forum Valladolid, tappa d’ingresso del mio percorso da professionista con un debutto a 19 anni contro il mitico Real Madrid e la successiva vittoria nella gare delle schiacciate all’All Star Game dell’ACB. Quello però è il periodo dell’entrata in vigore della Bosman applicata alla pallacanestro e in un regime di libera circolazione dei giocatori accetto l’offerta di coach Gaetano Gebbia il quale, dopo avermi visto in azione con la nazionale ai campionati europei Under 22, mi vuole con lui alla Viola Reggio Calabria. La mia prima stagione italiana si chiude con un rendimento in crescita e tutto sommato soddisfacente ma, in verità, non pensavo che la mia avventura italiana potesse avere un seguito. Invece, dopo Reggio Calabria arrivano altre offerte che mi convincono a proseguire la frequentazione nel vostro Paese passando due buone stagioni a Imola, poi Verona e, davvero significativa, l’annata di svolta passata a Cantù con tanti minuti in campo, 31 presenze in quintetto su 32 partite e responsabilità da giocatore “pesante” negli equilibri di squadra”.

Dopo Cantù nel tuo curriculum ci sono Verona, Roseto, un ritorno a Reggio Calabria e soprattutto il triennio a Milano con uno scudetto perso in finalissima contro Fortitudo Bologna, vittoriosa grazie alla famosissima tripla scoccata allo scadere da Ruben Douglas
“Ah, che brutti ricordi mi stai facendo rimbalzare in testa perchè – commenta l’iberico -, arrivare a un passo dallo scudetto e vederselo sfilare dalle mani in quel modo è davvero doloroso. Però, una volta annacquata la delusione, resta la positività per quello che, grazie al lavoro di tutti, abbiamo messo insieme in quei tre anni in cui, gradatamente, il club è passato dal rischio di precipitare in A2 all’Eurolega. A me restano due sensazioni gradevoli: aver contribuito a quela crescita e aver fatto squadra con grandi giocatori come Blair, Singleton, Mc Cullough, Calabria, Coldebella, Djordjevic e altri. Quindi, alla fine, quel tiro di Douglas si può riassumere in una frase: “incidente di percorso””.

Dopo Milano non figuri più nel panorama cestistico italiano: cosa succede?
“Torno in Spagna per due stagioni la prima delle quali al TAU Vitoria è importantissima perchè gioco ad alto livello in Eurolega al fianco di campioni straordinari. La seconda, un po’ meno brillante, sono al Murcia, dopo di che torno in Italia alla Virtus Bologna per disputare un altro ottimo campionato nel quale, in semifinale playoff, siamo eliminati da Cantù”.

E poi, finalmente, eccoti a Varese?
“I due anni trascorsi alla Pallacanestro Varese mi regalano eccellenti sensazioni sia dentro che fuori dal campo. Sul parquet viviamo due stagioni positive con altrettanti viaggi nei playoff in un gruppo guidato benissimo da un coach carismatico come Carlo Recalcati. Coach Charlie ci trasmetteva la serenità per lavorare duramente in settimana e giocare al massimo la domenica, mentre lontano dal campo tutti sentiamo l’affetto e il sostegno del pubblico di Varese che, a mio modesto avviso, è uno di quelli che più di tutti in Italia sa unire calore, passione, competenza e attaccamento. Tutti quelli che l’hanno provato dicono, e testimoniano, che giocare a Varese, ma soprattutto per la Pallacanestro Varese, rappresenta qualcosa di speciale per le sensazioni che il basket di può regalare. Prima dentro al palazzetto di Masnago, poi in una bella città, che respira e vive solo e unicamente per la pallacanestro. Un aspetto che, credimi, in altre città non avverti”.

Nonostante le due belle stagioni, nel 2012 lasci il gruppo: come mai?
“Vuoi la verità?”.

Beh, sarebbe meglio…
“Nel 2013, la famosa stagione della semifinale scudetto con Siena, coach Vitucci mi avrebbe voluto e io sarei rimasto più che volentieri, ma la proposta economica del club era al ribasso e a quel punto, a 37 anni suonati, ho preferito scegliere altro”.

Tipo?
“Da qualche tempo avevo in mente di chiudere la carriera con una scelta “esotica”, inconsueta e fuori dal solito circuito Italia-Francia-Spagna-Grecia. Così ho accettato le offerte di Hamyari Shahrdari Zanjan Basketball, club iraniano. Abbastanza esotica, come meta, sei d’accordo? In Iran ho trascorso un’annata diversissima da tutte quelle precedenti perchè se è vero che il basket è più o meno uguale dappertutto, quello che cambia è il contesto, il modo di viverlo e tutto che ciò che gira intorno. Elementi che a conti fatti possono essere condizionanti. In ogni caso sono contento di aver vissuto una simile esperienza e di aver conosciuto, seppur in minima parte, un “pezzo” di mondo che mi mancava”.

Com’è stato il tuo passaggio dalla pallacanestro alla vita reale?
“Come accade al 90% dei giocatori professionisti anch’io, dopo aver attaccato le scarpe al chiodo, ho pensato di restare nel “mio” ambiente, ma non sentendomi adeguato per ruoli tecnici ho deciso di tentare la carriera di procuratore. Dopo aver concluso l’iter formativo e aver conseguito la regolare licenza mi sono dato da fare per circa tre anni al termine dei quali ho capito una cosa importante: quella di agente non era la mia strada”.   

Come mai, se è lecito chiedere?
“Troppe situazioni non chiare, troppi sotterfugi e troppi compromessi difficili da accettare per un carattere come il mio. Sono una persona a cui piacciono i rapporti chiari, onesti, puliti e, in tutta sincerità, non mi sentivo a mio agio di fronte alle pazzesche pretese economiche di ragazzini di 16-17 anni, che nella pallacanestro non avevano ancora combinato nulla se non cambiare tre-quattro procuratori. Ma, via, di cosa stiamo parlando? Quindi, ho lasciato l’ambiente del basket, mi sono rimesso a studiare. Ora sono ormai prossimo alla laurea in psicologia e lavoro come responsabile delle risorse umane per una azienda di Tenerife”.

Dopo una carriera lunga e proficua quale pensi sia stata la tua cifra stilistica o, detto in altri termini, perchè sei stato un giocatore apprezzato e amato?
“Più che di argomenti tecnici preferisco parlare del rapporto emotivo che ho avuto con la pallacanestro. Ho sempre giocato con passione, carattere, fortissima volontà e, a conti fatti, penso che la mia qualità principale sia stata il grande agonismo. I tifosi hanno sempre apprezzato la mia intensità, la voglia di lottare, di spendermi al 101% e il desiderio di vincere. Credo che il pubblico e gli addetti ai lavori mi abbiano apprezzato in particolare per queste ragioni, o almeno lo spero”.

Da sempre sei in viaggio tra Spagna e Italia, pertanto sei uno dei testimoni più attendibili e credibili per descrivere le ragioni della grande forbice che negli ultimi anni si è aperta tra il basket spagnolo e quello italiano
“Prima di tutto vorrei dire che non si tratta di un gap tecnico perchè la scuola italiana resta comunque di alto livello. Da questa premessa ne discende che i veri problemi sono altri e, purtroppo, molto più gravi, molto più seri che secondo me riconoscono due cause precise: organizzazione e strutture. La pallacanestro italiana è organizzata male, gestita male, portata avanti in modo poco lungimirante e professionale a tutti livelli. Il basket italiano non sa vendere il suo prodotto e i risultati che, malgrado tutto, riesce comunque ad ottenere. Di più, tutto il movimento non ha ancora capito che senza un vero sviluppo del basket giovanile il futuro della pallacanestro italiana sarà sempre più nebuloso e incerto. Secondo elemento, davvero gravissimo, è quello legato alle strutture. In Italia ci sono pochissimi palazzi dello sport di livello europeo, mentre in Spagna tutte i club dell’ACB giocano in arene grandi, confortevoli, moderne, capienti e accoglienti. Ma, ancora di più, in Spagna ci cono centinaia e centinaia di palestre attrezzate molto bene e perfette per lo sviluppo e la pratica dell’attività giovanile. Non a caso la Spagna da ormai una ventina d’anni si piazza costantemente al vertice e ottiene risultati importanti nei campionati europei e mondiali delle categorie giovanili. Aggiungo, per esempio, che la Spagna anche dopo la generazione di fenomeni guidata da Pau Gasol e Navarro, ha saputo subito trovare gli eredi semplicemente perchè i giovani spagnoli continuano a crescere e a trovare spazio in ACB fin da giovanissimi. In Italia non succede, mi pare”.

Vent’anni di pallacanestro giocata ad alto livello sono un numero perfetto per stilare le tue speciali classifiche. Cominciamo dal miglior quintetto in assoluto dei tuoi compagni di squadra
“Per il quintetto “top”scelgo: playmaker Pablo Prigioni con me al TAU Vitoria, guardia e ala piccola Vincenzino Esposito e Brian Evans con me a Imola; ala grande e centro Luis Scola e Thiago Splitter con cui ho giocato al TAU”.  

Il quintetto dei tuoi “compagni simpatici”
“Come playmaker, guardia e ala scelgo Cristiano Fazzi, Paolo Bortolon e Maurizio Ciccio Ragazzi di Imola; ala grande Marko Milic con me a Roseto e come centro il mitico Ron Slay, con me a Varese”.

Il più forte giocatore che hai visto nel corso della tua carriera?
“Fra i “marziani” dell’NBA scelgo Michael Jordan, ma in Europa punto senza esitazione su Antoine Rigaudeau, fantastico playmaker, giocatore dotato di intelligenza cestistica sopraffina, grandissimo altruismo, splendida generosità verso i compagni e, aspetto che mi ha colpito tantissimo, l’umiltà di adeguarsi anche a situazioni non consone al suo essere un grande campione con un comportamento da vero numero 1″.

Infine, cosa ti lega ancora a Varese?
“Ho ancora rapporti di grande amicizia con numerosi compagni biancorossi e comunque Varese, come ho detto, è una città di basket nella quale, appena posso, quando sono in Italia per stare con i miei figli torno sempre volentieri”.

Massimo Turconi

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