Ogni club è come un puzzle, le cui tessere ne compongono il vissuto attraverso una molteplicità di elementi quali blasone, tradizione, ascese e cadute, vittorie memorabili e sconfitte brucianti. Requisiti questi che non avrebbero ragione d’esistere se non fossero legati tra loro dal componente più importante, ovvero quel capitale umano che si pone come trait d’union capace di disegnare il percorso di ogni società.

Nella sua storia ultracentenaria il Varese ha accolto migliaia di personalità che hanno saputo arricchire il racconto biancorosso, tra chi ne è diventato una bandiera, chi avrebbe potuto esserlo e chi invece nella Città Giardino c’è stato solo di passaggio. Marco Nichetti appartiene a quest’ultima categoria, avendo vissuto a Varese soltanto una delle tante parentesi di una vita che sarebbe meritevole di un film.

Classe 1976 dal talento precoce e scintillante, per gli addetti ai lavori era destinato ad una carriera folgorante, capace com’è stato di meritarsi la maglia numero 10 nelle Nazionali Under15 e Under16, relegando al ruolo di comprimario un certo Francesco Totti, che dovette accontentarsi di portare l’8 sulle spalle.

La trafila da bimbo prodigio nelle giovanili dell’Inter e il debutto in prima squadra nel dicembre 1994 sembrano spianargli la strada verso il successo, ma è solo l’inizio della fine: “A 17 anni ero già stanco di tutto ciò che facevo – spiega Nichetti – avevo ben chiaro in mente che quella non sarebbe stata la mia vita. Questa consapevolezza mi permette di non avere rimpianti”.

Partiamo proprio dal principio, quindi dai tuoi inizi in nerazzurro.
“Entrai in squadra all’età di nove anni e attraversai le selezioni giovanili fino all’esordio in Serie A contro la Cremonese (Cremonese-Inter 0-1, 4 dicembre 1994, ndr), giocando l’ultimo quarto d’ora. Pochi giorni dopo ecco l’occasione contro il Foggia in Coppa Italia che, però, corrisponde anche alla mia ultima presenza con la maglia dell’Inter. Sandro Mazzola, all’epoca dirigente, mi prese a cuore e vedendomi un po’ matto pensò che fosse meglio mandarmi in prestito affinché diventassi un calciatore vero. Passai quindi al Gualdo in Serie C1 per due stagioni, anche se in quel periodo feci di tutto per tornare al nord, ma la società giustamente voleva che mi facessi le ossa in un campionato inferiore”.

Possiamo dire che la presenza di Nicola Berti in spogliatoio possa aver accentuato la tua esuberanza?
“Lui fu la mia rovina (ride, ndr). Una volta entrato in prima squadra mise gli occhi su di me scegliendomi come suo compagno di stanza, ma a ben guardare ci scegliemmo a vicenda. Trascorrere molto tempo con lui mi portò inevitabilmente a ricevere diverse strigliate da parte di allenatori e dirigenti, mentre lui la passava liscia! Devo dire però che in parecchi mi presero in simpatia, cercando di starmi vicino e di aiutarmi. Uno di questi era “lo Zio” Beppe Bergomi, che tutti i giorni passava a prendermi a Piazzale Lotto e insieme andavamo alla Pinetina, nonostante non gradisse che io fumassi liberamente nella sua auto. Anche il presidente Ernesto Pellegrini mi prese sotto la sua ala, dandomi un piccolo premio per la vittoria della Coppa Uefa e offrendo altri benefit, come quella volta in cui mi rifece completamente il vestiario in una nota boutique del milanese”.

Come detto, nel ‘95 passi al Gualdo in prestito biennale. Nel ‘97 ti accasi all’Ascoli ma dopo appena pochi mesi torni al nord, questa volta per vestire la maglia del Varese. Che ricordi hai di quel periodo?
“Mi aggregai ai biancorossi durante il mercato di riparazione, riuscendo a collezionare 14 presenze e vincendo il campionato di Serie C2 con Giorgio Roselli alla guida. Nonostante il trionfo collettivo e l’apporto dato alla squadra, a fine stagione mi ritrovai senza mercato. Mazzola alla fine riuscì ad accordarsi con il Sion dandomi un ultimatum: tre giorni di prova in cui avrei dovuto convincere la società svizzera a mettermi sotto contratto, altrimenti mi avrebbero tagliato fuori”.

E come andò?
“Là ho vissuto alcuni dei momenti più belli della mia esperienza calcistica, sebbene non conoscessi la lingua. I primi due giorni li trascorsi allenandomi, mentre al terzo mi dissero che avremmo giocato un’amichevole e che se fossi andato bene mi avrebbero fatto firmare. Una volta arrivato al campo mi accorgo che c’era troppo fermento per essere una partita come le altre; chiesi quindi contro chi avremmo giocato e mi risposero ‘Real Madrid’. I primi venti minuti di partita, nei quali feci impazzire Fernando Redondo, mi bastarono per andare a fare la doccia e firmare il contratto. Peccato che dopo quel memorabile match, vidi il campo solo per due o tre partite appena. Ricordo però con piacere lo spirito col quale si viveva il calcio, meno stressante e più conviviale rispetto al nostro. Dopo la parentesi elvetica tornai in Italia, ma giocai perlopiù nelle categorie inferiori”.

Soffermiamoci sull’aspetto tecnico: di te si diceva un gran bene, dal momento che sei anche stato protagonista con le Nazionali giovanili. Secondo te, come mai non sei riuscito a esprimere pienamente il tuo talento?
“Sicuramente non è mancata da parte mia un po’ di arroganza nel credere che ce l’avrei fatta lo stesso, ma comunque ho sempre avuto chiaro che il calcio sarebbe stata una parentesi. I miei amici celebravano tanto me quanto i miei traguardi sportivi, ma io rispondevo loro che si trattava solo di un capitolo destinato a finire. La verità è che a 17 anni ero già saturo, fin da quando ne avevo dieci ho iniziato a fare cinque allenamenti a settimana, partite in casa o in trasferta e in più i tornei. Finite le lezioni a scuola mangiavo un panino in macchina mentre mia mamma mi accompagnava e tornava a prendermi. Non ne poteva più neanche lei, tant’è che mi consigliava di passare al ciclismo”.

Una volta terminata la carriera da calciatore, inizi quella da allenatore e ti rendi protagonista del progetto Free Opera. Di cosa si trattava?
“Tra il 2003 e il 2004 venne costituita una società, della quale faceva parte anche il padre del fondatore del Brera Calcio Alessandro Aleotti, che aveva l’obiettivo di creare una squadra all’interno del carcere di Opera. Io ebbi il compito di formare la rosa e tra oltre novecento ergastolani ne scelsi una trentina, i quali avrebbero partecipato ad un campionato di Terza Categoria milanese: sovvertendo ogni pronostico, vincemmo quel torneo. La nostra impresa fece notizia e attirò sponsor come Benetton disposti a investire anche un milione di euro nella squadra, ma la dirigenza alzò troppo il tiro e l’azienda veneta si ritirò dalla faccenda. Inutile dire che questo rifiuto generò le proteste di tutti e nel giro di pochi mesi si giunse al capolinea. Ad ogni modo fu una stagione memorabile, siamo stati i primi a creare un progetto di questa portata in Italia”.

A proposito del Brera, occupi fin dalla sua fondazione un posto essenziale nella società milanese che oggi è in mano a Chris Gardner, l’imprenditore americano che ispirato il film di Gabriele Muccino “La ricerca della felicità”.
“Proprio così, siamo una banda di matti! Sono in squadra da vent’anni, prima in veste di giocatore e poi di allenatore: nonostante qualche conflitto nel tempo, non riesco a dire di no a questi ragazzi e probabilmente è il motivo principale per cui li alleno io (ride, ndr) . Abbiamo avuto modo di conoscere Gardner e sappiamo che sta investendo nel progetto, ma in passato anche Urbano Cairo era interessato alla nostra causa, basti pensare al fatto che Walter Zenga è stato il tecnico nel primo anno di vita della società (stagione 2000-2001). Insomma, abbiamo saputo farci conoscere”.

Oltre al campionato di Seconda Categoria avete affrontato l’affascinante Fenix Trophy, torneo europeo riservato alle squadre dilettantistiche.
“Esattamente, ed è nato proprio da un’idea del Brera: nove squadre da nove nazioni diverse si affrontano come se fosse una piccola Champions League. In qualità di squadra ospitante, le semifinali si sono giocate il 7 giugno all’Arena Civica mentre le finali l’8 giugno a San Siro. In Italia abbiamo avuto un certo seguito ma è all’estero che abbiamo riscontrato il maggiore entusiasmo. Di fatto si tratta di dilettantismo, ma in Polonia o in Repubblica Ceca ad esempio hanno strutture e organizzazioni che noi possiamo solamente sognare. Al di là del quarto posto finale, è stata un’avventura emozionante che sicuramente verrà ripetuta negli anni a venire”.

Chiudiamo con una domanda personale: qual è il sogno di Marco Nichetti oggi?
“Quando arriverà la pensione, l’obiettivo sarà quello di andare a vivere in Sardegna con mia moglie. Senza particolari lussi, sia chiaro, mi accontento anche di un alloggio modesto: penso che quando in un luogo riesci a stare bene senza fare nulla per ore, significa che quello è il tuo posto nel mondo. Avendo avuto così tante opportunità dalla vita, oggi non ho particolari sogni nel cassetto e di conseguenza neanche grandi rimpianti riguardo al passato”.

Dario Primerano

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