Se nasci a pochi chilometri da Napoli neanche un mese dopo il giorno in cui Marco Baroni sale in cielo con un colpo di testa e regala la conquista dello storico scudetto del 1990, non appassionarsi diventa difficile. Se in più cresci con mezzi calcistici importanti, passione e testa giusta, la tua strada non può che legarsi al calcio giocato.
Io però sono stabiese doc! Di Castellammare di Stabia. Lì ho vissuto la mia infanzia calcistica e non ed una piccola parte nelle giovanili del Napoli. Papà seguiva la Juve Stabia in casa ed in trasferta ed io ho giocato a lungo con le giovanili delle Vespe quindi sono attaccatissimo alla mia città. Poi chiaramente Napoli è vicina ed è la città per eccellenza per chi è nato in zona, quindi sono contento quando vince il Napoli, sono affezionato alla città…“. Francesco Marano spiega tutto con decisione e precisione, ingredienti che gli abbiamo visto mettere anche in campo, sia da avversario che da innesto alla causa biancoblù.

Lui è stato il primo acquisto del mercato estivo appena terminato, quasi a sorpresa viste le tempistiche con l’annuncio arrivato all’alba della sessione. 

Partiamo da qui? Come sei arrivato a Busto?
“Con il direttore Turotti c’erano stati già alcuni contatti alcuni anni fa, quando ero a Como, poi non si concretizzò perché mister Diana andò a Renate e ci conoscevamo già, così mi volle con lui e decisi di vestire il nerazzurro. L’accordo lo abbiamo trovato in un attimo ad inizio estate, probabilmente era destino il matrimonio tra me e la Pro. Ho scelto questa società per la sua serietà e perché risponde ad ogni mia esigenza, compresa la vicinanza a casa”.

Quanto conta ora la vicinanza alla tua famiglia che si è da poco allargata?
“Tantissimo. Credo che ogni calciatore, soprattutto in Serie C, abbia varie “fasce” in una carriera dentro le quali cambiano le esigenze. Da giovane per esempio è giusto spostarsi, inseguire il proprio sogno. Ora la mia esigenza è anche stare con la mia famiglia che è la mia vita: la mia compagna ed il mio bimbo piccolo, da quando sono salito al nord per giocare a Como mi sono stabilito in Lombardia dove mi trovo bene e non ho più voluto muovermi”.

Da quest’anno vorremmo introdurre una sorta di domanda quiz ad ogni intervistato. Ti diciamo una data: 14 Novembre 2021. Ti dice niente?
“Sì, me la ricordo bene perché è il giorno in cui segnai contro la Pro Patria un bel gol e andai subito a recuperare il pallone per metterlo sotto la maglia e dedicare la rete al mio piccolo in arrivo. Per la Pro fu una giornata storta, per me ovviamente indimenticabile”.

Qual è il momento della tua carriera che non dimenticherai mai?
“Sono tanti bei momenti e posso solo esserne soddisfatto, ma sul più bello in assoluto non ho dubbi, la realizzazione del sogno più bello: c’era ancora la Serie C2 ed io esordii in prima squadra con la Juve Stabia. Esordio e gol con la maglia della squadra della mia città. Cosa chiedere di più?”.

Cosa ti hanno lasciato i settori giovanili di Juve Stabia e Napoli?
“Tanto ma in modo molto diverso tra di loro ed è un concetto secondo me fondamentale nella mia storia di calciatore: alla Juve Stabia sono entrato che ero bambino: ero piccolo, ero di lì e me la cavavo, quindi ero coccolato da tutti. Così a 14/15 anni penso sia arrivata la chiamata del Napoli al momento giusto perché mi ha aiutato anche ad abbandonare la zona di “comfort” in cui mi ero felicemente stabilizzato. Al Napoli per ovvi motivi la concorrenza era spietata, tanto che inizialmente non giocavo poi riuscii con fatica a ritagliarmi il mio spazio, questo mi ha fatto crescere sia come calciatore ma soprattutto come persona. Se non si può dire che sono entrato bambino e sono uscito uomo, poco ci manca”.

Nella tua carriera tanti, tantissimi anni di sud prima di una scelta improvvisa mai fatta: il Como con il primo trasferimento al nord a 29 anni.
“Nasce tutto da una semplice esigenza di cambiare aria e di provare il girone del nord per mettermici in mostra. Giocavo nella Sicula Leonzio ed a fine anno arrivò la chiamata del Virtus Francavilla: piazza calda e società seria con cui era praticamente tutto fatto. Mi è spiaciuto sinceramente quando ci rimasero male perché irruppe il Como dal nulla con la società nuova, forte ed affidabile e decisi per l’esperienza in riva al lago. Era un’esperienza che volevo provare e che, parlano i fatti, è stata una decisione azzeccata”.

Scelta che, anni dopo, ti ha portato a Busto. Qual è il tuo ruolo naturale? 
“Mi reputo una mezzala classica da centrocampo a tre. Poi l’esperienza e la maturità ti aiutano ad imparare a cambiare ruolo in situazioni di emergenze più o meno gravi: ho imparato il ruolo di regista che posso fare ma per esempio l’anno scorso per esigenze della squadra mi sono trovato anche a fare l’esterno ed in quei casi devi aiutarti con l’esperienza maturata nel tempo”.

A proposito: di maturità ne ha dimostrata la Pro Patria per come ha rimesso fuori la testa dalle sabbie mobili dopo i due tris ricevuti da Albinoleffe e Triestina. Gambe in spalla si è ripartiti e la risposta è stata 4 punti in campionato più vittoria a Mantova in coppa.
“Voglio essere chiaro per non venire frainteso: quelle sberle ci hanno fatto male, molto. Compresa la prima sconfitta interna con la Giana, ma sotto certi aspetti ci hanno fatto bene. Meglio siano arrivate subito e soprattutto, come diceva anche il mister, ci hanno sbattuto crudamente in faccia come sarà il campionato e quanto dobbiamo essere pronti a battagliare per prenderci ogni risultato. Ci siamo armati di cattiveria, organizzazione e responsabilità per iniziare a fare meglio”.

Che spogliatoio hai trovato alla Pro Patria?
“Il senso di appartenenza penso sia la chiave del nostro spogliatoio. Tu entri e capisci che c’è parecchia gente qui da qualche anno che ti aiuta ad ambientarti ed amalgamarti al meglio in un gruppo affiatato, con tanto senso di appartenenza ed unità di intenti ormai radicati in questo gruppo solidissimo in cui c’è un mix tra giovani ed esperti. Sta a noi che abbiamo più esperienza dare una mano ai più giovani lavorando bene come si fa a Busto ogni giorno”.

Mister Colombo è molto giovane, ma per te una guida tecnica vicina a voi giocatori anagraficamente, non rappresenta una novità.
“Vero, perché Aimo Diana non l’ho avuto solo a Renate ma anche alla sua primissima esperienza in panchina, come è per Colombo ora. Dossena che mi allenava lo scorso anno è molto giovane.
La C è la vetrina dei giocatori giovani, ma non si sottolinea quanto lo sia anche per gli allenatori emergenti. Alle guide tecniche più giovani leggi veramente negli occhi ciò che vogliono trasmetterti e come riescano a farlo avendo smesso da poco ed è un qualcosa che vedo sia in Colombo che in Le Noci”.

Chi è il giocatore più forte con cui hai giocato al sud?
“Penso di essere cresciuto in un’epoca in cui c’era un gran ricambio generazionale in cui noi degli anni ’90 iniziavamo a prendere il posto di chi aveva qualche anno in più. Soprattutto in Serie C era la “fine di un’era”. A Castellammare ho giocato con bomber Giorgio Corona. Era a fine carriera ma era impressionante: un’icona, una leggenda con la sua mitica sterzata quando puntava l’avversario, quel pantaloncino alzato su una sola gamba delle due con cui giocava, un attaccante ed un professionista esemplare prima in allenamento poi in campo. Non ha mai fatto un minuto in meno di allenamento rispetto alla squadra. Infatti il gol che ha riportato la Juve Stabia in B dopo anni porta la sua firma nel giugno 2011, data indimenticabile: ero un ragazzino in mezzo a campioni veri che infatti vinsero. Corona può essere paragonato a Fietta per dedizione, sacrificio ed esempi per intenderci”.

Anche a Renate hai giocato con gente parecchio forte: Anghileri per esempio.
“Ma sono davvero tanti, mi reputo fortunato, a Castellammare ho incontrato anche Cazzola e Mezavilla a metà campo. Anghileri che hai nominato tu è un altro esempio: lo conoscevo da avversario, leggevo le informazioni su di lui ed era sempre il più presente in tutta la stagione del Renate. Quando l’ho conosciuto sul campo ho capito perché facesse 38 presenze su 38 a stagione: perché si allena sempre a mille all’ora, sempre tirato a lucido fisicamente… Oltre che essere un giocatore di una certa caratura. Lo reputo il Giovanni Di Lorenzo della Serie C per le caratteristiche che ha. A Renate solo una volta che sono arrivato mi sono reso conto in che contesto ero arrivato: una rosa di una qualità incredibile, con un grande allenatore come Diana appunto. C’erano Galuppini, Kabashi con un piede totalmente fuori categoria…”.

Renate realtà invidiabile, senza dubbio: ma quanto è dura giocare veramente senza tifo?
“Sono sincero, inizialmente ho fatto fatica. Io ho provato ogni tipo di piazza, come numeri per intenderci. Inizialmente a Renate lo sentivo parecchio, poi ci si abitua ma soprattutto lì la mancanza di tifo è compensata da una serietà, un’ambizione del presidente, del direttore e dello staff che non ti fanno mancare nulla, una voglia di migliorarsi sempre… Che ti fanno dimenticare che ci sono avversarie con più tifo”.

Pro Patria a parte, chi è l’allenatore che ti ha lasciato di più? Diana?
“Forse sì, lo reputo molto preparato. Premetto che voglio sempre prendere qualcosa da qualsiasi allenatore trovi sulla mia strada, sia umanamente che calcisticamente. Diana aveva creato qualcosa di grandioso a Renate anche come gioco, c’era una grande base dall’anno prima e nel gruppo aveva creato un grande affiatamento”.

Ed invece il giocatore più matto con cui hai diviso uno spogliatoio?
“Difficile rispondere, ti dico matto in senso buono Arcidiacono, peraltro giocatore talentuosissimo. Era salito alla ribalta delle cronache per aver ricevuto un daspo. Ho giocato con lui alla Sicula Leonzio e faceva una marea di scherzi da siciliano doc. Poi impossibile non dire, l’ho conosciuto quando ero ancora un ragazzino, Salvatore Soviero, portiere. Se lo incontravi nella giornata sbagliata era dura, peraltro era l’epoca in cui andava di moda il wrestling e lui anche per ridere, gigante com’era, riproduceva le mosse e le prese viste in tv su di noi”.

Chiudiamo con un’opinione personale: mi sembri veramente un atleta fatto e finito che tiene molto al proprio lavoro in modo serio e puntuale. Sbaglio? Quando hai capito che da una passione stava nascendo una professione?
“Parlare di lavoro non mi piace, perché alla fine è sempre una passione. Parlerei piuttosto di responsabilità, ma andiamo con ordine: sicuramente ti rendi conto che qualcosa sta cambiando quando salti dal settore giovanile ad una prima squadra. Lì cambia davvero tutto e ti affacci sia in un nuovo mondo sia in un’idea che un sogno potrebbe diventare realtà, quindi devi essere pronto e responsabile per quanto lo puoi essere a quella età. Perché dico questo? Perché ne faccio anche un discorso di percorso e maturità oltre che di esempi. Esempi perché mentre cresci nel calcio necessiti di punti di riferimento ed io ho avuto la fortuna come detto di incontrarne tanti: esempi veri, più in là con gli anni rispetto a me che mi hanno insegnato ad essere un professionista. Percorso perché solo crescendo capisci ed apprendi di più, per esempio penso negli ultimi 5/6 anni di aver fatto un ulteriore step nella conoscenza del mio fisico e nella prevenzione, negli esercizi preventivi per stare bene ed avere meno problemi possibili. Questo, la puntualità e la serietà sono ingredienti che impari solo con il tempo inevitabilmente, quando sei più giovane non pensi a certe cose anche perché hai un fisico diverso e stai bene. Fa tutto parte di un percorso che riguarda il mestiere o meglio la passione del calcio giocato, sembra una frase fatta ma fare il professionista nei minimi dettagli può darti tanti vantaggi con il passare del tempo”:

Pensavamo che Sandro Turotti avesse piazzato un colpo che garantisse maturità e geometrie a metà campo, non ci sbagliavamo, ma dopo questa intervista siamo convinti che siano qualità garantite anche fuori dal rettangolo verde. Rettangolo da cui parte un filo lungo che si è intrecciato con Francesco Marano da quel lontano 1990, pochi giorni dopo lo scudetto del Napoli di Maradona e che continua ad allungarsi con una lunga carriera che ha appena visto un’altra nuova esperienza tutta da vivere: quella in biancoblù.

Alessandro Bianchi

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