Breve nota a margine. Già apposta da altri. Ma, insomma, in certi casi ribadire non guasta. “Il fatto non sussiste“. In sintesi estrema, la motivazione con cui il 28 maggio 2015 i giudici della quinta sezione penale della Corte d’Appello del tribunale di Milano assolsero tutti gli imputati per i cori razzisti rivolti a Kevin Prince Boateng. La sentenza fa riferimento all’arcinota amichevole tra Pro Patria e Milan disputata allo “Speroni” il 3 gennaio 2013. Quando il giocatore ghanese calciando il pallone verso la curva biancoblu e dirigendosi anzitempo negli spogliatoi andò a sancire la fine anticipata dell’incontro (nella foto). Con solidarietà espressa dagli allora rossoneri Massimo Ambrosini (capitano) e Massimiliano Allegri (tecnico). La motivazione? “Ingiuria aggravata dai motivi razziali” secondo l’accusa (e secondo il Tribunale presieduta dal Giudice Toni Adet Novik che ebbe a condannare per direttissima in primo grado i 6 imputati); “Ingiurie senza connotazione razzista” secondo la difesa (e la Corte d’Appello di cui sopra). Ognuno è libero di farsi l’opinione che ritiene più prossima alla verità, ma in uno stato di diritto la sentenza (definitiva) di un Tribunale andrebbe quantomeno posta a parte della vicenda in oggetto. Non certo ignorata.

Perché farne cenno ora? Perché per effetto di quanto occorso sabato al Bluenergy Stadium di Udine, il mainstream dei media ha accomunato causa ed effetto del gesto di Mike Maignan al precedente relativo a Boateng. Diventato nel frattempo benchmark del razzismo pallonaro tricolore. Corretto? Non essendo nato ieri ed avendo assistito a gara e a tre udienze del Processo di primo grado, meglio mettere in chiaro un aspetto. Gli ululati (ripetuti) ci furono. Rivolti però a diversi giocatori di quel Milan. Non solo a Boateng, Emanuelson, Niang e Muntari (quest’ultimo, per inciso, sanzionato per 500 euro per non essersi presentato in Trubunale). Ma a determinare la reazione del Boa, oltre a quelli (e forse più di quelli), contribuirono gli insulti riferiti agli affetti personali. Volgari ed esecrabili, ci mancherebbe. Ma (salvo ognuno e salvo il Tribunale di Milano), non razzisti.

Inutile nascondere (e nascondersi), gli aspetti controversi e contraddittori della vicenda. Tanto più che la tifoseria biancoblu è finita nei premi (causa contabilità delle multe) anche in tempi recenti. Il razzismo nella nostra società ed ancor più nello sport e negli stadi è una piaga da combattere e condannare senza relativismi. Ma bollare una città (Busto Arsizio) senza citare la determinazione di un Tribunale è un non trascurabile peccato di omissione. A maggior titolo in tempi di fact checking. Perché “Le sentenze dei giudici non si discutono, si appellano“, sussurrava l’ineffabile Giulio Andreotti. Più banalmente, basterebbe darne conto.

Giovanni Castiglioni

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui