Continua la nostra serie di auguri ad Andrea Meneghin per i suoi 50 anni, che compirà il 20 febbraio.

GIANNI  CHIAPPARO, insegnante, allenatore ed ex dirigente in Pallacanestro Varese

“Andrea è una persona senza tempo, da giovane era serio e allegro, oggi è allegro e serio. Giano Bifronte, sembra ridere e piange dentro, sembra piangere e ti sta prendendo in giro. Ironico, sornione, sempre attento ai bisogni dell’altro, umano! L’amico che vorresti sempre avere, il compagno che si sacrifica per la squadra, per lui vale sempre il “noi” davanti “all’io”. Poi lo vedi perdersi davanti a una playstation e dici, ma… allora! Basta il suo sguardo verso chi ama per capire la sua profonda grandezza. Unico a crescere con un monumento sulle spalle e pian piano a diventare non il figlio di…, ma il giocatore vero che vince con gli altri e per gli altri. Poi, parlando di aneddoti che riguardano il Menego, potremmo scrivere interi volumi. Non avendo tutto questo spazio a disposizione cito solo alcuni ricordi in ordine cronologico. Andrea era studente al Collegio De Filippi e tutti gli anni sperava di non avere il sottoscritto come Prof. di Educazione Fisica. Preferiva Marco Marocco con cui chiacchieravano di tutto. Poi, però, durante il ritiro a Pila toccò a me il compito di preparare i riassunti per l’esame di storia. Risultato? Tutti promossi, evvvvvaaaii. Il primo anno di De Pol a Varese, Andrea lo prendeva in giro perchè, a suo dire, Sandro si allenava troppo. Il secondo anno invece si allenava con lui. Andrea, superstizioso, aveva un rito: doveva arrivare per ultimo agli allenamenti. Così, se non vedeva tutte le auto dei compagni parcheggiate nel piazzale del Campus, se ne usciva, faceva altri due giri sulla rotta Avigno-Masnago e poi tornava. Comunque, caro Andrea, fortunati tutti noi ad aver percorso un tratto di vita con te. Buon compleanno “compagno”!”

ANTONIO FRANZI, giornalista

“Andrea che difende su Naumoski: una, due, tre volte… gli chiude ogni spazio, lo costringe in un angolo, come da manuale. Il play dell’Efes Pilsen, uno dei più forti all’epoca, in quella serata di Coppa dei Campioni 1998-99 non ci capisce più niente, annichilito. Ecco, il giocatore che forse ho amato di più in ormai quarant’anni d’attività giornalistica nello splendido sport dei canestri (a una certa età, si possono confessare queste debolezze, che inficiano l’oggettività del bravo cronista. Vero?) è proprio lui, capace di letture difensive magistrali: un talento tecnico e fisico come pochissimi altri in Europa, con un’impagabile abilità nel cogliere al meglio quanto succede su entrambi i lati del campo. Certo, ne ho viste tante di superstar in grado di avere una confidenza straordinaria con la palla a spicchi per fare canestro; molte di meno per difendere come si deve. Se però devo indicare un giocatore che abbia saputo abbinare entrambe queste caratteristiche, la mia scelta non può essere che per Andrea Meneghin. Quell’Andrea che, un giorno in cui ancora tredicenne giocava a Germignaga con una formazione del settore giovanile di Varese, andai a vedere insieme al mai da me dimenticato Eraldo Benvenuti. “Facciamo una gita sul lago per il figlio di SuperDino?” mi chiese colui che, per primo con Antonio Marano, mi mise in mano un microfono davanti alle telecamere di Rete 55: subito, si partì. Troppa era la curiosità di scoutizzare (per dirla nel nostro gergo cestofilo) quel ragazzo cresciuto con tanto amore da mamma Graziella all’ombra del campo di pallacanestro dell’oratorio di Biumo Inferiore. Quello stesso Andrea che, nella serata del balletto di Joe Isaac per la vittoria contro l’Olimpia di papà Dino che valse il primato nella stagione regolare 1986/87, era sugli spalti a tifare per la sua DiVarese. Così, mi confessò un po’ di anni dopo. Ed è sempre quell’Andrea che, nel giorno triste dell’infortunio a Meo Sacchetti durante la serie playoff della finale 1990 contro la Scavolini, mi fu indicato da uno che di basket ne sa, ma soprattutto conosce le persone, Sandro Galleani: “Vedi Antonio, adesso per vincere lo scudetto dovremo aspettare che Andrea diventi grande” mi sussurrò, ancora provato e un po’ triste. Non si sbagliò, il mitico Sandrino. Della notte magica dell’11 maggio ‘99, si è già raccontato tutto. Così, come degli Europei del ’99, quando Boscia Tanjevic costruì il suo capolavoro in azzurro partendo dalla scelta di far portar palla proprio a Meneghin junior. Sì, perché poteva guardare ogni esterno avversario dall’alto e sapeva far anche questo, in una sorta di onnipotenza  cestistica. Il risultato? Il secondo oro europeo dell’Italia e il titolo di miglior giocatore continentale per Andrea, l’unico figlio ad aver ereditato un tale riconoscimento dal papà (naturalmente, c’ero anche quella domenica del 14 ottobre 1990 quando sul parquet di Masnago si abbracciò con Dino, dopo averlo affrontato in campionato). Qualche altra testimonianza? Beh, ne avrei a bizzeffe, ma termino con quella di un raffinato sapiente del basket quale Riccardo Sales. Siamo in Valmalenco, durante il raduno estivo proprio del 1990: Pallacanestro Varese fa il suo esordio stagionale con un imberbe Andrea chiamato in prima squadra. Inizia la partita, la classica amichevole estiva contro non ricordo chi. Ho bene in mente, però, le parole del “barone” Sales, al mio fianco sulla tribunetta, dopo qualche azione in cui Andrea aveva toccato la palla a spicchi: “Quanto vorrei poter allenare quel sedicenne!”. Quel ragazzo che oggi compie 50 anni e che mi ha emozionato ancora raccontando del suo rapporto col padre sullo schermo del docufilm dedicato a Dino Meneghin. Un rapporto risolto grazie alle due ragazze che Andrea mi faceva ammirare con orgoglio paterno mentre, da bimbe, le accompagnava in carrozzina per le vie di Varese. Non ho dubbi: questa è la sua più bella eredità. Tanti cari auguri, Andrea!”

ANDREA  CONTI, playmaker, compagno di Andrea nella Nazionale Cadetti Campione d’Europa 1991

“Di Andrea ho tantissimi ricordi. Alcuni molto belli. Altri addirittura indelebili. Prima siamo stati avversari a livello giovanile nei durissimi derby tra Treviglio, dove giocavo io, e Varese dove giocava il Menego. Poi siamo stati compagni di squadra, prima nella rappresentativa di Lombardia al Decio Scuri, poi in Nazionale. Compagni di squadra, ma soprattutto amici. Ci siamo frequentati tanto anche fuori dal campo e, a 16 anni, siamo stati a casa l’uno dell’altro a dormire. Rispetto a quel periodo sono trascorsi oltre trent’anni, ma col Menego ci sentiamo molto spesso ancora oggi e sembra che il tempo tra noi non sia mai passato. Di lui mi ricordo la spensieratezza e l’infinito talento sbocciato, anzi addirittura esploso, nonostante portasse sulle spalle un cognome pesante. Il giocatore per le sue fantastiche qualità non si discute. La persona, che ha qualità certamente superiori, nemmeno. L’unico difetto di Andrea? Era del tutto impossibile stare in camera con lui.
Perchè? Semplice: Andrea non dormiva mai e a me è bastato un raduno di una settimana a Roma con la Nazionale per tornare a casa conciato come un “mocio”: provato fisicamente, occhiaie nere come il carbone ed evidenti segnali di scarsa lucidità nei ragionamenti: sintomi tipici che colpiscono i soggetti privati del sonno. Andrea, invece, seppur insonne, era fresco una rosa, bello come il sole e pieno di energia. Come sempre. Come se fosse tornato da una lunga vacanza ai Caraibi, anzichè reduce da una settimana fatta di due, qualche volta tre sfiancanti allenamenti al giorno. Fortunatamente, per la salute di tutti, dopo quel raduno il ruolo di “vittima” delle notti in bianco del Menego fu assegnato a Fulvio “Abdul” Fantetti. Che ancora oggi, per questa ragione, mi maledice. Ma, idealmente uniti, cantiamo il classico coro “Tanti auguri Andrea!”. Però, Fulvione, ancora stanchissimo non ce la fa ad arrivare in fondo alla strofa…”.

Massimo Turconi

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui