E’ indubbio che di errori in questa stagione della Pallacanestro Varese ce ne siano stati parecchi e che, mano a mano, si sono e si stiano manifestando in un’annata che ora i biancorossi devono cercare di salvare ad ogni costo.

Tra di questi, uno degli errori, strategici, che pare ormai evidente agli occhi di tutti, è stata la scelta di nominare due giocatori stranieri, Hanlan prima e Mc Dermott poi, come capitani di questa squadra.

Sia chiaro, questo discorso nulla a che a che fare con il lato personale dei due giocatori, esemplari professionisti e, per quanto ci è stato possibile e lecito sapere, ottime persone, in particolare Sean, vuoi anche per il maggior tempo che sta passando ai piedi del Sacro Monte, ragazzo di una caratura morale veramente elevata.

Giocatori e capitani diversi: Hanlan molto più leader, spesso silenzioso, all’interno di uno spogliatoio composto per lo più da giovani alle prime armi in Europa a differenza sua, veterano del basket continentale e Sean, pilastro e massimo rappresentate di quel corso giovane e americano che è poi la base della nuova filosofia biancorossa.

Nuova filosofia che però, deve anche avere il modo d’integrarsi con un contesto cestistico italiano, in cui il ruolo del capitano, ancora oggi, ha una valenza fondamentale, nello spogliatoio, come al di fuori di esso.

E se quando le cose vanno bene questo può magari avere un peso inferiore, quando si vivono stagioni complicate come quell’attuale della Pallacanestro Varese, la figura di un giocatore riconosciuto come leader nello spogliatoio ma anche dall’ambiente esterno, diventa essenziale.

Soffermiamoci proprio su questi due aspetti, essere leader nello spogliatoio: siamo sicuri che Hanlan prima e McDermott poi siano esempi di professionalità e attenzione al lavoro per i compagni, ma in una realtà come Pallacanestro Varese c’è bisogno di un giocatore che sappia anche infondere quel senso di responsabilità ed importanza che indossare la maglia biancorossa porta. Questo, poi, elevato all’ennesima potenza quando si tratta di dover, ogni giorno, in ogni allenamento e partita, far capire il senso di una vittoria o una sconfitta, di un approccio giusto o sbagliato, in un momento della stagione in cui si rischia la pelle, roba che in America, ad esempio, non esiste, quindi un discorso a livello culturale e di DNA cestistico.

Essere leader al di fuori dello spogliatoio: un punto di riferimento per i tifosi, un giocatore in cui essi si possano identificare e con cui essi possano sentirsi a contatto diretto, in un rapporto di dare e avere tra squadra e tifo che a Varese è essenziale. Il giocatore che in momenti come questi ci sappia mettere la faccia in maniera diretta e senza intermediari o filtri.

Questa figura è stata per 8 anni Giancarlo Ferrero, quest’anno, se non all’inizio, ma sicuramente da metà stagione in poi poteva e doveva essere, secondo chi scrive, Davide Moretti, ragazzo ammirato dalla piazza, giocatore dallo status tecnico e carismatico di primo livello, che ogni qualvolta la curva ha espresso dissapori o gioie è stato chiamato per primo per un confronto, uomo con cui, anche tramite l’investitura di capitano, poter pensare di stringere un rapporto più forte del mero contratto annuale o con opzione, per dare una continuità tra campo ed esterno di esso fondamentale e che, in questo momento della stagione, servirebbe più che mai per dare quel senso di urgenza a tutta la squadra ma anche quella figura di riferimento a cui tutto un popolo si possa aggrappare, visto il silenzio, sempre più rumoroso, della dirigenza.

Alessandro Burin

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