Dopo una vittoria come quella contro l’Imperia è inevitabile che i riflettori si accendano sui singoli protagonisti (Banfi, Barzotti e Valagussa su tutti), ma quel successo di rabbia, di voglia e di pura adrenalina, è stato frutto del lavoro corale di tutto il Varese. Anche di quella difesa che domenica non è sembrata impeccabile come in altre occasioni (ma che ha comunque fatto il suo) e avere in squadra l’esperienza di un certo Giusto Priola fa sempre comodo.

Il difensore palermitano classe ’90, il cui palmares vanta anche presenze in Serie B e in Serie C, da ormai cinque anni vive a Varese e il biancorosso non poteva non essere nel suo destino. Così com’era destino che il Varese vincesse contro l’Imperia. “Domenica abbiamo vissuto una di quelle partite importantissime che danno morale – spiega lo stesso Priola –, che dimostrano come dando il massimo fino alla fine un grande gruppo possa ottenere grandi cose. Tante squadre si sarebbero buttate giù, noi no, e abbiamo avuto la forza di reagire come peraltro dimostrato anche nelle precedenti occasioni”.

Forza di reagire che hai subito dovuto esercitare dopo un debutto “complicato” a Voghera. Come l’hai vissuto?
“Ovviamente l’ho vissuto male (sorride, ndr): statisticamente prendo un’ammonizione ogni otto partite, e prenderne due in quattro minuti non è certo stato bello. Oltretutto perché per due volte ho preso il pallone e, di solito, prima del cartellino arriva un richiamo verbale. È stato un dispiacere enorme debuttare così per la squadra di quella che è ormai la mia città, ma ho metabolizzato in fretta: è importante mantenere sempre un equilibrio, senza buttarsi giù o, viceversa, esaltarsi”.

Sei di Palermo, ma ormai possiamo definirti varesino…
“Ho lasciato la Sicilia, intesa come casa, a 18 anni seguendo le tappe della mia carriera. Poi mi sono stabilizzato a Brescia finché, nel 2019, mia moglie Gessica ha trovato lavoro a Varese e ci siamo trasferiti qui. È una città che mi ha adottato, che sento mia perché il mio futuro lo vedo qui, e otto mesi fa è nato il piccolo Cristiano; la mia famiglia è ormai di Varese e da calciatore giocare qui ha una valenza diversa. Come mi trovo a Varese? Davvero bene, perché è una bellissima città. Ce l’avevo un po’ nel destino: qualche mio parente c’era già stato e, a posteriori, ho scoperto che tanti amici o ex compagni di squadra erano passati di qui”.

Che cosa significa indossare la maglia del Varese?
“Quando mi sono trasferito qui il Varese non esisteva ancora. Tra l’altro, abitando vicino dall’Ossola, ogni volta che ci passavo davanti mi veniva una stretta al cuore: come si fa ad avere uno stadio del genere chiuso? Fantasticavo di poterci un giorno giocare e nel momento in cui il Varese è arrivato in Serie D sapevo che prima o poi le nostre strade si sarebbero incrociate. Quest’anno è arrivata l’occasione e Varese era la mia priorità anche perché, a questo punto della carriera, è il massimo auspicabile per me”.

Quest’anno come non mai si sente la vicinanza e la spinta dei tifosi. Come la state vivendo voi?
“Fin dal primo giorno abbiamo sentito grande fiducia da parte della città e il supporto quotidiano dei tifosi è fondamentale. Vivendo in città da parecchi anni posso dire, da esterno, che nelle stagioni passate non si percepiva questo legame; adesso è oggettivo, i tifosi ci sono vicini e questo ci dà la forza e la voglia di regalare all’intera Varese un’annata davvero felice”.

Tanta esperienza in squadra, soprattutto in difesa; può fare la differenza?
“La difesa è indubbiamente uno dei ruoli chiave, ma in ogni reparto abbiamo gente esperta e davvero valida. Questo comporta una divisione e una condivisione di responsabilità tra i più grandi, essendo più maturi per gestire i momenti più complicati e aiutare di conseguenza gli altri”.

Diciamo che un po’ d’esperienza la porti tu stesso, visto il lungo curriculum che puoi vantare. Tra le tante maglie e piazze che hai vissuto, quali sono quelle che ti hanno dato qualcosa in più?
“Ti dico due città in particolare: Trapani e Pistoia. Il Trapani mi ha lanciato nel mondo dei grandi, visto che ho partecipato alla scalata dalla C2 alla B: ero un vent’enne, mi sono trovato su quel treno ed è stata un’esperienza che mi ha formato come calciatore. Con la Pistoiese, al di là della piazza caldissima, ho vissuto annate davvero belle e sono stato anche capitano. Parliamo di due città che vivono di calcio, che, come Varese, vogliono vincere e che mi hanno fatto sentire a casa”. 

Il ricordo più bello?
“Non c’è un momento particolare, direi più genericamente gli anni a Trapani perché sono stati davvero clamorosi. Ricordo però molto bene un episodio legato al presidente Vittorio Morace: era il 2012 e ci giocavamo il playoff per la Serie B contro il Lanciano di Pavoletti dopo aver disputato un campionato meraviglioso gettando al vento una decina di punti di vantaggio. In quella partita loro rimasero in dieci ma, malgrado l’uomo in più, perdemmo 3-1. Il presidente entrò nello spogliatoio, tutti erano in lacrime, e lui come se niente fosse ci disse di non preoccuparci, di tornare a casa dalle nostre famiglie, di andare in vacanza e di ritornare per la prossima stagione perché sarebbe stata la nostra stagione. Riconfermò l’80% della squadra e il Trapani l’anno dopo vincemmo il campionato. È raro nel mondo del calcio trovare personaggi come Morace”.

E il ricordo più brutto?
“Fortunatamente non ne ho molti. Senza nulla togliere alla piazza, davvero meravigliosa, parlerei in generale della mia esperienza al Catanzaro: purtroppo mi infortunai poco dopo la firma, la società stava vivendo un momento davvero complicato con il presidente fortemente contestato, e dopo sei mesi andai altrove”.

Hai giocato in Serie B, in Serie C e in Serie D. Domanda un po’ scontata, ma cosa cambia tra una categoria e l’altra?
“Sicuramente la fisicità. Poi, anche all’interno della stessa categoria, cambia molto a seconda dei gironi: i gironi del Sud, ad esempio, non sono come quelli del Nord. Cambiano le piazze e, soprattutto, il modo in cui viene seguito il calcio; in alcune città si vive di calcio ventiquattrore su ventiquattro”.

Com’è invece il Priola extra calcio?
“Papà a tempo pieno (ride, ndr). Diciamo che ho sempre seguito tre linee guida: famiglia, campo e percorso universitario. Sono laureato in Scienze dell’Alimentazione e sto portando avanti la specializzazione in Scienze della Nutrizione Umana per diventare biologo nutrizionista. È nato tutto da una mia curiosità: da giovane vedevo che i compagni di 35/36 anni arrivavano a quell’età in condizioni diverse, e quindi ho iniziato a studiare cosa mangiavano e cosa no. Ho iniziato a rubare i segreti del mestiere e ho trasformato la mia curiosità nel mio percorso di studi. Consigli ai compagni? Qualche volta è capitato, ma tendo a dividere totalmente i due ambiti: lo studio è un modo per staccare la spina dal campo e diciamo che tendo ad essere la cavia di me stesso”.

Sogno nel cassetto?
“In questa fase della mia vita sportiva non posso certo dire di voler arrivare in Serie A, ma tra i miei obiettivi c’è quello di ottenere grandi risultati con il Varese. Per quel che riguarda il dopo-calcio, come ho detto Varese è ormai diventata la mia città e voglio avere qui anche un seguito lavorativo”.

Matteo Carraro
Foto Ezio Macchi

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