Per abitudine sono abituato a pensare che il bicchiere sia sempre mezzo pieno. Ecco perché sette punti da prendere in sette giornate credo siano alla portata di questa squadra. Il Varese ha conquistato di nuovo l’affetto del pubblico e questo è l’effetto del cambio di panchina. Sottili si è calato per la seconda volta in una realtà che sembra sua da anni. Invece è arrivato ai piedi del Sacro Monte solo la scorsa estate e la sciagurata idea di sostituirlo (non) ha portato i risultati che tutti quanti sappiamo. Lo vediamo ruggire nell’area tecnica quando le cose non vanno come vuole, i giovanotti sul campo rispondono ai comandi. È successo anche a Crotone dove, nonostante la doppia inferiorità numerica, continuava a credere in un pareggio che sarebbe stato meritato. Procediamo con ordine. Il fatto di ritrovarci ogni due settimane con questa rubrica consente di analizzare a mente fredda le ultime due partite, quelle che portano all’impegno del giorno.
Il Varese deve imparare ad essere cattivo. La lezione impartita dal Bari è un esempio di come affrontare questo duro finale di campionato. I pugliesi sono arrivati a Masnago per giocarsi il futuro, senza società ma con la voglia di non fallire. Almeno sul campo. È vero, Sottili ha dovuto rinunciare a pedine importanti del proprio scacchiere prima e durante il match (all’inizio della ripresa aveva già fatto due sostituzioni, Oduamadi per Neto poi rilevato da Damonte), ma chi è sceso in campo avrebbe dovuto lottare anche per loro. Così non è stato. Bressan si è calato nei panni di Superman, volando da un angolo all’altro della propria porta per disinnescare almeno tre bombe indirizzate in rete. Pavoletti ha lottato contro i tosti difensori pugliesi sperando di aprire spazi a Bjelanovic, Calil e Di Roberto (nelle fasi di recupero ha sparato sul portiere il pallone del possibile pareggio). Alla fine il Bari ha vinto e il Varese è rimasto fermo.
Diverso il discorso di Crotone. Pavoletti si è inventato un gol da rapace vero, ha sbloccato il risultato costringendo i calabresi a rincorrere sin da subito. Qui avrebbe dovuto venir fuori la cattiveria del Varese, capace di resistere agli assalti avversari e di far male con le ripartenze. Invece nulla di tutto questo è accaduto. La squadra di Drago ha raggiunto e superato i biancorossi aiutata anche dalle espulsioni di Damonte e Blasi. Quest’ultima ha determinato il rigore trasformato dal baby-talento Bernardeschi (che dimostrazione di carattere quando, entrato a partita in corso, si è impossessato del pallone strappandolo dalle mani di un compagno per andare a trasformare il penalty del 3-2!).
Ecco perché parlavo di bicchiere “mezzo pieno”. C’è chi ha criticato l’ingenuità di Blasi, un giocatore tanto esperto nell’azione che ha portato al rigore (e alla sua espulsione). Può essere così, ma io preferisco ricordare il martellamento continuo nel centrocampo dello “Scida”, colpi dati e subìti, senza mai tirarsi indietro. Un po’ come accade quando Rea perde la testa e commette sciocchezze che costano caro (a lui in primis e poi alla squadra considerate le tante giornate di squalifica). Questo significa essere vivi, tenerci, mordere e combattere contro un avversario che bene incarna il destino avverso di questa strana stagione. Questo significa avere cuore. È il primo e più importante effetto del ritorno di Sottili a Varese.
Da oggi questo non basta più, è arrivato il momento di usare la testa, di pensare in campo e fuori. Quando non si ha la giusta lucidità bisogna affidare il pallone a chi riesce ancora a ragionare. C’è sempre un compagno libero da servire. È il bello di uno sport di squadra. Come ha scritto il tecnico della Roma Garcia nella sua biografia è arrivato il momento di METTERE IL PIEDE SULLA PALLA: «Nel linguaggio calcistico questa espressione ha un significato ben preciso. Il giocatore che “mette il piede sulla palla” vuole rallentare il gioco e fare una pausa. In questo modo permette ai suoi compagni di riprendere fiato – e qualche volta lucidità – riorganizzarsi, riflettere, misurare, valutare. E prendere tempo, anche».
Sognare di arrivare in serie A, per giocare con o contro Milan, Inter, Juventus. E quando ci arrivi fare di tutto per raggiungere la maglia della Nazionale. Ecco cosa provano, pensano, dicono i tanti bambini che ogni fine settimana si affrontano nei campionati giovanili. Soldi, belle macchine e veline appartengono al contorno, al limite ci faranno caso quando diventano più grandi. Chi non ci pensa ha più possibilità di riuscire a diventare professionista.
Incontrarsi almeno una volta la settimana, con gli amici di sempre, i compagni di scuola e di vita che se non vedi sul campo non sai come trovare. Gente che fa un lavoro diverso dal tuo e che frequenta altri ambienti, ma che quando rivedi per la partitella di calcetto del giovedì ti fa sentire esattamente come quando si andava a scuola. E dedicavi la vittoria alla ragazza che ti aveva preso il cuore.
Sacrificare il tempo libero per correre e fare fiato, una gioventù trascorsa fra libri e campo di gioco, a sopportare le urla e gli ordini di professori e allenatori. Anche questo aiuta a crescere, fa capire che solo con lo sforzo si ottiene un risultato. Niente, sul campo come nella vita, accade per caso. Se sei allenato affronti meglio ogni difficoltà, le vedi come una prova da superare per raggiungere la vittoria e non come un segnale di sfortuna.
Rispetto, delle regole e dei compagni, chi gioca con te si aspetta un passaggio.