Sempre uguale e fedele a se stesso, ma professionalmente sempre in movimento, pronto a tutte le esigenze, solidamente aggiornato. Mario Oioli, uomo serio se al mondo ce n’è uno, in Pallacanestro Varese rappresenta il personaggio del prima, del mentre e del dopo. In 18 anni di attività e puntuale servizio ha infatti vestito tanti di quei panni e ri-vestito tanti di quei ruoli da poter essere giustamente considerato l’unico in possesso di un “sapere” a 360 gradi. Mario, per essere chiari, è una di quelle persone che il grande pubblico non nota, uno di quei volti che non spiccano, una di quelle voci che si sentono poco, ma in Piazza Montegrappa tutti sanno che senza Mario, senza l’architrave Mario, il palazzo biancorosso si sbriciolerebbe in tempo zero. Oioli, infatti, conosce meglio di tutti la “macchina” societaria e sa dove mettere mano sotto il profilo tecnico, burocratico, organizzativo, economico e finanziario.

«In questi 18 anni -spiega Oioli-, sono passato attraverso tre presidenze/gestioni (Bulgheroni, Castiglioni e Consorzio), ma soprattutto, ad eccezione di quelli medici, penso di aver occupato tutti i ruoli possibili esistenti in un club. Sono infatti entrato in Pallacanestro Varese come allenatore di settore giovanile, quindi con la serie A, poi mi sono spostato man mano verso ruoli dirigenziali , da Team Manager a Direttore Sportivo, fino all’attuale impegno nel coordinare l’Area Sportiva e Organizzativa».

Visto che la tua “nascita” è da uomo di campo, non ti manca il parquet?
«Chiaro: parquet, luci, colori, suoni, tensione agonistica e mille altri aspetti sono quelli che eccitano, danno adrenalina e rappresentano il 99,9% dell’interesse della gente e anche degli addetti ai lavori. Però, ho imparato che quel che faccio adesso, anche se oscuro, anche se privo di ritorni mediatici, è importante tanto quello di staff tecnico, giocatori e staff medico. Un esempio? Beh -sorride compiaciuto Mario-, basta pensare a ciò che succede ogni estate con l’arrivo dei giocatori stranieri. I tifosi non hanno nemmeno idea di quali e quanti siano i meccanismi da attivare per permettere ad un americano di atterrare a Malpensa ed essere puntuale al primo allenamento della stagione. Gli appassionati non sanno, e non possono sapere, quante telefonate, mail, fax, notti insonni inseguendo le differenze di fuso orario intercorrono tra il sottoscritto, il giocatore, il suo procuratore, il consolato, l’ambasciata, gli alberghi, operativo voli e chi più ne ha, più ne metta. Tutto ciò per avere visti, permessi di soggiorno, bolli, timbri e altre complicatissime formalità burocratiche. Una “materia” che nelle ultime stagioni è diventata una sorta di giungla in cui leggi, aggiornamenti, norme interpretative, paragrafi, commi e rimandi sembrano pensati e fatti apposta per creare scompiglio e sconcerto».

Lo sconcerto, te lo garantisco, è quello che coglie il 101% dei tifosi quando sentono parlare di 5+5; 5+3+4, giocatori-Cotonou, passaportati e via con scemenze di questo tipo…
«Le tue considerazioni mi trovano totalmente d’accordo e sono il primo a ribadire che sono tutte astrusità che finiscono già oggi, e contribuiranno un domani, ad allontanare i tifosi che si avvicinano alla pallacanestro. In realtà avremmo bisogno di poche e logiche regole, certe e stabili per almeno qualche anno».

Da esperto, toccasse a te decidere, cosa proporresti?
«La mia proposta è la più semplice possibile: 6+6. Sei italiani a referto, scelta imprescindibile per la Federazione e anche per il movimento, e sei stranieri liberi senza tutte quelle differenze accessorie sull’ eleggibilità dei giocatori Cotonou, Europei A, Europei B, extracomunitari e via di questo passo-, che a mio parere hanno solo aumentato la confusione e gli scandalosi “escamotage” che di fatto hanno dilatato il mercato dei passaporti farlocchi. Tutto ciò perché, dai, che senso ha vedere americani in possesso di documenti macedoni, georgiani, bulgari, russi, uzbeki o ciprioti? Ma, poi, di quali “alti meriti sportivi” stiamo parlando? E, ancora, non ci rende si proprio conto che, per queste ragioni, il concetto relativo all’equità competitiva è ormai fortemente annacquato? Insomma: un’immediata e taumaturgica semplificazione è davvero urgente, auspicabile, doverosa e, aggiungo, porterebbe con sé anche un sensibile abbassamento dei costi».

Varese, intendo come società, come si pone in questa battaglia?
«Cerchiamo di offrire, come sempre, il miglior prodotto possibile (e parlo anche di settore giovanile e attività scolastiche e sociali) ma al di là del risultati del campo, che come tutti comprendono dipendono da tantissime variabili, Varese ha l’orgoglio di esserci ancora solida, stabile, punto di riferimento sicuro per i tifosi e tutto l’ambiente. Certo, spesso e volentieri veniamo criticati perché, vedi le ultime stagioni, le squadre allestite non rispettano le attese. Tuttavia, pur rispettando il diritto di critica, faccio sommessamente notare che nel giro di pochi anni società come Teramo, Treviso, Napoli, Siena, Udine, Roseto, Messina, Trieste, Montegranaro, Rieti, Fabriano, Livorno Verona, Bologna (e forse ne tralascio qualcuna) sono scomparse dalla carta geografica della serie A, per ricomparire poi a volte e dopo qualche anno con altre denominazioni. Noi, invece, tra alti e bassi, siamo sempre la stessa Società da oltre 70 anni e, di più, basta girare per l’Europa e per il mondo per capire e toccare con mano il livello di popolarità di cui gode la Pallacanestro Varese. Essere “Pallacanestro Varese” è un marchio che in altre nazioni europee ci viene riconosciuto, per certi versi invidiato e ci rende orgogliosi sia della nostra storia passata, sia del nostro presente. Quando si parla di “risultati”, questo è il primo da considerare».

Hai toccato il rovente tasto “Europa”: qual è la posizione di Varese, anche alla luce delle minacce di FIP e CONI di ritirare le deleghe alle società ribelli?
«La nostra scelta, peraltro espressa in diverse occasioni ufficiali anche dal presidente Stefano Coppa è chiara: Varese aderisce al progetto della FIBA, sulle coppe Europee. Non è soltanto per una posizione ideologica, ma anche una presa d’atto che nell’attuale ambiente normativo e regolamentare sarebbe difficile pensare il contrario. Con le norme attuali, con le leggi che regolano il mercato del lavoro e dell’impiantistica sportiva oggi esistenti diventa molto prematuro pensare di uscire da questi schemi».

Volgendo lo sguardo dietro di te, ripensando ai diciotto anni trascorsi, cosa ne esce?
«Tante impressioni positive e il senso di un tempo che non è passato invano. Agli inizi degli anni 2000 i ruoli operativi erano ricoperti dal sottoscritto e da Marco Zamberletti, poi è arrivata Raffaella Dematté. Oggi la struttura è molto più articolata, le esigenze di comunicazione e marketing si sono fatte più pressanti. Ripenso comunque al fatto che, scusate l’immodestia, ho provato ad indicare a tutti coloro che si apprestavano ad entrare nel nostro mondo (dai Presidenti in giù) quali fossero i confini entro i quali potersi muovere e a cosa dare veramente importanza».

In conclusione: quali i tuoi “best ever”?
«Tralasciando volutamente il presente, come allenatore cito Ruben Magnano, grande tecnico ed eccellente persona che a Varese ha subìto, da certa stampa e certi personaggi, una vergognosa, ingiusta e meschina guerra mediatica. Come giocatore simbolo scelgo Randy Childress, un “Professore” vero, in campo e fuori. Infine, come giocatore sorpresa, vado su Sakota: mi sembra che in quel gruppo Dusan rappresentasse la carta vincente sotto il profilo tattico».

Massimo Turconi