“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli“. Non possiamo certo discutere gli indubbi vantaggi portati dall’era digitale, ma l’attacco di Umberto Eco a Internet è più che mai attuale in tempo di pandemia, quando chiunque può trasformarsi in virologo e pretendere di avere la verità in tasca.
Ciò genera un clima di incertezza in cui proliferano le fake news e, a tal proposito, l’operato di ASKYClean assume ancor più importanza: la mission di Maurizio Gandini non si limita esclusivamente alla sanificazione degli ambienti, ma alla formazione delle persone per renderle consapevoli dei reali rischi microbiologici in cui ci imbattiamo ogni giorno.
L’unico modo per farlo è lasciare la parola agli esperti, tra cui rientra il Direttore Tecnico di ASKYClean Maurizio Podico, nonché docente universitario del Department of Chemistry, Life Sciences and Environmental Sustainability dell’Università degli Studi di Parma. Podico, che si è sempre occupato di rischio alimentare e rischio biologico, ha gentilmente rilasciato un’intervista alla redazione di VareseSport.
Professore, com’è entrato in contatto con Maurizio Gandini e la realtà di ASKYClean?
“Ci siamo conosciuti qualche anno fa a Villa Quassa ad Ispra in occasione del convegno “Rischio biologico e Legionella pneumophila. Tecniche innovative di indagine”, durante il quale ho tenuto un intervento. In seguito siamo rimasti in contatto e abbiamo cominciato a sviluppare un discorso su problematiche legate alla sicurezza e alla sanificazione ambientale che, all’epoca, ovviamente trascendevano il tema Coronavirus. La pandemia del 2020 ha poi dimostrato le carenze e l’inadeguatezza della civiltà occidentale nel far fronte a una situazione d’emergenza di tale portata, il che ci ha dato la forza di continuare a portare avanti il progetto ASKYClean”.
Il Covid-19 viene spesso inteso come l’unica minaccia esistente, probabilmente perché è il virus che ci ha colpito direttamente e in maniera violenta, ma non è l’unico pericolo; è corretto?
“Esistono tanti altri potenziali patogeni per i quali dobbiamo prendere precauzioni. Il SARS-CoV-2 è una malattia virale con rischio ambientale molto spinto, che si propaga per vie aerea, e ha messo in ginocchio il mondo. Poiché non possiamo muoverci indossando uno scafandro è opportuno usare le tutele personali del caso, guanti e mascherine, in modo tale da ridurre il rischio di trasmissione proveniente da ogni fonte, dalle superfici ai sistemi di condizionamento”.
Il progetto ASKYClean nasce quindi prima della pandemia per far fronte a rischi di natura batteriologica, ma il protocollo di sanificazione ASKYClean System è efficace anche nei confronti del Coronavirus?
“Sì, perché esistono tecniche di prevenzione che hanno dimostrato la loro validità al riguardo, ma a tal proposito voglio sottolineare che, per quanto se ne stia discutendo, l’ozono non rientra tra queste: in ambiente acquoso è più potente degli strumenti che abbiamo per ridurre la carica microbica, ma in ambiente aereo non esplica una pari efficacia. Da questo punto di vista, come conferma tutta la bibliografia scientifica disponibile, l’efficacia del perossido di idrogeno (acqua ossigenata, ndr) è nettamente superiore, paragonabile solo all’ipoclorito di sodio (candeggina, ndr) che, per ovvie ragioni, non si può usare in ambiente civile a causa degli effetti collaterali. Il vantaggio del perossido di idrogeno è che, a differenza di altre tecniche, non lascia residui poiché l’acqua ossigenata decade ad acqua e ossigeno. Il decadimento, per intenderci, è l’ossidazione che viene generata sulle membrane batteriche e del Coronavirus, il quale è un envelope virus: ha una membrana esterna su cui sono collocate le proteine “spike” che sono responsabili dell’adesione alle cellule bersaglio del coronavirus”.
Sul sito ASKYClean si menzionano tre differenti strategie che prevedono l’uso di perossido di idrogeno, biossido di cloro e biossido di titanio; quali sono le differenze?
“Il biossido di cloro è sovrapponibile, come effetto, all’ozono in ambiente acquoso e rappresenta il gold standard per il contrasto della legionella, ma nel contesto specifico del Coronavirus ha poca possibilità di impiego. Il biossido di titanio è una nuova tecnologia che tende a rendere refrattarie le superfici; è un coadiuvante che serve a rendere difficilmente contaminabile un ambiente appena sanificato. L’attività più importante di contrasto è quindi quella basata sul perossido di idrogeno, solitamente usato in ambito sanitario/ospedaliero come a Codogno, che noi siamo riusciti a trasportare in ambito civile e industriale con costi relativamente contenuti”.
Anche la MicroDefender è stata usata a Codogno; come funziona?
“Tutti i macchinari, come la MicroDefender, che si basano su raffinati sistemi a ultrasuoni sono in grado di generare una nebbia semistabile, ovvero creano particelle estremamente sottili di una soluzione del perossido di idrogeno diluito, che va a depositarsi non solo sulle superfici ma anche sull’aria. Spesso si tende a prestare massima attenzione alle superfici, dimenticandosi che il virus si propaga per via area: la nebbia di perossido di idrogeno, invece, si propaga diffondendosi nell’aria rendendola assolutamente sicura. Questo è uno studio che sto mettendo a punto con dei colleghi dell’Università Bicocca di Milano, al quale seguiranno presto delle pubblicazioni scientifiche: usando macchine come la MicroDefender tendiamo ad ottenere l’eliminazione della carica microbica sia dalle superfici sia dall’aria, il che vuol dire avere la sicurezza di eliminare i virus presenti negli ambienti”.
Quanto dura il processo di sanificazione?
“La durata del processo è proporzionale al volume dell’ambiente. Ad esempio potremmo sanificare uno spazio di 60 metri cubi in pochi minuti, aspettando poi un’ora per fare in modo che la nebbia si depositi sulle superfici sanificandole. Durante il processo è preferibile non avere persone all’interno dell’ambiente, anche se abbiamo constatato che l’impatto del prodotto sulla salute umana è modesto”.
E invece quanto dura la sanificazione?
“Occorre in primis usare tutte le precauzioni del caso per mantenere un ambiente quanto più sanificato possibile, ma la durata in sé dipende da molteplici fattori. Può succedere, ad esempio, che in un determinato ambiente entri un individuo asintomatico o paucisintomatico (che presenta sintomi lievi, ndr) ed è pertanto ovvio che, essendo portatore del virus, possa vanificare quanto fatto in precedenza. In alcune strutture industriali si sono evidenziati alti tassi di infezioni e l’unica spiegazione possibile riconduce alla presenza di persone con un’alta carica virale che, nonostante le precauzioni più o meno accurate, hanno contagiato i colleghi”.
Entrando nel tema delle fake news, cosa può fare la scienza per contrastarle?
“Purtroppo siamo quasi impotenti, perché la validazione della notizia tecnico/scientifica è diventata quasi impossibile e questa pandemia lo dimostra: i più colpiti non sono visibili agli altri, e questo ha permesso che circolassero le voci secondo cui i medici non sapevano come agire e intubando i pazienti finivano per ucciderli. Coloro che hanno avanzato queste ipotesi, così come chi descriveva a gran voce il Covid-19 come una semplice influenza, sono portatori d’opinioni che hanno alimentato il sottobosco di notiziole e stupidaggini varie con delle affermazioni che rasentano la follia. Si tratta inoltre di atteggiamenti estremamente pericolosi in quanto hanno portato a comportamenti che hanno agevolato il contagio di sé stessi e, purtroppo, anche degli altri, con tragiche e terrificanti conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti”.
Il problema è che, molto spesso, queste notizie finiscono per attecchire; perché secondo lei?
“Se avessimo avuto morti per le strade, spargimenti di sangue e macerie ovunque forse avremmo a che fare con atteggiamenti completamente diversi. Il problema è che abbiamo fronteggiato una tragedia semi-invisibile: addirittura non c’erano funerali, per cui a volte anche i parenti di un ricoverato in isolamento non ricevevano più sue notizie. È un po’ lo stesso discorso della fame in Africa: noi possiamo dare finanziamenti e aiuti, ma non è un problema che ci tocca direttamente perché non lo possiamo vedere in maniera concreta. L’evidenza più grande è stata data dai camion che trasportavano le bare al di fuori degli ospedali della bergamasca, ma a parte questo siamo arrivati ad un livello tale di normalizzazione del dramma per cui 600 morti al giorno sembrano un dazio equo da pagare per riavviare l’economia. Questi discorsi mi lasciano decisamente amareggiato”.
Spetta quindi ai giornalisti riuscire a sensibilizzare maggiormente la popolazione?
“I giornalisti non solo hanno l’obbligo di comunicare la notizia, ma anche di verificarla. Tuttavia, purtroppo, molti giornalisti hanno dimostrato una deprecabile superficialità e se una loro fonte può avere un minimo di credibilità allora la notizia viene diffusa. Inoltre c’è anche chi è talmente autoreferenziale che, avendo in tasca una laurea o qualche attestato, si arroga il diritto di decidere cosa possa essere vero e cosa non lo sia allungando la lista delle fake news e generando ulteriore confusione. Non è così che dovrebbe funzionare, perché in questo modo viene meno il dovere deontologico del giornalista che non è più guidato dalla ricerca della verità, ma dalla semplice sete di notorietà”.
Matteo Carraro