Umiltà, dedizione e spirito di sacrificio. Sono queste le parole che possono descrivere al meglio Alessandro Carrozza, giocatore classe ’82 nato e cresciuto a Gallipoli, città di cui ha avuto il privilegio, e l’onore, di difendere i colori dagli albori della sua carriera fino al sogno chiamato professionismo. E se la Serie C1, per Carrozza, poteva sembrare uno dei traguardi più insperati, in futuro si rivelerà semplicemente il primo step verso l’olimpo del calcio italiano.
Insomma, la sua è una storia che ha dell’incredibile, che racconta di un ragazzo in grado di rivoluzionare la propria vita quasi all’improvviso, trasformandosi da carpentiere a calciatore in un attimo, appena capito che le potenzialità per affermarsi anche nel mondo dello sport c’erano eccome. Una storia che, tra le innumerevoli tappe, è passata anche per Varese, in quella squadra che lui stesso ha definito “magica” e che, da sempre, lo ha fatto sentire parte integrante di un’immensa famiglia. Un gruppo unico, un affiatamento mai visto e un ambiente in cui, insieme alla propria famiglia, ha lasciato un pezzo di cuore. Con i biancorossi è stato amore a prima vista, per quella che ha rappresentato, senza ombra di dubbio, una delle esperienze più importanti della propria vita calcistica.

Hai iniziato a muovere i primi passi nel mondo del calcio piuttosto tardi rispetto ai tuoi compagni tanto che, a 18 anni, lavoravi ancora come carpentiere. In che momento hai iniziato a vedere il calcio come possibile svolta della tua vita?
“È nato tutto un po’ per caso e, sinceramente, non mi aspettavo di arrivare così in alto. Non conoscevo nemmeno le categorie del calcio, dato che non lo seguivo e ho sempre giocato solo per pura passione. Fino a 19 anni facevo il muratore e non sapevo quali fossero le reali dinamiche di questo sport. Poi, quando ho capito che avrei potuto guadagnare di più rispetto a quanto stessi facendo, ho cambiato completamente il modo di vedere le cose e ho iniziato ad impegnarmi seriamente per raggiungere traguardi sempre più importanti”.

La tua vita calcistica parte da Gallipoli, con cui sei stato protagonista di un’autentica cavalcata che ti ha portato, partendo dalle categorie più basse del calcio italiano, a giocare in Serie C1. Cosa hai provato nel poter raggiungere simili risultati con la squadra della tua città?
“È qualcosa di indescrivibile, una sensazione che non si può spiegare. Considera che Gallipoli è una città di 20.000 abitanti, possiamo dire che ci conosciamo tutti e per me è stato davvero un orgoglio poter difendere i colori della mia città e contribuire a far vivere un sogno alla mia gente. Ho giocato parecchie stagioni con i giallorossi, se consideriamo anche gli anni con la Berretti, ma indossare quella maglia è stato, per me, qualcosa di magico”.

Tra i vari protagonisti di quel Gallipoli, oltre ai tanti ragazzi che hai avuto come compagni, non possiamo non citare anche mister Autieri. Che uomo era nello spogliatoio e, soprattutto, che rapporto avevi con lui?
“Autieri è una persona che ringrazierò per sempre. È stato uno dei miei primi mister, mi ha dato una grossa mano in tutto, contribuendo in maniera importante alla mia crescita. Per un ragazzo giovane come me, partire dall’Eccellenza ed arrivare in Serie C non è sicuramente facile, mentre lui ha saputo gestire in maniera perfetta la mia situazione. Mi ha dato davvero tanto e ho avuto modo di dirgli questa cosa anche personalmente ai tempi in cui indossavo la maglia del Varese e lui allenava la Nocerina. Abbiamo parlato proprio di quando eravamo a Gallipoli, mi ha ringraziato molto per le belle parole che ho speso nei suoi confronti. Credo che sia davvero una delle persone più importanti che abbia mai incontrato nella mia vita”.

Nel 2006 con il Gallipoli, oltre ad ottenere la promozione in C1, riesci a vincere anche la Coppa Italia di categoria, battendo la Sanremese nel doppio confronto. Che ricordi hai di quell’esperienza?
“Quell’anno avevo giocato poco in campionato totalizzando, se non sbaglio, circa una quindicina di presenze, non di più. In Coppa Italia, però, sono sempre sceso in campo, facendo 8 gol e risultando il capocannoniere della competizione, proprio come Castillo. Senza troppi problemi, posso dire che è stata una vittoria che ho sentito più “mia” rispetto ad altre, e poi diciamocelo, vincere sia campionato che Coppa Italia non è un’impresa per tutti. Per me e per la squadra è stata davvero una bella annata, sotto tutti i punti di vista”.

L’anno successivo, però, arriva la chiamata del Pisa, che ti permetterà fare il tuo esordio in Serie B. Come è nata la trattativa che ti ha portato a giocare in cadetteria?
“Ti dico la verità, quella trattativa era partita già a febbraio dell’anno precedente quando ero ancora a Gallipoli, dato che il direttore del Pisa, Gianluca Petrachi, mi cercava con insistenza già da tempo. Erano diverse stagioni che voleva portarmi con sé, ha sempre creduto nelle mie potenzialità e mi voleva a tutti i costi. La promessa che gli ho fatto era che, alla fine, avrei firmato con i nerazzurri a prescindere dalla categoria. Poi, fortunatamente, loro hanno vinto il campionato e così mi sono ritrovato in Serie B”.

A Pisa hai incontrato Gianpiero Ventura, un altro allenatore di spessore. Che ricordo hai di lui?
“Il mister è stato un altro maestro per me e, soprattutto a livello tattico, davvero non si batte. Poi, magari, pecca sotto altri aspetti, ma ognuno ha i suoi difetti e, volendone parlare solo dal punto di vista professionale, non si può assolutamente discutere la sua preparazione”.

Con i toscani, nella tua prima apparizione in Serie B, metti insieme ben 15 presenze senza, però, riuscire a rimanere mai in campo per 90 minuti. È per questo che, già a gennaio, hai preferito cambiare aria? Oppure c’erano altri motivi che ti hanno spinto a lasciare Pisa?
“Quell’anno ho sofferto di una brutta pubalgia e se non ho giocato con continuità è soprattutto per quello. Non riuscivo nemmeno a camminare per il dolore e con uno strappo di due centimetri e mezzo sul retto addominale non riesci sicuramente ad esprimerti al meglio. Parlando con il direttore, quindi, abbiamo deciso che sarebbe stato meglio se fossi andato a giocare altrove e così mi sono trasferito al Taranto già a gennaio. E poi, in ogni caso, anche in condizioni normali non sarebbe stato strano se ogni tanto non fossi sceso in campo. Quello del Pisa era davvero uno squadrone, avevamo gente come Cerci, Kutuzov, D’Anna e lo stesso Castillo, che già avevo conosciuto a Gallipoli. La mia ambizione, comunque, era quella di giocare, a prescindere dai problemi fisici e a prescindere dai soldi. Volevo semplicemente scendere in campo e la decisione di trasferirmi subito è stata dettata soprattutto da questo”.

Andando a Taranto, però, sei sceso nuovamente di categoria. Non c’erano altre squadre in Serie B disposte a prenderti?
“In realtà mi voleva anche il Vicenza, con cui avrei firmato un triennale, esattamente quello che mi avevano offerto a Taranto. I veneti erano anche in Serie B, sarebbe stata una buona opportunità per me, ma la loro posizione di classifica ha influito tanto sulla mia scelta. Sarebbero potuti retrocedere e la parola retrocessione non rientra nel mio vocabolario. E poi, mi sarei dovuto sposare a breve, era il primo anno che vivevo realmente lontano da casa e sentivo l’esigenza di riavvicinarmi alla mia terra”. 

Mi hai parlato, giustamente, dell’ambizione di lottare sempre per grandi obiettivi e, quando nel 2013 ti trasferirai allo Spezia, lo stesso club ligure ti presenterà sul proprio sito ufficiale come “specialista in promozioni”. Quanto ha contribuito Carrozza nel raggiungere simili risultati? Oppure è stato semplicemente bravo a scegliere, ogni volta, il progetto giusto?
“Anche io ho fatto tante scelte sbagliate (ride, ndr). Però possiamo dire, senza problemi, che ho avuto anche una certa fortuna nell’andare in squadre che hanno sempre lottato per vincere il campionato o, almeno, per raggiungere una buona posizione nei playoff. Ovunque sono andato, ho sempre lottato per qualcosa e sono felicissimo del percorso che ho fatto. Ho sempre pensato che giocare per vincere e giocare per salvarsi siano due sensazioni completamente diverse, così come è diversa l’atmosfera quando scendi in campo e sai che non dovrai temere nessuno, dato che, attorno, hai una rosa di assoluto valore”.

Dopo un anno e mezzo a Taranto, però, ti sei trasferito a Varese. Come è nata la trattativa che ti ha portato a giocare in Lombardia?
“Al Varese serviva un giocatore con le mie caratteristiche e, siccome il direttore Petrachi è molto amico dell’ex DS Sogliano, l’allora direttore del Pisa aveva consigliato alla società biancorossa di puntare su di me. Io, dopo l’esperienza al Taranto, in cui mi sono curato per la pubalgia, ero tornato in piena forma. Stavo bene e volevo giocare e lo stesso Sogliano, al momento della firma, mi disse che mi aveva preso nonostante non mi conoscesse affatto, dato che si fidava pienamente dei consigli di Petrachi”. 

Il Varese, in ogni caso, era una neopromossa. Per te, abituato a puntare sempre a grandi traguardi, non poteva essere un rischio quello di andare a giocare in una squadra che, nonostante il blasone, erano anni che non giocava a certi livelli?
“Assolutamente sì, e proprio su questo aspetto vorrei raccontare un aneddoto. Quando sono arrivato a Varese, passati i primi due giorni di ritiro, ho iniziato a farmi una primissima idea sulla squadra in cui avrei giocato, basandomi, però, solo sulle sensazioni che avevo avuto fino a quel momento. Ti dirò che, all’inizio, i pensieri non sono stati dei migliori. Avevo l’idea che avrei incontrato tante difficoltà a raggiungere obiettivi importanti con loro, ma con l’esperienza ho capito che non ci si può basare solo sull’apparenza per dare dei giudizi. La squadra, in realtà, era davvero molto forte, e sappiamo tutti come è andata a finire”.

Ma, oltre al valore dei singoli, possiamo dire che il vero punto di forza di quel Varese fosse la coesione del gruppo?
“Assolutamente sì, ne parliamo spesso anche con mia moglie. Lei mi ha sempre seguito ovunque, sin dai tempi della mia esperienza a Taranto, e più volte abbiamo detto che non siamo più stati così bene come quando eravamo a Varese. Non parlo solo a livello di città, ma anche di rapporti umani. Il gruppo era davvero magnifico, e ricordo ancora che, nonostante andassimo ogni settimana a mangiare fuori con i ragazzi, ogni volta riuscivamo a riempire tavoli da 30/35 persone. Ti assicuro che questa non è una cosa normale, non si vede ovunque un affiatamento del genere. Andavamo tutti d’accordo, da chi andava in tribuna a chi scendeva in campo, e anche con mister Sannino c’era una grande intesa. Insomma, non c’erano malumori, eravamo davvero una grande famiglia e, se siamo arrivati così in alto, è soprattutto per questo”.

Prima di lasciare la Lombardia, però, hai sfiorato un’altra impresa con la società biancorossa. Nella stagione 2010/2011, infatti, hai raggiunto la semifinale playoff, poi persa contro il Padova. Hai qualche rammarico legato a quella partita?
“Forse quei playoff sono l’unica nota negativa che porto dentro dell’esperienza a Varese. Considera che io, all’andata, mi ero procurato uno strappo muscolare piuttosto importante e i vari Zecchin, Neto Pereira ed Ebagua erano indisponibili per diversi motivi. Praticamente, siamo scesi in campo in una partita così importante senza quattro dei titolari e, senza voler togliere nulla ai miei compagni, credo che se abbiamo giocato noi per tutto l’anno c’era un motivo. Sono sicuro che, senza tutte quelle assenze, sarebbe finita diversamente”.

A livello personale, hai sempre fatto piuttosto bene con la maglia del Varese. L’anno della Serie B, sei riuscito a mettere a segno 7 gol in 33 partite, appena uno in meno rispetto all’anno precedente in Serie C. Possiamo dire che avevi trovato davvero la tua dimensione?
“Sì, a Varese, senza ombra di dubbio, ho passato alcuni tra gli anni più belli della mia carriera. È stato lì che sono “esploso” a livello calcistico e solo con i biancorossi sono riuscito realmente a rilanciarmi sotto tutti i punti di vista. Insomma, mi sono sempre sentito a casa e sono stato davvero benissimo”.

Nel gennaio del 2012, però, è arrivata la chiamata dalla massima serie, con l’Atalanta di mister Colantuno che ti ha consentito di realizzare, finalmente, il sogno di una vita. Come è andata in quel caso? 
“Considera che quell’anno io potevo andare sia a Torino, con Ventura e Petrachi che mi volevano nuovamente con loro, che a Siena, dove avrei ritrovato mister Sannino. Io, però, tra le due opzioni avevo scelto i toscani, con i quali avevo raggiunto un accordo pressoché totale e mi rimaneva solamente di andare a firmare il contratto. Il tutto fino a che, un pomeriggio, non ho ricevuto la chiamata della mia procuratrice che mi informava che saremmo andati a firmare non più per il Siena ma per l’Atalanta, una squadra di cui non mi aveva mai parlato prima. A sua detta, i bergamaschi mi volevano tutti i costi e la trattativa è stata davvero rapidissima. In appena una giornata abbiamo raggiunto l’accordo per il trasferimento”.

Come ti sei trovato a Bergamo? Immagino che, rispetto alle altre realtà di cui mi hai parlato, avrai trovato un’organizzazione completamente diversa.
“Ti dico la verità, per la vita che facevo, mi trovavo perfettamente anche a Varese. Avevamo già un figlio, Francesco, e la nostra vita era piuttosto tranquilla. Forse, anche per questo, mi sono ambientato bene in tutte le città in cui sono andato, ma a Varese ho lasciato davvero un pezzo di cuore. In fondo, sono una persona che ama trascorrere il tempo con gli amici e ti ho già raccontato che tipo gruppo ho trovato quell’anno. Era davvero la mia dimensione”.

Arriviamo al 15 febbraio del 2012. L’Atalanta deve giocare il recupero della seconda giornata di ritorno contro il Genoa e, per la prima volta, scendi in campo in una partita della massima serie. Che sensazioni hai provato?
“È stata un’esperienza inimmaginabile. Venivamo da un turno in cui il mister non mi aveva nemmeno convocato e non l’avevo presa affatto bene. Sai, quando vieni da una squadra in cui giochi sempre titolare, ti senti in forma e, soprattutto, ti trasferisci con la promessa di una fiducia quasi incondizionata da parte del tuo allenatore, non è facile accettare di dover rimanere in tribuna. Il mister, notato che il mio stato d’animo non era dei migliori, mi ha rassicurato dicendomi che contro il Genoa avrei giocato titolare, e così è stato. Tra l’altro, quella sera, ho fatto anche un’ottima partita risultando, a detta di molti, il migliore in campo”. 

Se non sbaglio, però, a Bergamo eri arrivato con la formula del prestito con diritto di riscatto. Una volta ottenuto la proprietà del cartellino, perché i neroazzurri non ti hanno confermato anche per la stagione successiva?
“Semplicemente è successo che, a Verona, nel frattempo era arrivato il direttore Sogliano, che mi voleva nuovamente con sé. La stagione, però, non è stata delle più fortunate, dato che tra infortuni e turnover non sono riuscito a trovare troppo spazio. Ricordo che in rosa avevamo 7-8 attaccanti, uno meglio dell’altro. Era davvero una squadra troppo forte rispetto al valore della Serie B e, alla fine, anche se eri in condizione rischiavi di non poter giocare titolare. E poi, di fatto, è giusto che giochi chi sta meglio e nel corso della stagione nessuno può rimanere sempre al top della forma”. 

Nel 2014, torni di nuovo in Puglia, destinazione Lecce. Immagino che, per scendere nuovamente di categoria, fossi arrivato a maturare la decisione di volerti, nonostante tutto, riavvicinare a casa.
“Assolutamente sì. Anche perché, a Gallipoli, abbiamo anche un ristorante e arrivato a 34 anni devi iniziare a fare un certo tipo di valutazioni. Non ti nascondo che quell’anno mi voleva anche il Vicenza, ma con mia moglie abbiamo preso la scelta di tornare in Puglia, dato che aspettavamo anche un secondo figlio. E poi, non neghiamo che il Lecce mantiene sempre un certo blasone, a prescindere dalla categoria”. 

In chiusura, che obiettivi hai per il futuro?
“Difficile rispondere a questa (ride, ndr). Ora sto giocando in Promozione, ma questo sarà l’ultimo anno che farò come calciatore. Ho preso il patentino d’allenatore due anni fa, mi piacerebbe molto intraprendere quel tipo di percorso, ma vedremo che sorprese ci riserverà il futuro”.

Gabriele Rocchi

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