Parlare di Mauro Buzzi Reschini significa mettere al “centro del villaggio del basket” la stragrande maggioranza delle cose positive che la pallacanestro è in grado di regalarci.
Significa mettere in evidenza termini come talento, eleganza, classe, carattere, determinazione, perseveranza, intelligenza tattica, comprensione del gioco, estrema correttezza nei comportamenti, altruismo e tante altre innumerevoli qualità.

Con Mauro Buzzi Reschini – mi raccomando cognome detto al completo, please, non solo Buzzi -, dovrei iniziare il racconto della sua vita partendo, come ho fatto con quasi tutti, dalle categorie giovanili. Ma nel suo caso questo esercizio non è proprio possibile. Non sarebbe giusto farlo. Non sarebbe onesto. Non sarebbe corretto ed il perchè è semplice: Mauro, sulla sua carriera giovanile e in particolare sulle prodezze compiute dal gruppo dei nati nel 1962 – ragazzi protagonisti del secondo scudetto giovanile conquistato dalla Pallacanestro Varese -, ha scritto un libro “Memorie di un tiratore mancino” edito dalla nostra casa editrice Sunrise Media, davvero bellissimo, completo, dettagliato, emozionante, a tratti commovente, al 100% interessante. Dalla prima all’ultima pagina.

Insomma, se gli avessi chiesto di parlare dei suoi anni giovanili, come minimo avrei corso tre rischi: scrivere, probabilmente male, un doppione; fare brutta figura, infilarmi con entrambi i piedi nel reato di lesa maestà. Quindi, meglio saltare a piedi pari questo argomento e passare direttamente al mondo senior
“In realtà – racconta Mauro -, la mia carriera tra i senior inizia da giovanissimo, a 15 anni, perchè dirigenti e staff tecnico della allora MobilGirgi Varese, oltre al campionato Cadetti ci iscrivono al torneo di Promozione per farci giocare di più e soprattutto acquisire esperienza in un campionato decisamente impegnativo sotto il profilo fisico e mentale. Giocare in “Promo” ci consente di toccare con mano quanto può essere ruvido e spigoloso il basket giocato dagli  “uomini” mettendo nel curriculum insegnamenti che risulteranno preziosissimi in futuro”.

E quando inizia il futuro?
“Comincia nella stagione 1980-1981 quando – ricorda l’ala di Viggiù – una parte consistente del nostro gruppo 1962 – Caneva, Pagani, Zanzi e il sottoscritto -, si trasferisce alla Robur et Fides per concludere il percorso giovanile e, soprattutto, disputare il campionato di serie C. La mia prima annata roburina fila via in maniera strepitosa poiché vinciamo il campionato di serie C grazie alla forza di un gruppo magnificamente miscelato tra “anziani” di altissimo livello – Franco Balanzoni, Massimo Guanziroli, Eugenio Canavesi, Cedro Galli – e giovani di belle e grandissime speranze perchè oltre a noi 4 ci sono anche il fenomenale Valentino Schizzarrotto, Carlo Rossetti, Stefano Baldini, Beppe Bottinelli. Guidati da un grande coach come Dodo Colombo cresce una squadra che migliora gara dopo gara, arriva alla poule B in grande forma e conquista la promozione battendo il CMB Rho nel match decisivo”.

Così, a 19 anni, ti ritrovi a giocare in un torneo di grande bellezza come la serie B di quei tempi.
“Hai perfettamente ragione: stiamo parlando di un torneo allora considerato come il vero campionato italiano perchè in B giocano esclusivamente indigeni e, in particolare, tanti giovani che usciti dai settori giovanili usano la B, campionato durissimo sotto tutti i punti di vista, per farsi veramente le cosiddette “ossa”. Per me la serie B inizia sulle ali del sogno e gli esordi sono tanto clamorosi quanto inaspettati. Dopo un mese di campionato mi ritrovo addirittura in testa alla classifica generale dei marcatori con 100 punti segnati in 4 partite e l’exploit di Montebelluna con 39 punti infilati nel canestro della Nordica. Pazzesco: io miglior cannoniere davanti a “mostri” della categoria come Albertazzi, Zorzenon, Natali, Rustichelli e Lesica, leader dell’Omega Bilance Busto Arsizio”.

Cosa ricordi, o meglio come spieghi quella esplosione?
“Molto semplice: complici alcune assenze, Cedro Galli e “Schizza” e partenze importanti, vedi Balanzoni a Venegono e Canavesi a Busto, davanti a me e agli altri giovani si spalancano le porte e coach Dodo Colombo, uno che non ha mai avuto paura di fare delle scelte, ci offre minuti e grandi responsabilità. Di contro noi, sereni, leggeri e, aspetto determinante, liberi di sbagliare, ci diamo dentro a più non posso. Così anche se come squadra retrocediamo, l’annata può dirsi sicuramente positiva per gli incredibili progressi collettivi. Non a caso l’anno successivo, 1982-1983, con il recupero degli infortunati e l’inserimento di alcuni pezzi da novanta come Guidali, Toto Rodà e Marco Dellacà vinciamo di nuovo la serie C battendo Busto al termine di uno spareggio epico in cui per la prima volta capisco in pieno il significato delle parole “giocatore di un’altra categoria””.

In che senso, scusa?
“Nel senso che quello spareggio è marchiato a fuoco dalla presenza di un super giocatore come Rodà. Totino, infatti, nel corso di tutta la stagione si era limitato all’ordinaria amministrazione: pochi punti segnati e tante gare giocate al piccolo trotto, quasi al risparmio. Nella gara decisiva dell’anno Rodà gioca invece divinamente e spiega pallacanestro dal primo all’ultimo minuto: segna 21 punti, smazza assist al laser, gioca benissimo anche in difesa e, più ancora, prende fra le sue mani tutte le responsabilità più pesanti in un finale al calor bianco. Insomma, la più bella dimostrazione del detto: “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare””.

Così, ringraziando Rodà, ti ritrovi ancora in serie B
“L’entusiasmo per la promozione è smorzato quasi subito dalle cattive notizie in arrivo sul fronte famigliare. Per me si apre infatti un periodo durissimo. Tullio, mio papà, si ammala gravemente e mettere insieme impegni lavorativi, seguire il decorso della malattia di papà, tener fede col massimo impegno alle richieste della pallacanestro è davvero complicato. Poi, anche sul versante  basket le cose non funzionano benissimo perché la squadra, affidata a coach Dodo Rusconi, complici seri infortuni nel reparto guardie non riesce ad esprimere tutto il suo valore e, di fatto, non decolla mai. Il mio “annus horribilis” si conclude nel peggiore dei modi con la morte di mio padre nel luglio ’84 ed io decido di mettere da parte la pallacanestro per cercare di ricostruirmi fisicamente e psicologicamente. Invece…”.

Invece?
“Nel mese di ottobre “Rude” Dellacà, ragazzo dotato di grandissima sensibilità, intuisce tutta la situazione e dopo una serie di telefonate mi convince a tornare in palestra insieme a lui che, nel frattempo, si è trasferito alla Gorlese, in serie D. 
“Dai Mauro – mi dice Marco Dellacà -, torna a fare due tiri, anche solo per divertimento. Poi, se si trovi bene, vai avanti e finisci la stagione. Il coach è Dodo Colombo, una garanzia, e l’atmosfera, davvero famigliare e amichevole, ti darà certamente una mano per uscire dall’impasse”. 
Così accetto e mi accorgo che tutte le considerazioni di “Rude” sono vere: a Gorla si sta bene. La società è piccola ma ben organizzata e molto ambiziosa. I dirigenti sono animati da grande passione e i tifosi sono addirittura commoventi nelle loro incredibili e continue manifestazioni di affetto, calore, coinvolgimento e vicinanza. Da lì in avanti l’avventura alla Gorlese, nata quasi per caso – in realtà avevo pensato di andare a Venegono -, si trasformerà nel viaggio cestistico più importante e significativo della mia carriera. Un viaggio destinato a durare un tempo lunghissimo, certamente non programmato: ben 9 stagioni durante le quali ho ricevuto tutto il possibile sia dal punto di vista dei risultati ottenuti – 3 promozioni con un clamoroso salto dalla D alla B1 -, sia, in particolare, sotto il profilo umano. Gorla Maggiore diventa la mia seconda casa e i suoi appassionati tifosi sono tutti miei grandi amici. Tra noi giocatori e il popolo gorlese si crea una simbiosi totale, un tale riconoscimento emotivo che non ho mai riscontrato in nessun altro posto. Per dirla con una frase: noi eravamo Gorla; la gente Gorla era la squadra”.

E, sottolineo, che squadra! 
“Viviamo anni agonisticamente incredibili. Certamente senza confronto. Il ricordo della prima vittoria – il passaggio dalla D alla C2 con Dodo Colombo in panca -, è ancora presentissimo. Così come, l’anno successivo, quello delle 22 vittorie consecutive e del doppio salto dalla C2 alla B2 con coach Franco Passera. Le immagini più nitide di quella stagione sono due. La prima è la foto della palestrina di Via Volta strapiena di pubblico già due ore prima del salto a due. La seconda è legata al segnale della difesa 1-3-1 a tutto campo ordinata da coach Passera. Quando cambiamo difesa il pubblico inizia a rumoreggiare e con un tifo assordante sostiene, anzi, spinge tutti i nostri parziali verso una pallacanestro esaltante”.

E l’acronimo MBR – Mauro Buzzi Reschini -, diventa una sorta di “marchio registrato” di casa-Gorlese.
“In effetti – commenta Mauro – accade quello che io stesso non avrei mai previsto perché sarei dovuto restare alla Gorlese solo qualche mese e invece col passare degli anni ne divento, orgogliosamente, l’uomo-franchigia. Quello in cui tutti i tifosi riescono, e vogliono, identificarsi. Per me si tratta di una sensazione davvero gratificante e non può essere descritto diversamente il destino di un piccolo club che nel giro di pochi anni passa dai piccoli impianti di provincia alla B1 Nazionale; da Via Volta al “Lino Oldrini” di Masnago. Poi, paradossalmente ma non troppo, sono proprio le grandi vittorie che tolgono un po’ di “magia” alla nostra cavalcata. I salti di categoria, che ci costringono infatti ad emigrare prima a Castellanza, poi a Varese, ci allontanano giocoforza dal nostro pubblico. E la mazzata finale arriva esattamente quando raggiungiamo la vetta più elevata, la B1, oggettivamente un campionato sovradimensionato per una piccola realtà come la nostra. Però, al di là del rapido declino,  l’avventura-Gorlese, propiziata in tutto e per tutto da un fantastico personaggio come la signora Tina Borsani, resta ai miei occhi una vicenda sportiva tanto emozionante, quanto romantica”.

Dopo la scomparsa della Gorlese continui a giocare, questa volta al Bosto.
“Riparto dalla serie D anche perché in quegli anni la famiglia, così come gli impegni lavorativi iniziano ad aumentare. Mia moglie e i miei tre figli: Simone, classe 1992, oggi Data Analyst per Sky; Luca, 1995, sceneggiatore e aspirante regista; Davide, 2000, studente di psicologia a Padova, ma prossimo neuroscienziato –  tutti battezzati con nomi rigorosamente privi di “Erre”, ribadisce in tono autoironico stigmatizzando la sua erre moscia -, assorbono la mia attenzione residua e rappresentano la parte più bella e interessante della mia vita ma, rovescio della medaglia, energie e tempo da dedicare alla pallacanestro sono sempre meno. Tuttavia, siccome giocare a basket è sempre straordinariamente bello scelgo di proseguire ad un livello meno impegnativo, seppur in un contesto ottimamente organizzato come il Basket Bosto, club diretto dal g.m. Claudio Bellani. Bosto, poi, è uno squadrone in cui, con “il Carlo” in panca (Colombo ndr) nel ’93-’94 vinciamo la serie D e l’anno successivo in C2 partiamo a razzo, ma purtroppo il serio infortunio capitato a “Mitch” Crespi ci taglia un po’ le ali e chiudiamo l’annata in maniera onorevole a metà classifica. Intanto, per me, suona sempre più forte la campanella dell’ultima ora e, non a caso, nel 1995-1996 appendo le scarpe al chiodo col doppio ruolo di giocatore e assistente di coach Vincenzo Crocetti”.

Già, perché forse non tutti sanno che oltre ad essere un buonissimo giocatore MBR sembrava fosse un predestinato anche nelle vesti di coach.
“Predestinato mi sembra una parola grossa però, è vero, allenare mi piaceva e grazie allo stile appreso dal grande Carlo Colombo, volevo lavorare tantissimo sui fondamentali per vedere e toccare con mano i miglioramenti dei giocatori. Così, ricordo in maniera molto positiva la mia fugace esperienza da coach sia in Pallacanestro Varese, sia a Clivio in un club diretto da amici fraterni. Tuttavia, anche in questo caso, a decidere il percorso sono intervenute esigenze superiori come lavoro e impegni famigliari. Allenare, far bene il mestiere di coach, con grande impegno e serietà intendo, avrebbe voluto dire ancora una volta sacrificare e togliere del tempo a mia moglie Stella, ai miei figli e a tanto altro. Oggettivamente un compromesso che non ero più disposto ad accettare”.

A questo punto, non posso non rivolgerti una delle domande più importanti di questa interessante cavalcata tra i ricordi. Quesito che riguarda la serie A, o comunque il basket professionistico. Perché non ti ho mai visto e applaudito a quei livelli?
“Premessa: nel corso degli anni mi si è presentata più volte l’opportunità di scegliere la carriera da “Pro” grazie alle offerte arrivate da Sassari, Desio e altri club di A2 e A1. Però, a queste richieste ho sempre risposto picche e le ragioni sono in parte le stesse per cui ho scelto di non tentare la carta del “coaching professionale”. Quindi. La volontà di non voler mollare un lavoro sicuro per intraprendere una carriera magari bella, per certi versi affascinante, ma ricca di imprevisti e incertezze. Poi, se posso essere sincero fino in fondo, nella decisione finale ha inciso molto anche il mio atteggiamento distaccato verso il mondo dei professionisti. Giocare a pallacanestro mi piaceva, ma il basket non è mai stato “il centro” del mio mondo. In tutti questi anni non mi sono mai voltato a guardare il mio passato cestistico con lo spirito del “What if”. Anche per questa ragione l’idea di vivere gran parte della mia gioventù intorno ad un “pensiero unico” come la palla a spicchi mi sembrava fosse abbastanza alienante. Avevo allora, ho anche oggi, una sorta di bisogno fisico e mentale di fare altre cose, di dedicare la mia testa e il mio cuore ad altre attività ugualmente gratificanti: le mie vacanze in famiglia, la lettura, la compagnia degli amici, i miei libri, le passeggiate nei boschi di Viggiù. Certo, la pallacanestro mi ha regalato tantissimo sotto tutti i punti di vista. Ho conosciuto persone stupende, vissuto emozioni grandissime, messo nell’angolo della memoria esperienze incredibili e, fuor di metafora, guadagnato tanti soldi “extra” che mi hanno permesso di vivere bene, senza l’assillo di arrivare a fine mese. Ma, ripeto, il basket è stato uno dei tasselli che hanno contribuito a riempire e rendere bella la mia vita. Insomma, non ho rimpianti – cosa brutta i rimpianti -, e ho vissuto con grande serenità le mie scelte. Oppure, per dirla con parole semplici: ho avuto il privilegio di poter vivere la pallacanestro e le mie passioni assecondando lo scorrere dei “miei tempi””. 

Siamo agli sgoccioli e c’è solo il tempo per le tue “nomination”. Partiamo dagli allenatori.
“Risposta facile: per le categorie giovanili vado con Carlo Colombo, coach, fratello maggiore, magnifico insegnante di fondamentali e di vita. Per il basket senior punto dritto su coach Dodo Colombo, buonissimo allenatore ma anche  persona di grande onestà che, tra i tanti, aveva un pregio inimitabile: la capacità di guardarti negli occhi e dirti la verità. Anche quando quest’ultima, dura e sgradevole da accettare, poteva ferirti. Ho sempre apprezzato la sincerità del Dodo pensando che affrontare una verità scomoda è sempre meglio che farsi cullare da una confortevole bugia”.

Compagni di squadra?
“Ovviamente in venticinque anni di carriera ne ho conosciuti tantissimi, alcuni dei quali in possesso di qualità tecniche e umane davvero rilevanti. Sugli “eterni ragazzi” del mitologico gruppo-’62, avendo dedicato loro addirittura un libro, nemmeno mi dilungo. Di tutti gli altri, solo due mi hanno veramente impressionato e lasciato a bocca aperta. Solo due mi hanno fatto dire: questi appartengono veramente ad un altro pianeta! Mi riferisco al compianto Valentino Schizzarrotto che, se non avesse avuto problemi cardiaci, sarebbe arrivato sicuramente in serie A e ne sarebbe diventato protagonista al 100%. Poi cito più che volentieri  il mio grande amico Marco Dellacà, padrone di un talento strepitoso, persino difficile da descrivere a parole. In “Rude”, seppur partendo da presupposti e caratteri estremamente diversi, rivedo la mia strada cestistica perché anche Dellacà non ha mai voluto sacrificare le sue passioni e inclinazioni sull’altare del professionismo a tutti i costi. Io e Marco, insomma, accomunati da un insolito destino: amare la pallacanestro, ma essere gioiosamente consapevoli che oltre al basket c’è altro. Spesso, di più”.

Massimo Turconi

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui