Quante sfumature può assumere la passione? Molteplici, a seconda delle persone e degli eventi con i quali ci si trova ad avere a che fare. Quando questa prende vita, mutando sotto forma di riservatezza, rispetto, sana timidezza ma al contempo eleganza, ecco che il profilo assume i tratti di gentili di Gabriele Ambrosetti.  

Indimenticabile ala del Vicenza che sorprendeva l’Italia e l’Europa nella seconda metà degli anni ‘90, la carriera di Lele ebbe inizio tra le fila del Varese di Peo Maroso e Carletto Soldo, quando giovanissimo debuttò tra i professionisti e si ritagliò quello spazio che gli permise di lanciarsi nel calcio dei grandi, a suon di gol e dribbling ubriacanti. “Gli anni in biancorosso li conservo con grande affetto – spiega Ambrosetti –, per me che sono tifoso rappresentano un ricordo indelebile. Ebbi il privilegio di conoscere persone di grande caratura, con le quali sono rimasto piacevolmente in contatto. Ho sempre cercato di vivere il calcio con sentimento, provando ad apprendere da ogni esperienza vissuta, bella o meno che fosse”.

L’avventura calcistica di Gabriele però non inizia proprio nel Varese…
“Tutto cominciò in una società alla quale sono rimasto ancora molto legato, ovvero il Gazzada. Ci sono praticamente nato e cresciuto, giocandovi fino ai tredici anni d’età prima di passare nei Giovanissimi del Varese. Vivevamo lo sport con genuinità e forte agonismo, la rivalità con lo Schianno era sentitissima e per noi il derby rappresentava l’appuntamento più atteso. Giunto nei biancorossi, feci la trafila fino agli Allievi, ma da lì all’esordio in prima squadra il passo fu breve. Praticamente saltai l’allora Berretti per volontà di mister Peo Maroso, che mi volle inserire in Prima Squadra nonostante avessi solo sedici anni. Un peccato, perché ritengo sia fondamentale per un giovane attraversare tutte le tappe del proprio percorso di crescita, ma al contempo mi diede l’opportunità di lanciarmi”.

E così arrivò il debutto in maglia biancorossa, con la quale diventasti anche capocannoniere della squadra nel 1993 con 9 reti.
“Il mio esordio fu a Fano (30-9-1990, 3^ giornata Serie C1, ndr), ma Maroso mi aveva già convocato la settimana prima per il match contro il Casale: perdemmo 1-0, ma non potrò mai scordare quell’emozione. Fu una stagione per me entusiasmante, poiché ero praticamente un bambino che giocava tra i professionisti. Fu comunque un anno difficile: a fine stagione retrocedemmo, io giocavo col contagocce e non ero contentissimo, perché credo che sia quella l’età in cui un ragazzo deve accumulare esperienza. L’arrivo di mister Carletto Soldo cambiò le carte in tavola, dandomi fiducia e affiancandomi ad Adriano Mosele, secondo me uno degli attaccanti più forti dell’epoca in quella categoria. Sono fermamente convinto che se Mosele giocasse oggi, sarebbe tranquillamente in Serie A. Mi diede sempre grandi consigli sia come calciatore che come uomo, ancora oggi ci frequentiamo”.

Nel ’93, in concomitanza con la retrocessione in Serie D del Varese, ti mettesti in mostra agli occhi dell’ambizioso Brescia del presidente Corioni, a quei tempi in Serie B.
“Era una squadra tosta, appena scesa dalla A nonostante vantasse in rosa giocatori di altissimo valore come Gheorghe Hagi, uniti ad ottimi prospetti provenienti dalla C. In quella stagione riuscii a segnare 18 gol tra campionato, Coppa Italia e Torneo Anglo-Italiano; quest’ultima era un’affascinante competizione oggi scomparsa che riuscimmo a vincere affrontando il Notts County a Wembley. Dispiace che tornei come quello non esistano più, perché rappresentavano vetrine molto allettanti per i giovani. Fu un’annata esaltante: vittoria internazionale, ritorno in A, e grande rapporto tra squadra e città”.

Con il Brescia raggiungesti la massima serie ma in breve tempo ti ritrovasti nuovamente tra i cadetti con la maglia del Venezia: come vivesti quell’esperienza?
“Mircea Lucescu riponeva tanto fiducia in me quanto nella mia crescita, tant’è che da agosto a novembre giocai una decina di partite segnando anche le mie prime reti in Serie A. La società preferì concedermi più spazio, dandomi la chance di crescere in laguna. Riuscii a giocare con regolarità con tutti gli allenatori susseguitisi durante l’arco della stagione, maturando sotto diversi aspetti sia calcistici che personali. In quel periodo ebbi anche il privilegio di conoscere quella che ritengo essere una delle persone più buone nel calcio italiano, ovvero il varesino Davide Pellegrini. Tornato a Brescia, intanto retrocessa nuovamente in B, giocai come l’anno precedente fino al mercato di novembre, prima di cambiare casacca”.

E arrivò la chiamata del Vicenza, la squadra con la quale ti consacrasti.
“Gli anni in Veneto furono fondamentali sotto tutti i punti di vista. Vivemmo stagioni fortunate, perché la rosa era di alto livello e riuscimmo a toglierci soddisfazioni ancora oggi uniche per i tifosi e la città intera: fu una vera e propria alchimia. Basti pensare a mister Francesco Guidolin: all’epoca era al debutto in Serie A, ma riuscì ad imporsi come uno dei migliori allenatori italiani, arrivando ad allenare lo Swansea in Premier League. Un’esperienza condivisa, visto che io fui il suo vice. Non immaginavamo certo di riuscire a raggiungere i risultati che abbiamo ottenuto, ma partita dopo partita acquisimmo maggiore consapevolezza dei nostri mezzi. Era una Serie A diversa da quella di oggi, con grande attrattiva per i campioni dell’epoca: persino le piccole realtà di provincia potevano annoverare giocatori internazionali tra le loro fila. Noi riuscimmo nell’impresa di portare in città la Coppa Italia e correre fino alla semifinale di Coppa delle Coppe contro il Chelsea, un vero tripudio”

Vicenza vi adorava.
“Con la città si creò un rapporto unico, un tutt’uno che non ho più rivisto in altre piazze. Noi membri della squadra eravamo parte attiva della comunità vicentina, come una grande famiglia: loro vivevano per noi e noi vivevamo per loro. Ti faccio un esempio: agli allenamenti pre-partita capitava di trovarsi di fronte a dieci-dodici mila tifosi assiepati ad incitarci. Ho vissuto tante belle esperienze calcistiche, ma quanto successo a Vicenza è stato irripetibile, unico, indescrivibile. Durante l’ultima stagione retrocedemmo ma, nonostante ciò, lo stadio era perennemente tutto esaurito, cosa impensabile se attualizzata ad oggi. Giocare al Menti era affascinante da avversario, figuriamoci farlo da calciatore biancorosso. Ti posso garantire che ancora oggi è così: se chiedi ad un giocatore di scegliere se approdare a Vicenza o in una qualsiasi altra, la risposta la puoi immaginare”.

Galeotta fu la sfida contro il Chelsea, club che ti ha portò a vivere quel sogno chiamato Premier League.
“Avventura importantissima sotto il profilo personale. Oggi andare in Inghilterra sembra una cosa normale, ma all’epoca non lo era assolutamente. Cultura ben differente, ritmi e pressioni di altro genere, un mondo parallelo rispetto a come vivevo il calcio italiano. L’esperienza londinese rappresenta un bagaglio d’esperienza che ancora oggi mi porto dietro, avendomi dato quelle basi che oggi mi sono di grande utilità nel lavoro e nella vita di tutti i giorni”.

Una volta tornato in Italia, ti avviasti verso il finale della tua carriera, chiudendo i battenti con la Fulgor Cardano nel 2009.
“L’esperienza più bella in assoluto. Giunsi su mia richiesta esplicita verso mister Scandroglio, che allenava la squadra e fu mio allenatore ai tempi del Varese: secondo me, una delle poche persone che conosce veramente il calcio e che, soprattutto, sa come comportarsi con i giocatori. Uomo e tecnico di grande spessore che ha ottenuto troppo poco nel calcio; pensa che ancora oggi lo chiamo per confrontarmi con lui. All’epoca ci sentimmo telefonicamente e gli comunicai che avrei voluto chiudere venendo allenato da lui, ovunque fosse. Avevo ormai iniziato a provare disaffezione verso il calcio, nonostante le parentesi con Piacenza e Pro Patria: sentivo il bisogno di vivere qualcosa di totalmente diverso. A Cardano ebbi questa possibilità, permettendomi di ricollegarmi con la vera essenza dello sport. Mi allenavo nel campo di terra dell’oratorio, assieme a gente che si presentava dopo aver lavorato una giornata intera e, nonostante questo, non saltavano un singolo appuntamento rispettando sempre gli orari. Fu bellissimo, respiravo un’aria di genuina passione che ormai da troppo tempo mi era sconosciuta, regalandomi un tuffo nel passato”.

Il cerchio si chiuse quindi dove tutto è iniziato.
“Proprio come dovrebbe essere, inseguo queste sensazioni anche nel lavoro e nella vita di tutti i giorni. In Italia, purtroppo, non avverto più la purezza d’un tempo, cosa che invece riscontro con frequente facilità all’estero”.

Soffermiamoci proprio su quest’ultimo punto. Grazie al tuo mestiere hai la possibilità di viaggiare per il mondo, venendo a contatto con numerose realtà calcistiche: l’Italia calcistica a che livello si colloca nel confronto con le altre nazioni secondo te?
“Lo scenario è desolante, ti porto subito un chiaro esempio. Ultimamente lavoro spesso in Turchia: quando torno in Italia e vedo le nostre strutture mi intristisco parecchio, perché constato l’enorme differenza che c’è. Ma non si tratta certo di un caso isolato, perché potrei parlarti di Slovenia, Croazia, Bosnia, Albania, Portogallo e molte altre… Tutte nazioni in cui gli investimenti nello sport sono stati massicci, costruendo impianti di ultima generazione e garantendo standard di alto livello nonostante non si tratti di federazioni blasonate. In Italia siamo fermi da molti anni senza aver fatto alcun passo avanti e non si tratta di una mera questione economica, bensì di tempo. Abito vicino allo stadio e quando passo nei pressi dell’Ossola non posso che dispiacermi per lo stato in cui versa. Il paradosso è dettato dalla rinomata bravura degli italiani e dall’importanza del marchio Made in Italy, che riscuote successo fuori dai nostri confini ma non all’interno della penisola. Al di là dell’aspetto strutturale, non si può non considerare poi l’aspetto organizzativo, nel quale siamo particolarmente carenti. Un dato tecnico: su un milione di ragazzi italiani, solo l’1,2% di questi riesce a raggiungere la Serie A. Tanto nei settori giovanili, quanto nelle prime squadre e di conseguenza nei rispettivi campionati, gli stranieri occupano uno spazio primario all’interno delle rose”.

Ritieni che il livello generale del calcio italiano si sia abbassato?
“Non mi piace fare paragoni, perché penso che ogni epoca sia a sé stante e non è giusto pretendere di fermare il tempo o tornare indietro. Il calcio di oggi non è più bello o più brutto, ma è senza dubbio diverso. Di recente ho dedicato un intero weekend alla Serie C, assistendo dal vivo a quattro match. Tornando a casa ripensavo ai giocatori coi quali ho avuto modo di condividere il campo ai tempi del Varese: Mosele, Vincenzi, Sogliano, Mazzola per citarne alcuni. Questi erano giocatori da Serie A secondo me, ma lo dico perché penso che la valessero davvero. Oggi ci si è accontentati di una certa mediocrità, posso dire con cognizione di causa è che il tasso tecnico medio è calato mentre una volta per arrivare a giocare professionisti bisognava essere davvero bravi”.

Dario Primerano

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