Chiudiamo gli occhi e immaginiamo la scena: un bambino felice di giocare a pallone all’oratorio che sogna di calcare i campi della Serie A, affiancando i campioni tanto ammirati domenica dopo domenica. Chi di noi non ha mai vissuto questa piacevole sensazione? Per moltissimi questo desiderio è rimasto bloccato tra le braccia di Morfeo (no, non Domenico), ma c’è chi ha saputo tramutare la fantasia in pura realtà.

Mirko Benin ha inseguito la sua chimera raggiungendo ogni obiettivo prefissato, racchiudendo nella sua storia la speranza di tanti bambini. Dal campetto di Cairate al debutto in Serie A con la Fiorentina, passando per Varese, la squadra che lo ha allevato e lanciato nel professionismo a soli 16 anni: “Devo ringraziare mister Mario Belluzzo per l’esordio. La vittoria della Coppa Italia Serie C fu una vera apoteosi”. Dopo oltre quindici anni di calcio giocato, oggi Mirko Benin è un allenatore dalle idee chiare: “I giovani danno tanto lavoro ma anche tante soddisfazioni, è prioritario far capire loro i valori dello sport”.

Innanzitutto, come procede la tua esperienza con gli Esordienti 2010 della Cedratese? Immagino avrai riscontrato delle differenze rispetto al gruppo di under 18 che hai allenato lo scorso anno alla Varesina.
“Mi trovo molto bene, i ragazzi ce la stanno mettendo tutta per apprendere, perciò sono soddisfatto. Passare da un campionato a nove verso quello a undici non sarà facile, ma stiamo lavorando al meglio. Le diversità tra le categorie si osservano sostanzialmente nel ritmo e nelle richieste, ma le dinamiche calcistiche sono più o meno le stesse. Le attività che svolgo qui non sono particolarmente diverse rispetto a quanto facevo con i ragazzi più grandi, con le dovute proporzioni naturalmente”.  

Nonostante la differenza d’età, hai avuto modo di allenare ragazzi adolescenti: una fase tendenzialmente difficile da gestire.
“Tutto sommato si, fanno fatica a mantenere la concentrazione e si distraggono con facilità. Ci sono allenamenti o partite, ad esempio, in cui riescono a rimanere focalizzati, mentre in altre occasioni è proprio l’esatto contrario. Ora, credo sia complicato spiegare quali possano essere le ragioni: a quell’età non è scontato avere la mentalità per rimanere sempre sul pezzo, sebbene questa sia una caratteristica fondamentale per fare bene nel calcio”.

Anche tu però sei stato un giovane calciatore: dove comincia la tua avventura?
“Tutto iniziò all’oratorio di Cairate, il mio paese. Come tanti ho iniziato a giocare nel CSI locale, prima di approdare al Torino Club di Gallarate. Grazie a quell’esperienza ho avuto la possibilità di passare nel Torino Calcio, tra i 12 e i 14 anni: un vero privilegio. In quel periodo sono stato ospitato dalla famiglia di un mio compagno di squadra, col quale frequentavamo la scuola a Ciriè, mentre gli allenamenti si svolgevano tre volte a settimana a Orbassano. Conservo ancora bei ricordi”.

E poi sei passato al Varese.
“Esattamente. Il Torino era ed è una grande società con un importante settore giovanile, perciò, fecero le dovute valutazioni su di me: fisicamente ero un po’ acerbo rispetto ai miei compagni, che invece iniziavano ad avere fisici prestanti, e quindi la mia avventura granata si concluse. Si presentò l’occasione di riavvicinarmi a casa grazie al Varese e accettai di buon grado. Con i biancorossi giocai un anno nei Giovanissimi Nazionali, affrontando squadre del calibro di Inter, Milan e Atalanta, prima di passare negli Allievi. Giunto poi nella Berretti, ebbi l’opportunità di vivere subito la Prima Squadra nella gloriosa stagione 1994-1995, che vide noi biancorossi trionfare nella Coppa Italia Serie C. Mister Mario Belluzzo mi diede fiducia, facendomi giocare qualche partita sia in campionato che in coppa.”

Che ricordi hai del tuo periodo varesino?
“Eravamo una squadra tosta, un bel mix di gioventù ed esperienza: Simone Milani, Mavillo Gheller, Luca Castellazzi, Edoardo Gorini e potrei andare avanti. Ho avuto la possibilità di ritagliarmi uno spazio in squadra anche grazie alla fortuna, poiché Omar Martinetti si fece male e il mister scelse me per sostituirlo. È stata veramente una bella esperienza perché avevo solo 16 anni, eppure potevo confrontarmi con un campionato di livello e contro squadre di tutto rispetto. Ricordo ancora la mia prima partita in Coppa a Monza, in uno stadio suggestivo come il Brianteo e di fronte a una compagine come quella monzese che affrontava la C1. Li guardavo e mi sembrava di stare con gli extraterrestri, mentre io ero un semplice ragazzino che correva per il campo cercando di darsi da fare”.

E ci fu la grande gioia della vittoria in Coppa Italia Serie C, un trofeo prestigioso per la società e per la città.
“Assolutamente, fu un grande percorso coronato al meglio. Non dimentichiamoci che per arrivare fino in fondo, affrontammo in sequenza Solbiatese, Legnano, Monza, Modena, Gualdo, Spal e Forlì: tutte squadre abituate a giocare in C e con solide tradizioni alle spalle. Per noi che arrivavamo dalla D, riuscire a superare diverse squadre di categoria superiore alla nostra, fu motivo di orgoglio”.

Galeotta la stagione ’94-’95, perché ti accompagna alla corte della Fiorentina.
“Come spesso succede, quando un giovanissimo approccia alla Prima Squadra e in un campionato professionistico, le società più blasonate iniziano a informarsi e a muoversi di conseguenza. Durante quell’estate feci diversi provini, tra cui l’Inter, ma alla fine fu la Fiorentina a portarmi in Toscana. I primi anni li passai con la Primavera, ma ci allenavamo spesso con i grandi: Batistuta, Rui Costa, Toldo… Campioni immensi che noi giovano ammiravamo e dai quali cercavamo di imparare. Per osmosi, assorbivamo quel clima di concentrazione e agonismo che serviva per giocare a certi livelli. In panchina sedeva Claudio Ranieri, che mi permise di debuttare in Serie A nel giugno 1997 contro la Sampdoria. Possiamo dire che fu il preludio alle mie cessioni in prestito per accumulare esperienza e farmi le ossa”.

Pistoiese e Ternana prima di tornare sulle sponde dell’Arno: stagioni importanti nelle quali hai sempre giocato.
“A 19 anni arrivai a Pistoia e guidati da mister Andrea Agostinelli, anche lui ex Varese, vincemmo subito i playoff di Serie C battendo in finale il Lumezzane. L’anno successivo in B ci togliemmo lo sfizio di salvarci nonostante una penalizzazione di quattro punti inflittaci a inizio campionato. Insomma, due stagioni tanto belle quanto intense, specie perché ero titolare. Agostinelli, nel frattempo, passò alla Ternana e con lui anche io, riuscendo a concludere un buon campionato che ci portò a ridosso della Serie A. Quegli anni furono fondamentali per me per capire se fossi fatto per stare in quelle categorie oppure no. Imparare a reggere le pressioni, offrire le prestazioni che venivano richieste tanto dalla società quanto dai tifosi, assumendosi le proprie responsabilità. In un mare ricco di squali, penso di essere riuscito a cavarmela egregiamente. Il piccolo rammarico che mi porto dietro è quello di aver subito qualche problema fisico di troppo”.

Nel 2001 torni quindi alla Fiorentina, ma è l’anno del fallimento…
“Mi trovai in una grande squadra ma nel momento sbagliato. Speravo fosse l’anno della mia consacrazione, ma molte cose non girarono per il verso giusto: la società sprofondava nella crisi finanziaria, io ero in scadenza di contratto e da gennaio non vidi praticamente più il campo. A gennaio firmai con il Como per potermi accasare dalla stagione successiva, ma non sapevo che il club lariano avrebbe fatto la stessa fine della Viola”.

Una situazione paradossale.
“Ricordo che nel ritiro precampionato con la Fiorentina nel 2001, un albergo non aveva intenzione di ospitarci perché era a conoscenza delle condizioni economiche del club. Roberto Mancini, allenatore dell’epoca, dovette mettere di tasca propria parte della caparra. Questo era il clima che si viveva in quel periodo, tra stipendi mancanti e morale sotto le scarpe. Trovare le motivazioni per andare avanti e scendere in campo non era cosa scontata. Al Como, ahimè, ho vissuto vicende simili prima del crack ufficializzato nel dicembre 2004”.

Inizia così la seconda parte della tua carriera da calciatore, conclusa poi nel 2011.
“Proprio così. Nel 2004 approdai alla Cremonese, con la quale vincemmo il campionato di Serie C e affrontammo un campionato di Serie B che purtroppo si chiuse con la retrocessione. Sono riuscito a togliermi qualche soddisfazione, ricavandomi anche spazio in campo, ma gli acciacchi continuavano a farmi compagnia e non riuscivo ad avere la continuità che desideravo. Vivacchiare senza poter dimostrare quanto valevo mi faceva più male del dolore fisico, finendo quindi per stancarmi presto del calcio giocato. Nelle ultime stagioni ho giocato tra i dilettanti alla Solbiatese prima e alla Vergiatese poi, vincendo per due anni di fila il campionato e chiudendo definitivamente la mia esperienza”.

Chiuso un capitolo, se ne apre un altro, ed eccoti in panchina.
“Alleno da una decina d’anni ormai, muovendomi in tutte le categorie del calcio giovanile. Sono stato per circa otto anni a Cassano prima di passare, come detto, alla Varesina e infine alla Cedratese”.

Punti ad allenare una Prima Squadra?
“Credo che per farlo siano necessari sponsor importanti: l’aspetto economico oggi è fondamentale. Per gestire gli adulti bisogna conoscere le persone giuste, questo è il mio punto di vista. Pensa che non ho mai voluto fare il patentino UEFA A perché non l’ho mai ritenuto davvero indispensabile per me. Io sono contento di vivere il calcio in tutta tranquillità, allenando i ragazzi e stando lontano da certi stress. Ci sono persone che di questo sport ne fanno una malattia, io fortunatamente riesco a vivere bene lo stesso anche senza. La passione ovviamente c’è ed è tanta, ma mai tale da diventare un’ossessione”.

Dario Primerano
Foto Sprint e Sport

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