A Varese e provincia, fino a qualche anno fa, girava questa storiella: “Puoi aver giocato o allenato anche in serie A, ma se nel corso della tua carriera non hai mai preso un fallo tecnico fischiato da Franco Sala, non conti nulla…“
Franco Sala segue con attenzione queste parole, accenna un breve sorriso, poi passandosi pollice e indice della mano destra sui suoi famosi baffetti replica: “E’ una storiella che ho sentito anch’io e – conferma Sala -, mi è stata raccontata in decine di occasioni ma, sai, come tutte “leggende metropolitane” ogni volta si arricchisce di particolari e soprattutto di esagerazioni perché la realtà è un’altra: in oltre quarant’anni di carriera falli tecnici ne ho minacciati tantissimi ma, stringi stringi, ne ho fischiati pochissimi e solo in casi in cui non si poteva proprio farne a meno. In verità, con giocatori e allenatori ho sempre preferito usare le armi del dialogo e di un confronto improntato all’educazione e al rispetto. Gli stessi elementi, educazione e rispetto, che ritrovo con piacere quando mi capita di incontrare giocatori, allenatori e dirigenti che ho avuto il privilegio di conoscere in tanti anni di direzione arbitrale”.
La “fotografia” di Virginio Franco Sala, che in fondo è tutta qui, rappresenta al meglio uno degli arbitri di pallacanestro più conosciuti e apprezzati non solo in ambito provinciale. L’istantanea descrive compiutamente un uomo che ha interpretato il ruolo di arbitro come fosse una “missione“, dedicando tutto se stesso, con grande passione, ad uno dei “mestieri” che, diciamolo, è tra i più negletti e invisi.
Eppure, nonostante tutto ciò, com’è stato che il “nostro” Franco Sala, classe 1949 e 75 anni portati magnificamente, ha iniziato a fare l’arbitro?
“Prima di darmi al fischietto – racconta Sala -, ho giocato con risultati assai scadenti come play-guardia nel Bosto in campionati amatoriali, ma siccome l’ambiente della pallacanestro mi piaceva e, al di là delle mie trascurabili doti come giocatore in qualche modo volevo farne parte, alla fine del percorso giovanile nel lontanissimo 1970 mi sono iscritto al corso per diventare arbitri organizzato dalla FIP di Varese e diretto da due istruttori di altissimo profilo come Aldo Albanesi e Felice Paronelli. Insieme al sottoscritto partecipano a quel corso aspiranti arbitri che diventeranno ottimi direttori di gara anche a livello nazionale, come Pietro Tallone e Lollo Salmoiraghi, oppure, un livello appena sotto, il mio “socio” Franco Contini. Alla fine del corso ci presentiamo per l’esame che consiste nell’arbitrare un’amichevole della Ignis Varese contro un’altra squadra che, sinceramente, non ricordo quale fosse. Emozionatissimo cerco di fare del mio meglio e, appunto, nel meglio c’è anche un fallo dubbio fischiato al grandissimo Manuel Raga, un mito assoluto per tutti noi tifosi. Però il messicano volante, giocatore correttissimo, non fa una piega, alza il braccio e, meno male, continua a giocare. Superati positivamente gli esami ricevo, con una certa trepidazione, la mia prima designazione: una nebbiosa domenica mattina di novembre a Vedano, campo all’aperto, per dirigere una partita Juniores Femminile tra Vedano e Mariano Comense. Dopo l’esordio, nel giro di due anni fatti di tanta gavetta, i commissari valutatori, mi promuovono in serie D avvertendomi che per l’età avanzata sarebbe stato difficile andare avanti. Invece, un po’ a sorpresa, dopo due stagioni in serie D dal CIA, Comitato Italiano Arbitri, mi comunicano la promozione in serie C accompagnata da un’altra doverosa postilla: per limiti anagrafici la serie C, terzo campionato nazionale, sarebbe stato il mio massimo traguardo. Per me, che ormai non ci speravo più, si tratta comunque di un momento di gioia indescrivibile e più che soddisfatto mi presento nella nuova categoria. In serie C girando l’Italia in lungo e in largo arbitro per quattro anni durante i quali raccolgo sempre ottime considerazioni e buoni voti da parte degli osservatori. Così, in maniera ancor più sorprendente e in barba all’età, a 40 anni mi arriva anche la promozione in serie B. Nella serie cadetta arbitro per circa 8 anni al termine dei quali tiro la riga definitiva su una carriera che considero davvero più che soddisfacente e gratificante tutti i punti di vista anche se, ribadisco, la variabile età mi penalizza non poco”.
In che senso, scusa?
“Penalizzato perché a parità di prestazioni/votazioni la preferenza degli osservatori giudicanti va ai colleghi più giovani molti dei quali, oltre ad essere davvero bravi e preparati anche sotto il profilo fisico e atletico, sono al massimo del rendimento mentre per me è già inesorabilmente cominciata la fase calante. Così, la serie B rappresenta il mio massimo livello e col senno di poi devo anche aggiungere che non avrei mai pensato di arrivare tanto in alto anche perché, in tutta onestà, devo riconoscere che davanti a me avevo dei veri “mostri sacri” del fischietto. A conti fatti, credo di aver chiuso in bellezza perché, giusto ricordarlo ancora una volta, avevo iniziato senza particolari ambizioni, ma solo per il piacere e la gratificazione di restare nel mondo della pallacanestro”.
Tuttavia nel mondo del basket, pur avendo lasciato l’alto livello, ci sei rimasto per altri trent’anni, giusto?
“Esatto: smessa l’attività nelle categorie nazionali ho arbitrato per lunghissimo tempo a livello provinciale e regionale in campionati nei quali ho sempre fatto la mia parte, credo buona, sia tecnicamente, sia fisicamente. Tre decenni che, sempre col fischietto al collo, sono volati via in maniera simpatica perchè, cosa vuoi, in provincia di Varese ci si conosce tutti. Con tanti giocatori, allenatori e dirigenti alla fine si è instaurato un rapporto di collaborazione e addirittura di amicizia ma pur sempre nel rispetto dei reciproci ruoli”.
Della prima partita hai già raccontato, ma dell’ultima cosa ricordi?
“Ricordo tutto e, ripensandoci, provo ancora tanta emozione perché abbandonare definitivamente fischietto e magliette varie – grigio chiaro, grigio scuro e maglia a strisce verticali -, è stata davvero dura. La mia ultima direzione arbitrale, Robur et Fides Varese contro Stella Azzurra Roma, è andata in scena nel “Trofeo Garbosi” del 2022, quindi a 73 anni suonati e devo aggiungere che è stato bello e significativo chiudere arbitrando una “banda” di ragazzini scatenati”.
Adesso che le bocce sono ferme e puoi tirare un consuntivo, quale pensi sia stata la parte più difficile, più gravosa, della professione di arbitro?
“Mmmmmhh… A mente fredda direi restare concentrati sulla partita e dimostrare assoluta serenità nelle decisioni perché nel corso di una gara tutti, giocatori, allenatori e arbitri, commettono errori e nel nostro caso non si può e soprattutto non si deve rimuginare su questi ultimi. L’errore, che ci sta e fa parte del gioco, va subito “resettato” tant’è vero che ad alcuni allenatori e giocatori che mi accusavano di sbagliare ero solito rispondere: “Errori? Li rivedremo questa sera alla moviola…”, lasciando intendere che la cosa più importante era andare avanti nel gioco senza farsi distrarre. Poi, è chiaro, nei confronti di alcune “teste”, polemiche a prescindere, il comportamento migliore era tagliar corto e fermare le proteste in tempo zero”.
Ti sei mai trovato davvero nei guai, ovvero nella classica situazione “assedio negli spogliatoi con annesso intervento della forza pubblica”?
“E’ successo, a Marsala mi è successo anche questo – annuisce con un mezzo sorriso Frank -. Insieme al mio amico e sodale Franco Contini arbitravamo a Marsala il derby di fuoco contro Trapani. Negli ultimissimi secondi di una gara fondamentale per la qualificazione ai playoff fischiamo un fallo contro Marsala. Un giocatore di Trapani va in lunetta, segna il 2 su 2 che sigilla la vittoria ospite per 1 punto e immediatamente una cinquantina di tifosi di Marsala, incazzati come bufali, scendono dalle tribune per “complimentarsi” con noi. Dopo un rientro in spogliatoio reso difficoltoso tra spintoni, sputi, insulti e chi più ne ha, più ne metta, parte l’assedio che dura oltre un’ora. Alla fine schivando anche una violenta sassaiola riusciamo a salire su una macchina della polizia che, a sua volta scortata da altre pantere, ci porta fino all’albergo e da qui, recuperate le valigie e praticamente incolumi raggiungiamo l’aeroporto. In quella circostanza ce la siamo vista brutta ma, insomma, un solo episodio di intemperanza in trent’anni di carriera ci può stare, no?”
E a livello provinciale?
“Non sto nemmeno a descriverti l’espressioni dipinte su alcune facce quando mi vedevano entrare nelle palestre varesine e varesotte. Le parole più simpatiche potevano essere: “Oh ca…spita, questa sera ci arbitra Sala quindi, ragazzi, regoliamoci di conseguenza”. Poi però, le stesse facce le rivedevo in centro a Varese, o al palazzetto di Masnago e lontano dalla “trance” agonistica, ci si salutava con simpatia e affetto”.
Per quale giocatore, nel bel mezzo di una partita, ti saresti fermato per applaudirlo a scena aperta?
“Per Bob Morse, senza alcun dubbio. Nutrivo una vera venerazione per Bob, giocatore e uomo dotato di straordinarie e grandissime qualità. Negli anni ’70 ho avuto l’onore e il privilegio di arbitrare tantissime amichevoli infrasettimanali giocate da Pallacanestro Varese e Morse, oltre fare sempre canestro, prendere rimbalzi e difendere alla morte, si è sempre comportato in modo correttissimo. Un vero “maestro” di correttezza e un esempio di educazione”.
Arbitrare in categorie importanti vuol dire “fare coppia”, spesso fissa: avevi un compagno di avventura preferito?
“La risposta è: “No, nessuna preferenza”, perchè mi sono sempre trovato bene con tutti: Salmoiraghi, Mascheroni, Buccella, Baroffio e compagnia. Però, è chiaro, insieme al già citato Contini, con cui ho fatto coppia quasi fissa per cinque anni, c’era un “feeling” speciale”.
Aneddoti?
“Tantissimi, ovviamente. Tra tutti ne scelgo uno particolare: la partita giocata in onore di un grandissimo come Aldino Ossola che ho arbitrato insieme al compianto Bruno Arena, mio grande amico e persona stupenda per carattere e simpatia”.
Chi senti di dover ringraziare per il tuo percorso arbitrale?
“Devo qualcosa a tutti i bravissimi istruttori che ho avuto però, se proprio devo assegnare un “plus”, questo va sicuramente a Felice Paronelli che, in qualità di arbitro internazionale, mi ha offerto dei consigli di grandissima importanza sotto il profilo tecnico e sul modo di gestire i momenti della partita. Paronelli nei miei confronti è stato una guida autorevole e sempre disponibile”.
Quali sono stati i tuoi “top” in carriera?
“Beh, al netto della già citata questione anagrafica, direi che arbitrare gare di grande importanza in serie B maschile sia stato comunque un notevole punto d’arrivo. Poi, in qualità di arbitro di B maschile sono stato designato per dirigere le Finali playoff scudetto in A Femminile tra Pepper Mestre e Zolu Vicenza. Tuttavia, se parliamo di pura soddisfazione personale credo che il mio podio olimpico sia rappresentato da tre competizioni che, in senso stretto, esulano dai vertici della pallacanestro tricolore. Sul gradino più alto del podio colloco il riconoscimento come Miglior arbitro alla Finali Nazionali Juniores disputate a Messina nel 1983. Al secondo posto metto la partecipazione alla “tournèe” internazionale in Cile e Argentina giocata dai Roosters Varese nell’estate 1999, quella post-scudetto della Stella. La Pallacanestro Varese, pur non essendo il sottoscritto presente nella lista degli arbitri internazionali, mi scelse come direttore di gara al seguito insieme a Felice Paronelli che, invece, Internazionale lo era già da tempo. Ancora oggi ringrazio la coppia Toto Bulgheroni-Gianni Chiapparo per avermi offerto l’opportunità di vivere una impagabile esperienza professionale e di vita. Il gesto realizzato da Toto e Gianni ha significato davvero tantissimo in termini di fiducia, stima e considerazione nei miei confronti. Sull’ultimo gradino colloco, tutte quante insieme, le migliaia di gare arbitrate a livello provinciale. Mi sono costante tanti sacrifici: ore di lavoro perse e recuperate facendo straordinari, corse pazze in macchina per raggiungere le varie palestre, cene a base di panini sbocconcellati e, in numerose occasioni, anche incazzature gigantesche. Tuttavia, depurati questi aspetti, devo anche aggiungere che il livello di umanità, simpatia e divertimento che ho toccato con mano nei campionati ultradilettantistici porta con sè qualcosa di impagabile e irripetibile. Trovarsi in palestre di periferia, buie, fredde, spesso inospitali, mi ha fatto capire che dentro abbiamo una forza misteriosa. Una carica interiore difficile da definire che nonostante una giornata stressante di lavoro o di studio, nonostante il traffico, la fatica, il disagio, ci spinge ad uscire la sera per affrontare altre difficoltà, versare altro sudore e, talvolta, portare a casa nuove delusioni. Questa forza misteriosa che ci unisce si chiama: infinito amore per la pallacanestro”.
In conclusione c’è un messaggio che vorresti lanciare al mondo del basket?
“Sì, c’è. Ed è un messaggio significativo per mezzo del quale vorrei ricordare a tutti un aspetto molto semplice: una partita può iniziare senza i migliori giocatori, senza gli allenatori, i dirigenti, i tifosi e i genitori ma, mai e poi mai, si può disputare senza l’arbitro o, comunque, qualcuno che la diriga. Questa regola che viene dimenticata con grande frequenza, dovrebbe far capire a tutti che noi “fischietti” siamo parte non solo del gioco, ma anche di quel meccanismo meraviglioso che scatta dopo ogni iniziale salto a due e col passare dei minuti ci riempie di emozioni. Un meccanismo che andrebbe costantemente oliato con ingredienti indispensabili: pazienza, rispetto, “fair-play” e tanta, tanta educazione in più. Sul parquet e sugli spalti…”.
Massimo Turconi