Per favore: prima di iniziare la lettura di questo articolo guardate bene il viso di quest’uomo con il numero 7 sulla maglia, anzi, sulla “mitica” canottiera MobilGirgi anno 1976 -1977.

Quest’uomo, il cui nome è Richard Peter Rinaldi, è il giocatore “misterioso” che in pochissimi a Varese abbiamo avuto la fortuna di veder giocare. Fortuna che sconfina nel sacro privilegio perchè Rinaldi, nella pur lunghissima, quasi interminabile, sfilata di campioni che la Pallacanestro Varese può esibire, occupa o, per meglio dire, avrebbe occupato un posto di rilievo fra i grandissimi.

Insomma: uno dei più forti giocatori stranieri mai capitati sotto il Sacro Monte. Un giocatore che senza sforzi inserisco nel mio ideale, e va da sè personalissimo, quintetto di stranieri “All-Time” che, nelle varie epoche, hanno vestito la gloriosa maglia della Pallacanestro Varese insieme a Charlie Yelverton, Manuel Raga, Bob Morse e Corny Thompson.

Richard “Rico”. Rinaldi, nato a il 3 agosto 1949, play-guardia di 191 cm. per 88 chili, dotato di straordinario, inarrivabile talento ed elevatissimo QI cestistico è padrone di una interessante e bella storia che, al di là dei suoi intriganti agganci varesini, merita di essere raccontata.

“Sono nato a Poughkeepsie – dice Rinaldi -, stato di New York, a circa 100 chilometri da “Big Apple”, da papà John, un “terrone” (Rinaldi si esprime proprio in questi termini…) di Benevento e mamma Annunciata, detta Nancy, di origini abruzzesi. Sono il secondo di tre fratelli, William, classe 1943, purtroppo scomparso nel 2014 e John jr. classe 1952. Cresco in un quartiere con una fortissima matrice italiana frequentando la chiesa e la scuola cattolica del quartiere. La mia adolescenza è del tutto simile a quella di tantissimi ragazzini americani: scuola e tanto, tantissimo sport. A me piacciono molto il baseball e il basket e, sia detto senza presunzione, me la cavo abbastanza bene in entrambi. Quando finisco le media superiori a Roosevelt High School ricevo offerte di borse di studio da numerose università di tutti gli Stati Uniti, ma alla fine scelgo di rimanere vicino a casa e frequento un piccolo ateneo regionale, il St. Peter’s University, nel  New Jersey. Negli anni del College metto insieme un carrierone e nel terzo anno sono il secondo marcatore di tutti gli States con 1571 punti segnati a quasi 29 punti a partite di media. Al College mi laureo in Sociologia e alla fine entro nelle scelte NBA chiamato dai Baltimore Bullets e, allora, con un numero ridotto di squadre rispetto a oggi era un’impresa non di poco conto. Tra NBA e ABA gioco 84 partite in poco più di due anni con un secondo anno molto buono a quasi 9 punti di media. I New York Nets mi rilasciano e per un anno gioco nei Memphis TAM in ABA che all’inizio della mia quarta stagione, annata sportiva 1975, mi rilasciano. A quel punto prendo in seria considerazione l’ipotesi di una carriera oltreoceano, ma davanti a coach Sandro Gamba, in una sorta di provino organizzato a Jersey City dal famoso agente Richard Kaner faccio una figuraccia e giustamente l’allenatore di Varese nemmeno mi fila”.

Tu, una figuraccia: faccio fatica a crederci…
“Invece devi, è proprio così. Purtroppo arrivo a quel “try-out” in pessima forma e poco concentrato perchè alle prese con altri problemi. Sono nel pieno della bufera di un divorzio molto stressante e, comprensibilmente, ho in testa mille cose tranne la pallacanestro. Così in quei tre giorni, fatti di continue partite tra i tanti giocatori in vetrina, gioco davvero male e coach Gamba fa benissimo a non prendermi in considerazione. Anch’io mi sarei comportato allo stesso modo”.

Dodici mesi dopo, però, la storia cambia all’improvviso e firmi  un bel contratto con la MobilGirgi: come sono andate le cose in quella circostanza?
“Nell’estate del 1976 sono in Italia con la compagnia della Riccadonna All Stars (una squadra formata interamente da giocatori USA che, in cerca di ingaggio, partecipa a tutti i tornei estivi più importanti nda) e coach Gamba al torneo di Cefalù rimane finalmente incantato dal mio gioco. Dopo un brevissimo colloquio sottoscrivo un contratto che mi lega alla Pallacanestro Varese nella famosa stagione 1976-1977, quella degli oriundi. In quell’anno infatti Federazione e Lega permettono ai club di serie A di tesserare, in aggiunta allo straniero previsto dal regolamento, anche un oriundo in possesso di documenti italiani”.

Poi, che succede?
“Prima di tutto dovrei raccontarti della mia enorme felicità perchè, dopo un paio d’anni vissuti tra depressione post-NBA e senso di inutilità la mia vita, grazie alla pallacanestro, riprende a girare in maniera positiva. Al termine della “tournèe” con la Riccadonna, torno a casa mia in America, mi alleno come un pazzo e il 19 di agosto, felice come un ragazzino, sbarco a Varese pronto ad iniziare questa nuova avventura cestistica. Alla Girgi trovo tutto quello che mi è stato promesso e descritto: una squadra fortissima, una società con un elevato livello organizzativo e la concreta prospettiva di dominare l’annata. Dopo circa tre settimane di allenamenti durissimi, con MobilGirgi inizio a girare in lungo e in largo la penisola per disputare i più prestigiosi tornei pre-stagionali. A Castelfiorentino e al “Battilani” a Bologna faccio un figurone e alla fine di settembre ci trasferiamo a Buenos Aires, per disputare la Coppa Intercontinentale che chiudiamo al secondo posto dietro il Real Madrid. Un paio di giorni successivi al ritorno dall’Argentina il nostro general manager Giancarlo Gualco mi convoca in sede e senza troppi giri di parole mi comunica che l’accordo con la Pallacanestro Varese è carta straccia perchè i miei documenti da oriundo non sono validi e io non sono in regola. Quindi, stop, i presupposti perchè io resti a Varese non ci sono più. In quel momento il mio sogno, iniziare una lunga e bella carriera ad alto livello in Italia e in Europa, si sgretola e, di fatto, mi crolla il mondo addosso. Per me si tratta di vera mazzata disastrosa”.

Per quale ragione i tuoi documenti non sono considerati validi? Qual è l’inghippo che ti impedisce di giocare?
“L’inghippo mi viene spiegato per filo e per segno dal nostro g.m. Giancarlo Gualco qualche giorno dopo la decisione presa dalla Federazione. Alla base di tutto c’è, o per meglio dire ci sarebbe, la rinuncia definitiva alla cittadinanza italiana da parte di mio nonno e quindi, mio padre, per i documenti USA risultato essere solo cittadino statunitense. E, purtroppo, dai documenti in mio possesso non riscuote nessuna importanza che, al contrario, mia madre fosse ancora cittadina italiana”.

Qual è la tua reazione?
“Vedo il mondo crollarmi addosso e, dovete credermi, nella mia vita non ho mai più provato una delusione simile e il mio stato d’animo in quei giorni è più che comprensibile. La realtà è che la mia vita fa schifo: ho 27 anni, la mia carriera cestistica, partita benissimo in NBA si è fermata in una palude di soffocanti sabbie mobili. Sono reduce da un matrimonio infelice, un divorzio problematico e, giusto per chiudere il cerchio, ho pochissimi soldi in tasca. Insomma, in quel momento il contratto con la MobilGirgi sembrava la classica luce della speranza che vedi in un tunnel buio: buoni soldi, 35 mila dollari esclusi i premi e la prospettiva di giocare una pallacanestro bella e divertente nella squadra più forte e importante d’Europa. E invece, nulla. Tutto bruciato nel giro di pochi minuti>

E, quindi, come prosegue la vicenda?
“Dopo aver ricevuto la notizia informo Marino Zanatta e “Zago” di fronte a Gualco prende subito le mie difese e, nel concreto, impone al dirigente della Pallacanestro Varese di mantenere il mio posto in squadra, fosse anche e solo in qualità di “sparring-partner”. Così, grazie al suo importante ruolo, resto a Varese come aggregato alla squadra. Mi alleno regolarmente col gruppo, faccio tutte le attività previste ma, purtroppo, in campionato e in Coppa dei Campioni giocano loro e a me tocca guardare. Ovviamente cambia anche l’accordo economico e, di fatto, il mio contratto subisce un taglio del 50% rispetto alla cifra precedente, ma almeno i soldi sono sicuri e l’ambiente è uno dei migliori che si possa trovare”.

Cosa ti rimane attaccato alla pelle di quell’anno varesino?
“Tante, tantissime cose e alcune delle esperienze più belle e interessanti della mia vita. Dal punto di vista umano sono contento e assolutamente gratificato dal fatto di aver conosciuto persone stupende. Tra queste spicca, come un gigante, quella di Marino Zanatta: un uomo delizioso, sensibile, profondo e dotato di grandissima generosità d’animo. Fuori dall’ambiente della pallacanestro frequento due persone fantastiche come Giancarlo Spissu e Giuseppe Frattini che potrei semplicemente definire come i miei due “angeli custodi” lontano dal parquet. In particolare il carissimo Giancarlo che nel mio anno varesino è sempre disponibile per risolvere ogni problema, anche il più insignificante o per qualsiasi mia esigenza. “Mister Spissu”, che in seguito è diventato un buonissimo amico, è stato un personaggio preziosissimo”.

Invece, parlando di pallacanestro, che ricordi hai dei tuoi compagni varesini?
“Fin dal primo contatto rimango impressionato dalle incredibili capacità tecniche di Aldo Ossola. Il nostro play ha fondamentali pazzeschi e in virtù di questi potrebbe giocare in tutti i ruoli. Ma quella MobilGirgi, a parte Randy Meister, oggettivamente giocatore non all’altezza dei compagni, è una squadra dotata di grandissimo talento in tutte le posizioni del campo ed è difficile trovarle dei punti deboli: Zanatta, Bisson, Iellini sono di gran lunga i migliori esterni italiani e poi ci sono due fenomeni come Morse e Dino Meneghin”.

Hai sorvolato su Bob Morse e Dino Meneghin: parlami di loro, per favore
“Morse, senza dubbio il miglior tiratore tra i tanti che ho visto in carriera, è un giocatore in grado di sviluppare impensabili livelli di concentrazione. Un minuto prima siamo in spogliatoio a ridere e scherzare, ma appena entra in palestra Bob, in un battito di ciglia, si trasforma in una terrificante, e inesauribile, macchina da canestri. Infine, c’è Dino: un giocatore con un carattere vincente che, come diciamo in USA, è “larger than life” e sono davvero contento di aver conosciuto quello che è stato definito il miglior giocatore della sua epoca”.

Nei primi giorni di maggio del 1977 lasci Varese per tornare negli USA per le vacanza estive: con quali prospettive?
“Il mio futuro è già ben delineato perchè nel frattempo ho già firmato un buon contratto che mi lega al Basket Bellinzona. Alla fine di quella estate torno, appunto, in Svizzera avendo dentro una tale frustrazione per quello che mi era capitato a Varese che avrei spaccato il mondo. I miei avversari elvetici si accorgono molto presto che io scendo in campo sempre, sempre animato da una carica speciale e gioco non solo per vincere, com’è normale, ma anche per distruggere tecnicamente, fisicamente e moralmente chi mi sta davanti. Anche in Svizzera ho conosciuto persone speciali come Aurelio “Paso” Pasini, mio compagno a Bellinzona, ottimo giocatore sui due lati del campo, ma soprattutto un difensore straordinario per intensità, coraggio, grinta e mentalità da vincente. Pasini, di giorno lavorava come meccanico in una officina e dopo il lavoro, non certo leggero, veniva in palestra e nonostante fosse comprensibilmente stanco ci “ammazzava” tutti mettendo incredibile grinta, determinazione e carattere. Lo ammiravo molto per questa tenacia. Gli anni in Svizzera comunque corrono via in fretta e in grande serenità, tutti tranne l’ultimo a Ballinzona perchè il presidente viene arrestato a stagione in corso e tutti quanti dobbiamo dire addio ad una fetta consistente dei nostri contratti. Insomma: dopo 5 anni, a 32 anni d’età, lascio definitivamente Svizzera, Italia e Europa e faccio ritorno definitivamente in America per cominciare quella che definisco la mia terza vita”.

Rinaldi 3.0: racconta…
“Dopo due lunghi giri di giostra – NBA e basket europeo -, mi ritrovo al punto di partenza e devo riprendere in mano la mia vita dalle fondamenta. Per quattro anni lavoro come agente di commercio per un’azienda di Jeffersonville, Pennsylvania. Poi, finalmente, nel 1999 passa davanti il “treno giusto”, quello che aspettavo da tanto tempo. Proprio in quel periodo infatti comincio a lavorare per la NBA per un progetto di inserimento a fine carriera dei giocatori professionisti nel mondo reale. Un percorso che io stesso avevo sperimentato e pagato a carissimo prezzo sulla mia pelle. In buona sostanza in 18 anni di lavoro molto intenso ho seguito oltre un centinaio di giocatori aiutandoli a costruirsi una seconda vita, la più dura. Quella in cui devono badare a loro stessi. Quella in cui si affrontano i problemi quotidiani. Quella per la quale, volenti o nolenti, bisogna prepararsi perchè il rischio di perdere tutto, identità compresa, è molto più elevato di quanto non si creda. Per questo sono soddisfatto per aver aiutato tanti giovani a trovare la loro strada nel mondo. Per tanti di loro sono diventato come un “buon papà” e in numerosi casi ho intrecciato relazioni umane profondissime con persone eccellenti”.

Ma il tuo curriculum professionale racconta di altre esperienze importanti, giusto?
“In effetti, legata all’attività NBA e in collaborazione con Newhouse Communication Center, il canale televisivo di Syracuse University per 10 anni ho seguito un progetto col quale abbiamo offerto gli strumenti necessari agli ex-NBA interessati ad entrare nel mondo del giornalismo sportivo il qualità di commentatori, “seconde voci” o analisti tecnici. Così, se oggi tantissimi campioni della moderna NBA – Shaquille O’Neal, Iguodala, Vince Carter, Thiago Splitter, Brevin  Knight, Malik Rose e compagnia – sono protagonisti positivi sui canali TV USA una piccola parte del merito è anche mia”.  

L’ultimo capitolo riguarda la tua vita privata: rispetto al “delirio varesino-elvetico” è cambiato qualcosa?
“E cambiato tutto. E in meglio, per fortuna. Tornato negli USA ho conosciuto Susan, la splendida ragazza che ho sposato nel 1987. Abbiamo avuto due figli: John e Kate. John è ortopedico specializzato in chirurgia della mano mentre Kate è maestra d’asilo. Poi, per non farmi mancare nulla, un po’ di anni fa, ho scoperto di avere un altro figlio, Bill, nato da una fugace relazione. Oggi sono bisnonno felice e soddisfatto di cinque bellissimi bambini: Kayla, Luke, Greyson, Neveah e Roman e mi godo la mia vita da pensionato tra Skippack, dove risiedo, e Miami, città dove ci piace trascorrere frequenti vacanze”

E Varese? E la Svizzera?
“Varese e la Svizzera sono sempre nel mio cuore. Sono tornato a Varese qualche anno fa in un tour organizzato, pensa te, nientemeno che da Bob Morse e in città ho rivisto Zanatta, il mitico Sandro Galleani e qualche amico. La Pallacanestro Varese? Sinceramente seguo pochissimo il basket e, comunque, sono passati quasi cinquant’anni e la pallacanestro è cambiata tanto. Troppo”.  

GIANCARLO SPISSU

“Rico Rinaldi? Grandissimo personaggio, ragazzo meraviglioso e super giocatore”, racconta in tono convinto Spissu che lungo la sua permanenza varesina è stato l’uomo-ombra di Richard.

“A quei tempi – continua Spissu -, collaboravo con la Pallacanestro Varese, seguendo in particolare i giocatori stranieri che, di volta in volta, mi venivano affidati dal signor Gualco, g.m. della MobilGirgi. Per questi ragazzi facevo da traduttore e factotum ma, tra i tantissimi che ho avuto la fortuna di conoscere, Rico mi è rimasto nel cuore per la simpatia, la disponibilità e la grande carica umana. Abbiamo subito legato e la nostra amicizia dura tutt’ora perchè ci sentiamo spesso e in qualche occasione ci siamo anche visti. Un’amicizia nata tra solidarietà e affetto, tant’è vero che il nostro rapporto amichevole è continuato anche nei suoi anni in Svizzera e spesso andavo a fare il tifo per Rico a Bellinzona. Ma, in realtà, Rinaldi non aveva bisogno del mio sostegno perchè a Bellinzona era un idolo assoluto, osannato dai tifosi”.    

E come giocatore: che ricordo ne ha?
“Dico solo che per noi sostenitori varesini, dopo averlo visto  in allenamento e giocare in qualche torneo, lo avevamo immediatamente posizionato nella schiera dei grandissimi. E, aggiungo, siamo tuttora convinti che con Rinaldi in squadra quell’anno agli avversari avremmo lasciato solo le briciole. Quindi, un vero peccato non averlo avuto con noi”.

MARINO ZANATTA

“Rinaldi? Ragazzi, ma che giocatore era il “Gattone”? Fantastico, incredibile, con un talento persino difficile da descrivere…” Queste parole sibilate da “Zago”, uno che di giocatori ne ha visti parecchi, rendono l’esatta dimensione delle qualità di cui era in possesso Rinaldi.

“Semplicemente fuori dall’ordinario e – continua il grande Marino – dopo averlo visto giocare in alcuni tornei pre-stagionali, durante i quali aveva letteralmente incantato, gli avversari avevano drizzato le antenne. In particolare i campioni d’Italia della Virtus Bologna che molto intimoriti dalla nostra forza, per bocca del loro presidente, l’avvocato Porelli, fecero partire minacce abbastanza esplicite al nostro Giancarlo Gualco: “State bene attenti ai documenti del vostro oriundo perchè, se non è in più che in regola, Rinaldi non passa e facciamo scoppiare un casino”. Ovviamente queste minacce vennero rivolte solo a Varese, mentre su altri oriundi, in possesso di passaporti più o meno folcloristici approdati in altre squadre, Porelli non fece nemmeno un accenno. Insomma: alla fine i nostri dirigenti anzichè insistere in una stressante battaglia di carte bollate preferirono lasciar perdere. Solo che a quel punto il povero Rico era rimasto senza squadra. Allora, in qualità di “sindacalista” della squadra, mi presentai da Gualco dicendogli: “Caro Giancarlo, come la mettiamo adesso con questo ragazzo? E’ con noi da quasi tre mesi, si è integrato alla perfezione nel nostro gruppo, è simpatico, sempre disponibile e in più è un giocatore fortissimo. Oggi però è rimasto senza squadra e per colpa di questo “scherzetto” ha perso anche l’opportunità di firmare altri importanti contratti. Quindi, almeno in segno di rispetto per la persona, ti chiedo a nome della squadra di tenerlo con noi come “sparring-partner” di gran lusso in allenamento fino alla fine della stagione. Rinaldi, presente al mio monologo, rimase emotivamente sorpreso per questa accorata difesa d’ufficio nei suoi confronti eleggendomi seduta stante al rango di “amico per la vita”. Ma devo aggiungere che la nostra amicizia sarebbe rimasta in piedi anche senza quella “arringa” perchè è impossibile non voler bene e apprezzare uno come Rico, uomo generoso e intelligente. Tant’è vero che anche l’NBA lo ha valorizzato a lungo proprio per la sue eccellenti capacità relazionali”.

E come giocatore?
“L’ho già detto: fantastico. Tiratore infallibile, passatore sublime e grazie ad un fisico pazzesco era capace di giocare in tutti e tre i ruoli perimetrali. Avessimo avuto anche lui, la disgraziata finale di Coppa Campioni di Belgrado (vittoria di Maccabi Tel Aviv 78-77, ndr) sarebbe finita in modo nettamente diverso. A fine allenamento insieme a Morse e Meister dava vita ad interminabili 1 contro 2 durante i quali i nostri americani facevano numeri di elevatissima qualità scambiandosi botte degne di un ring “MMA” e Rinaldi, di fronte a quei due colossi, non faceva un passo indietro e molto spesso li batteva. Che spettacolo, Rico!”

Massimo Turconi

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